Category Archives: Vodka Siberiana
Vodka Siberiana, l’intervista su Out Out
di Niccolò Ratto
Intervista a Veronica Tomassini
Niccolò Ratto ha incontrato per i lettori di Out Out Magazine la scrittrice Veronica Tomassini, autrice dei romanzi Christiane deve morire (2014), L’altro addio (2017), Mazzarrona (2019), candidato al Premio Strega, e Vodka siberiana (2020).
Chi è Veronica Tomassini, a quale età ha iniziato a scrivere e come si relaziona con la scrittura?
Scrivo ufficialmente da circa vent’anni, ho cominciato in una redazione siciliana. Ma ho sempre avuto un diario, un preciso sguardo sul mondo. Uno sguardo obliquo, forse, la tendenza a cacciarmi nei guai, per capire. La predilezione per il dolore altrui come il sentiero da percorrere in attesa di una qualche verità.

Vodka siberiana, come è nato e soprattutto come si colloca all’interno della sua produzione letteraria.
Nasce dalla necessità di raccontare anni irripetibili, il primo spostamento di esseri umani dentro un esodo biblico, negli anni ’90, metà anni ’90, dopo la caduta del Muro. La prima immigrazione elefantiaca proveniente dall’Est Europa. Sono finita dentro un destino, nel vortice della grande Storia, non lo sapevo ancora, ma mi preparavo a diventare una testimone. Credo che allora si stesse definendo un destino molteplice, non ultimo il mio, quello di scrittrice. “Vodka siberiana” racconta quegli anni, attraverso un amore, impossibile ovviamente, come ogni meraviglia nella mia vita, connotata da un significato imperscrutabile o inesorabile e dall’insoluto. Il romanzo chiude una trilogy. Inaugurata con “Sangue di cane” (Laurana 2010), quindi seguita da “L’altro addio” (Marsilio, 2017), e infine conclusa con “Vodka siberiana”, autopubblicato.
Perché la scelta di un formato epistolare?
Amo moltissimo una seconda persona da utilizzare, narrativamente, come ad assecondare un tono, lo permane, permane lo spirito tragico del testo. Restituisce il senso del vocativo, dunque è implicita una specie di preghiera; le lettere diventano il salmodiare del questuante, del misero. Diventano il gemito dello spirito querulo che non capisce, che procede a tentoni nell’enormità degli accadimenti. La vita e la morte che si interrogano continuamente, il senso escatologico di esistenze amene, tutto ciò aveva bisogno di un espediente letterario adeguato, la forma epistolare mi sembrava la soluzione migliore. Ecco perché.
Quali i riferimenti testuali o gli influssi letterari che l’hanno accompagnata durante la stesura di Vodka Siberiana.
Il realismo russo, è quasi un fatto implicito, un diktat. Ma stavolta anche Limonov, raccontato da Carrère.
Dalle sue opere traspare il costante desiderio di raccontare l’emarginazione. Ce ne può parlare?
La scrittura si è presentata così, in questa veste. La curiosità che diventa pietà per l’abiezione; la pietà è un sentimento violento, potentissimo. Il mio sguardo da bambina – lessi precocemente “Christiane F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino” – finiva di solito dove gli altri lo toglievano; dove per gli altri riparava l’ombra, per me iniziava la luce. E da adulta, la mia vita non ha sconfessato l’assunto. Ho realizzato che avrei dovuto riferire l’eccezionalità, la straordinarietà di un destino, malgrado i miseri figuranti. Una massa informe e collosa di perdenti, che io ho amato moltissimo, tuttavia.
Spesso nei suoi lavori si possono scovare tracce di una sottile religiosità, qual è il suo rapporto con la religione?
Il mio è un dialogo costante con Dio. Non sempre e non certo risolto. Non potrei immaginare una vita senza Dio. Ogni dettaglio della mia vita è Dio.
Come definirebbe il suo stile?
Oh non saprei, lo definiscano i lettori, al limite.
Il suo amore per la cultura slava, quando è nato e perché.
Nei miei vent’anni, leggendo i russi. Poi incontrando i film di Kusturica.
L’editoria italiana oggi. Il suo rapporto con essa e le motivazioni che l’hanno spinta ad autopubblicarsi.
L’editoria? Non so più onestamente quanta attinenza ci possa essere oramai tra letteratura e editoria. Decido di autopubblicarmi semplicemente perché non c’erano interlocutori. E non me sono pentita affatto, al contrario.
Quali sono stati i suoi maestri e quali le opere che ogni buon scrittore dovrebbe conoscere.
