Intervista su Wuz

 (l’articolo originale è qui: http://www.wuz.it/intervista-libro/5291/veronica-tomassini-sangue-cane.html) .

di Sandra Bardotti

Abbiamo chiesto a Veronica Tomassini, autrice di Sangue di cane, di parlarci del suo libro e della sua scrittura. Sangue di cane è stato edito da Laurana, e rispecchia le ambizioni di una casa editrice che punta sulla letteratura di qualità.

Leggi la recensione di Sangue di cane

Come nasce Sangue di cane? Perché la cultura slava, e nello specifico polacca? Da dove nasce questo amore?

Ho amato gli scrittori russi  fin da ragazzina. Dostoevskij, Tolstoj, Cechov,  Gogol’, Gorkij, i contemporanei Saul Bellow e Isaak Babel.  Non saprei dire la ragione. Ammiro la loro capacità di tradurre il dolore, l’empietà, dentro una specie di elogio del paradosso, il realismo russo in definitiva. Per quanto mi riguarda, volevo raccontare storie assurde, vere e perciò grottesche, posando sul dramma, sulle cose, uno sguardo lucido, un’apparente ingannevole distanza che avrebbe dovuto seppellire il lettore nella nostalgia, utilizzando il “riso col suono del singhiozzo” (per dirla con Giacomo Prampolini). Ma quel che raccontavo riguardava me, dunque quel che è accaduto sul piano narrativo è stata la mediazione tra le esigenze dell’autofiction e le influenze (certe influenze) letterarie. Quel tipo di metauniverso che incocciai riguardava – e ancora oggi credo non sia cambiato molto – una specie di esercito di eroi capovolti, umiliati e offesi dalla storia, una storia di proscritti, parto di tempi maledetti e di frontiere ancora memori e fallaci. Incontrai questi eroi indigesti, che indossavano il loro balzello immorale eppure in un certo senso nazionalista, la vodka, un vero pilone sociale, con orgoglio, pietosamente fieri di un’appartenenza esigente (la proscrizione), bardati di un dolore secolare, un tedium perenne. Incontrai uomini malati di alcol e nostalgia, dal mio piano privilegiato sebbene autobiografico, attraverso l’amore di un uomo polacco, costretto a dimenticare le sue radici e la sua identità. Uomini, globetrotter funerei, ex qualcosa, ex padri, ex operai di Lodz o di Chelm, deformati dall’alcol, vivevano nelle grotte, nelle fogne di una città perbene e tutto sommato distratta, e morivano sempre. Di alcol, di nostalgia. Siracusa ha peccato di leggerezza e di ottimismo, mentre un drappello di eroi capovolti, figli di una storia che ha smermbrato, dilaniato, morivano ancora e ancora. Negli anni in cui è ambientato il romanzo, metà anni ’90 fino ai giorni nostri, i polacchi erano inchiodati al ruolo di badanti o pitocchi, questo nella visione generale anzi generalista della città sicula, abbastanza sicura dei propri pregiudizi e delle proprie fragilità.

Foto di Laura Fisauli

Si respira un forte senso di pietas cristiana nel tuo libro. È così eccezionale che sentiamo che non appartiene alla nostra cultura, questo sentimento di devozione, ma proviene probabilmente dall’est polacco che ami, dove l’osservanza religiosa raggiunge i massimi vertici in Europa. A ciò si accompagna la sensazione che il tuo libro sia a tratti davvero poco “italiano”. Mi confermi questo pensiero e questa sensazione?

È così. La protagonista ha incontrato il suo amore polacco che aveva poco più di vent’anni, dunque se vogliamo è una ragazzina confusa di sogni e ingenuità alle prese con il dolore del mondo che lei, non solo metaforicamente, avrebbe voluto guarire, tergere, insieme al suo uomo polacco, tergendo le piaghe del suo uomo polacco. Forse quell’uomo, dal suo tabernacolo luminoso, demarcava un passaggio essenziale, molto sentito, una vera ovvietà: la distanza sociale. E la questione si giocava tutta lì, dentro quei dieci venti metri che separavano la coscienza borghese dalla via, dalla verità. Quell’uomo polacco, per tutti senza identità, senza fissa dimora, rivelava, nel suo sottopassaggio, marcio e intestino, una possibilità di salvezza. Per cui la “giovinetta” imparò nell’abiezione, nell’immoralità, ad usare pietà e misericordia.

Sangue di cane fa uso di una lingua composita, che alterna lirismo e durezza realistica, basso e alto. Insomma, una scrittura letteraria, raffinata eppure nuda nella sua urgenza di dire. A partire da questa riflessione, volevo chiederti: da cosa deriva l’urgenza di raccontare questa storia? C’è un intento di critica sociale dietro Sangue di cane?

No, non volevo fare denuncia sociale, o forse sì, ragionandoci adesso.  Sicura solo di un fatto: quanto avevo visto, vissuto, era talmente straordinario che non potevo tacerlo.

Chi è Veronica Tomassini? Come lavora?

Vivo in Sicilia, ma non sento radici. Sono siciliana, umbra e abruzzese (non so decidere quali origini prevalgano) e ho un bambino che ha anche sangue polacco. Scrivo per mestiere da parecchi anni, ma ricordo solo una gavetta infinita. Qualche piccolo risultato, finché non è arrivata la mia ora, che è questa qui.

Quali reazioni ha suscitato il tuo libro? 

È stato accolto bene, dalla critica (dalla grande critica), dai lettori, dai blogger. Considero tutto ciò un regalo del cielo. Non avrei mai pensato davvero. Ancora adesso, di tanto in tanto, mi ritrovo a  considerare, a bassa voce, con un certo pudore: succede a me? Quella che alle campestri da ragazzina arrivava trentaquattresima o si fermava al primo giro: a me? Per una volta dico: sì, proprio sì.

 

22 novembre 2010  

 

Di Sandra Bardotti