di Simone Zanin
La parola è sacra, o non è. Sacra pur nella sua imperfezione di non essere divina, bensì umana, terrena. E quindi scandalosa, estrema, persino blasfema (che è un sacro di segno opposto: anche Lucifero ha in sé una valenza sacrale nella sua ribellione). Sacra, a dire elevata, distinta, unica, contrapposta alla ripetibilità di ciò che sacro non è: il dissacrato, ciò che non è parola, bensì chiacchiericcio, brusio di fondo che mescola i suoni e distrae il pensiero. Se la parola è ciò che non può essere ripetuto, essa si paragona quindi con ciò che è assoluto per disvelare la sua valenza: cosa diresti se fosse l’unica cosa che puoi dire? Cosa scriveresti se non ti fosse più data possibilità di scrivere? Nel confronto con l’assenza, è la misura più vera del gesto. Ecco allora che molte cose ritrovano il loro posto nell’ordine che devono avere e la crusca si separa dal fior di farina, il superfluo cade e rimane l’essenza, ciò che di più necessario deve restare, quello che più, seppure umano, avvicina l’eternità. La letteratura deve diventare, quindi, estrema unzione senza assoluzione, perché domanda senza attendere risposta (e non perché già la conosca, ma perché non è suo compito); è sacramento senza il compimento del rito, simbolo senza didascalia. È peccato consapevole, rifiuto della regola imposta, bestemmia senza perdono. Solo così dispiega tutta la sua potenza.