Come accennavo, i nostri maestri russi, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Gor’kij, Gogol. I neorealisti, anche.
Attualmente sta già lavorando al prossimo progetto?
Ho una serie di inediti a cui pensare. E un prossimo romanzo che dovrebbe uscire nel 2022.
L’originale è uscito qui: https://outoutmagazine.com/2021/03/29/intervista-a-veronica-tomassini/
Vodka Siberiana su I Gufi Narranti.
INTERVISTA A VERONICA TOMASSINI – VODKA SIBERIANA; LETTERE EPICHE ALTICCE – AUTOPRODOTTO.
Abbiamo da poco recensito “Vodka siberiana; lettere epiche alticce”, scritto da Veronica Tomassini, di autoproduzione e abbiamo ora la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con l’autrice. Buongiorno, grazie essere passata a trovarci, possiamo darci del tu?
- È la prima volta che ci incontriamo: vuoi farci conoscere qualche curiosità del tuo carattere?
Mah. Difficile dire così. In linea di massima sono una persona introversa, apparentemente mite e gentile.
- Visto il titolo e il contenuto del tuo romanzo, cosa pensi del consumo di alcool sempre più diffuso tra i giovanissimi?
Ne posso pensare solo tutto il male ovviamente, nel senso non posso che dolermi. Tuttavia il romanzo non ha alcuna funzione sociologica e pedagogica, andremmo proprio fuori tema. Allo scrittore, a me perlomeno, non interessa la morale del mondo, ché non esiste in un uso oggettivo universale.
- Il tuo romanzo si è preso tutte le libertà espressive che un’autoproduzione può permettersi. È stato difficile raccontare una storia come questa?
Racconto solo quel che conosco, in fondo è una narrazione pedissequa di fatti della mia vita. La scrittura per me è dolore, molto spesso lo è. Alla base di una poetica, c’è una ferita. Altrimenti è qualcos’altro, non saprei cosa però.
- Interessante l’idea della struttura del romanzo a suo modo epistolare, com’è nata?
Il vocativo, più che la seconda persona, attiene a una supplica, a un salmodiare se vogliamo. I fatti che racconto, il patto implicito che stabiliscono, hanno avuto necessità di questo velo di pianto e dannazione che diventa una preghiera, un salmo, un’invocazione. Le lettere contengono un mistero, il mistero del vocativo, il tu al quale ci rivolgiamo.
- Poiché hai sulle spalle una serie di libri prodotti da diversi editori e questo è autoprodotto, c’è qualcosa della pubblicazione classica che ti è mancato?
L’editoria non ha nemmeno preso in considerazione questo testo. Non mi è mancato nulla, al contrario, per la prima volta ho visto un risultato anche economico del mio lavoro, cosa che non posso dire per gli altri libri. La libertà, infine, il non dover subire cialtronerie e mediocrità altrui. Ho ricevuto un’attenzione (parlo della stampa) altissima. No, non mi è mancato nulla.
- Nella carrellata di personaggi che compaiono in “Vodka siberiana; lettere epiche alticce”, c’è qualcuno realmente esistito?
Tutti.
- Mi ha colpito molto molto la figura “del professore e della creaturina” vuoi dirci qualcosa in merito?
Creature angeliche, fuori dal mondo, un attraversamento verso la conversione. Un patrimonio averli avuti miei, in qualche modo.
Grazie mille per la disponibilità, arrivederci a presto sempre sulle pagine de I Gufi Narranti.
David Usilla
Ilaria Palomba su Vodka Siberiana: una catabasi vertiginosa.
di Ilaria Palomba
“Vodka Siberiana” di Veronica Tomassini è un’opera auto-pubblicata, che si può acquistare solo contattando l’autrice. Scelta coraggiosa, quella dell’autopubblicazione, pericolosa, coraggiosa e rivoluzionaria. Verrebbe però da chiedersi per quale motivo uno dei migliori romanzi italiani degli ultimi anni non sia stato pubblicato da un grande editore. Lungi dal fornire una risposta a questa domanda, vorrei semplicemente fare qualche riflessione sul libro di Veronica e su cosa è – e cosa può essere – letteratura.
Vodka Siberiana racconta un amore sovrannaturale, una catabasi vertiginosa, un dono – un farsi dono e dissiparsi nell’altro – due mondi che si compenetrano, a tratti s’identificano: l’est e il sud, descritti mediante lettere a sé stessa, che non sono lettere ma funzioni religiose. Veronica ricorda il passato in seconda persona, un passato destinato a un altro sé, che accoglie il vissuto frammentato nel tempo, le sue relazioni tossiche eppure estremamente umane, e proprio per questo estremamente umane. Vite marginali, ebbre, attanagliate da un destino buio e da un implacabile desiderio d’infinito – di Pietà.
Veronica Tomassini descrive il disagio, la povertà, la periferia ma lo fa con tratto onirico, in ciò risiede la sua sfida: raccontare storie minime con uno stile massimo, rendere onore alla disperazione mediante la religione. La differenza è il segno che si fa chiodo, il tratto costitutivo dell’esistenza, ciò che ci rende dissimili dalla bestia e dall’ordine numerico.
I paesaggi sono metafisici, anche se possiamo intuire dove ci troviamo, siamo in un altrove assoluto, nel fondo di un’anima, in una periferia esistenziale. Tomassini prende le mosse da Limonov di Carrère, lo fa proprio, e crea una trama-lingua – non pura trama ma lingua che trama – che non può essere disgiunta dal vissuto, dalle suture della memoria.
«Parlavi con il professore ed era bizzarria e stranezza ovunque e ovunque per questo si ristabiliva l’ordine giusto dei fatti, che si succedevano, abnormi, compassionevoli, in casa della creaturina tutto era perdono. La vita stessa entrando in casa della creaturina diventava una preghiera incessante, voi con le vostre sventure, la vostra amoralità sopra la considerazione del buon gusto, diventavate preghiera, persino voi, intendendo la breve ressa convulsa di richiedenti qualcosa. Derelitti, orfani dell’indulgenza e tuttavia affogati nell’indulgenza che vi attraversava, come una ferita si apriva e lasciava che esondando l’empietà si colmasse di mestizia e misericordia. Misericordia. Hai cominciato allora forse – non ricordi bene, ma è probabile – a pronunciare la parola: misericordia. E più terribile dell’amore è la pietà. E ancor di più la misericordia. Terribile: che non ha mai fine. Terribile come un confine dell’eternità.
Vedi? Non sono folgorazioni? Tutto sommato, non lo sono?
La pietà ti è stata inoculata anche se vogliamo. Con quella gente lì, quei balordi. Come Limonov guardando al suo paese dopo Chruscev, Breznev. La sua gente. Un popolo che non avrebbe avuto mai una vita normale. Piuttosto – scrive Carrère – volti verderame, ma mai rubicondi. Piuttosto treni devastati dall’uggia, un’uggia sovietica, la povertà costipata, come in una camerata, passeggeri miseri, con miserie in valigie legate, disadorne provviste, conserve nauseabonde. Una rimessa insopportabile di umiltà e resa. Limonov indovina il terrore ingenerato dalla pietà. Un terrore che non sa smettere, l’espiazione su larga scala, rimbalza fino a noi, diventando pietà, preghiera. O lo chiamerai terrore.»
Qualcuno ha definito questo romanzo poema, qualcun altro le ha detto: «Sei da Adelphi». Se ne scrivo è soprattutto per questo, sono tra coloro che vorrebbero la Tomassini pubblicata da Adelphi, tra coloro che tifano per una rivoluzione letteraria: non più fatti, non più narrativa – com’è possibile fare narrativa oggi? – ma mondi poetici, interiorità, onirico, immaginario. Anche una storia realistica può essere raccontata mediante l’immaginario ma – ancor più oggi che siamo invasi da programmi di cronaca nera, violenza domestica, fiction su mafie varie ed eventuali, film che parlano di cruda realtà, che ci assillano con la realtà – penso che la realtà possa essere raccontata mediante l’immaginario – l’inconscio – che ne è il fondamento. Esiste una differenza tra verità e realtà, la verità è nel non detto, il non detto della parola poetica, – che seduce e allude – il non detto della parola filosofica che, come voleva Lyotard, desidera il desiderio a partire dal lutto dell’unità, perché l’unità del senso è perduta.
Possiamo davvero ricalcare le grandi trame – quelle che furono di Hugo, Balzac, Dostoevskij, Tolstoj, Dickens, Brönte? Possiamo davvero ricalcare idee che furono di Joyce, Proust e Musil? Possiamo ancora giocare a fare i postmodernisti dopo Pynchon e Wallace? O non dovremmo piuttosto nietzschianamente rivolgere la punta del dolore contro noi stessi? Qualche mese fa, a proposito di “Due vite” di Trevi, avevo scritto che, dopo le grandi narrazioni dell’Ottocento e le avanguardie del Novecento, non ci restano che due cose da raccontare: la memoria e l’assurdo. Veronica racconta la sua memoria ma lo fa in modo assurdo, e questo assurdo è tutto ciò che si può dire, perché oggi davvero non esiste altro che si possa dire se non la distorsione di cui siamo composti – e decomposti – ripercorrere la vita – la propria e le altre – con il filo indicibile della poesia.
Hölderlin a un certo punto decise d’impazzire, stanco di essere sé stesso, iniziò a firmarsi Scardanelli, e allora cominciò a vedersi nelle cose, nei luoghi, negli alberi, nei boschi che percorreva uscendo saltuariamente dalla torre di Tubinga, in cui decise di abdicare al mondo. Veronica Tomassini, dalla sua personale torre di Tubinga, racconta il vivo e il margine, un’esistenza in bilico, la scelta di deviare, e lo fa con la maestria dei poeti. In ciò – nel ripercorrere la sua storia – supera ogni accademica, astratta storia.
L’originale su Suiteitaliana qui: <a href=”https://suiteitalianalt.blogspot.com/2021/03/romanzo-poema-e-autoproduzione-su-vodka.html?m=1&fbclid=IwAR2FFdCwl9FmBMOD0MrOtdH0nCQYIrjxgj1BvEWl6mVOaxp7hPaTa1RasN0″>
LA RECENSIONE – L’AMORE, L’AULICO E L’OSSESSIONE IN “VODKA SIBERIANA” DI VERONICA TOMASSINI
di Paride Candelaresi

Ho chiamato Veronica una mattina di metà gennaio. Mi ha risposto in maniera cortese, apparentemente timida. Mi è parsa cordiale, ma schiva. Mi ha inviato il suo romanzo, Vodka siberiana, auto-pubblicato. Di norma non li leggo – gli auto-pubblicati, intendo –, ma ho fatto un’eccezione. Veronica Tomassini è una donna originale: siciliana, enigmatica, risoluta e selvatica come solo alcune donne del Sud sanno essere. A pagina 62 del suo libro, dice «Novembre in Sicilia ha la levità della primavera che procede verso l’autunno». Come non rimanere ammaliati da così tanta poesia. E ancora «è una gran fortuna nascere nella giustizia». Sono molte le frasi laconiche di questo genere, brevi calcoli poetici. Lettere epiche e alticce quelle di Veronica, missive che lei scrive a sé stessa.

La Tomassini è una drammatica e prodigiosa scrittrice molto apprezzata – ha all’attivo i romanzi Il polacco Maciej, Christiane deve morire, L’altro addio, Mazzarrona. C’è chi l’ha definita rivoluzionaria, controcorrente, tragica, viscerale. Cerco di non farmi influenzare troppo dalla fama che la precede e comincio a leggere il libro. D’altra parte le recensioni iperboliche che ho letto delle sue opere non mi hanno ancora convinto ma lei, ammaliante come una strega, mi folgora con lo sguardo obliquo che attraversa la sua pagina Instagram. Ci sono una serie di foto del suo viso senza filtri, dettagli del suo volto, alternati a immagini del suo corpo minuto, bellissimo, senza testa. Mi chiedo, chi è Veronica? Impossibile nel suo caso disgiungere l’opera letteraria dal suo creatore.
Comincio a leggere le prime pagine. «La solitudine è la fossa più spaventosa dove guardare, e devi guardare, e devi farlo, in cui distinguere la degradazione delle pedisseque e ignobili circostanze di sventura». Caspita, penso questa ha piombo da sparare. Dunque, vado avanti. La scrittura di Veronica è infettiva, usa la seconda persona, è depositaria arcaica di sapienza letteraria.
I cambi di prospettiva sono caramelle amare da digerire. C’è il suo alter ego, una giovane donna che racconta della sua tormentata esistenza. Lo fa grazie al mezzo più nobile, l’amore. Il suo è oscuro, puro, difettoso, altissimo. È rivolto al siberiano, uno zingaro dai denti d’oro, slanciato e virile nel suo magro fascio di muscoli. Ha il viso bello ed eroico, quadrato e con gli zigomi scolpiti. È sessualmente attraente perché coriaceo, esotico, sempre sbronzo. «Zapoj la chiamano i russi. La sbronza per settimane, un vagabondaggio di visioni alticce traboccanti di deliri, la rivendicazione di un proletariato afflitto da una giustizia inesatta e da infinite inanità».
Scrive bene Veronica, penso. E ci sono molti riferimenti alla letteratura russa che farebbero tremare l’inutile esistenza di molte zuccherose colleghe scrittrici. Emmanuel Carrère si manifesta più volte in vorticosi costrutti di parole che distinguono la prosa di Vodka siberiana. Va a braccetto con Hlasko e Dostoevskij. Veronica vola alto e il suo elogio della solitudine è groppo in gola per il lettore.
Forte è l’influenza del personaggio di Limonov, teppista in Ucraina e idolo dell’underground sovietico, proprio come quegli indigeni che abitano il parco descritto nel romanzo: derelitti, stranieri, dissidenti. Eccitanti nel loro imbarazzante odore e portatori di disordine. Sono uomini smarriti, selvaggi che fanno tremare in tutta la loro esuberante primordiale sensualità. Mi fermo a riflettere su quello sciame di parole, poi vado avanti nella lettura.
Il testosteronico siberiano della Tomassini diventa soglia verso un nuovo mondo che l’avvia alla morte per non tradire la sua fede. C’è un martedì di novembre che cambia per sempre l’esistenza della giovane donna, innocente e borghese prima, lurida e immorale dopo. La donna a cui scrive la Tomassini è vittima di un incantesimo malato, diventa bersaglio di un intervento magico, fragile peccatrice nella sua imponente e delicata bellezza.
Ma torniamo a quel giorno «forse era martedì. Ed era novembre. Hai preso la lampada azzurra e l’hai infilata in una sacca. (…) Novembre è un mese tetro. In Sicilia, la primavera non finisce mai, si chiama inverno». Gli struggenti e balenanti capoversi del finale illuminano le pagine di quell’aura che ha avuto santa Cecilia, la giovane nobile romana che nel III secolo si avviò alla morte pur di non tradire la sua fede. Se per lei la morte è ingresso in una dimora preziosa e ornata (San Paolo), la protagonista del libro di Veronica Tomassini si abbandona a una coerenza definitiva, assoluta e radicale verso l’Amore. «La consolazione? La consolazione è grazia. Attraversi le spire del fuoco, la solitudine ti ha piegato le ginocchia».
Ho letto questo libro in una settimana. Le pagine, fitte di aulici ed epigrammatici versi, obbligano il lettore a prendersi delle pause. Oppure lo inchiodano alla sedia. Mi ha disturbato quella scrittura implacabile, lapidaria, soffocante – non lo nascondo. La sua prosa solenne si piega alla descrizione di provocanti balordi, imbarazzanti prostitute, inquietudini e incertezze perché la Tomassini pensa come una donna e una madre, ma scrive come un uomo. È scultorea, plastica e imponente, fragile, esile, effimera, fugace. Ci sono gli oleandri, le magnolie e i fiori selvatici. E poi c’è l’Amore in tutta la sua bruciante potenza distruttrice.
Le lettere di Veronica non si trovano in libreria e neanche online. Se volete leggere il suo libro dovete andarvelo a cercare perché i tesori, si sa, non sarebbero tali se facilmente raggiungibili. Potete tapparle la bocca, ma lei non smetterà di gridare. Non è da tutti essere per pochi.
Avevo pensato di intervistare questa scrittrice ribelle della letteratura contemporanea. Poi, a fine lettura, ho deciso che lei avrei fatto solo una domanda, una sola, apparentemente semplice: che cos’è l’amore per Veronica Tomassini?
“L’amore è l’assedio, l’ombra che Qualcuno ci ha lasciato addosso, perché nell’assenza, la Luce per deduzione, ne rivendicassimo la sola appartenenza. L’amore è lo spazio vuoto, la sedia tolta. È una vita in pezzi“.
L’originale è uscito sulla rivista Il detonatore, il 9 marzo 2021
QUI: IL DETONATORESu Vodka Siberiana: Le parole salgono in testa
Di Andrea Consonni

“Non lo cercare e perdona. Nemmeno da adulta riesci a recuperare. Torni la bambina scarmigliata, amatemi, vorresti urlare. Ma ti mettono al muro, oggi come allora, ti mettono al muruo, ti inchiodano al silenzio, come quando eri bambina. Così la tua testolina è andata in tilt. Il tuo alter ego cattivo. Ti sei salvata, però. Ti salvi da sola, perché sei fatta di un’altra pasta, appartieni a una categoria superiore, sei una di quelle che non muore mai, che più muore, più non muore mai.” (pag. 63)
Ne faccio 42 quest’anno. E ne avevo solo 5 quando vidi al sicuro dentro a una bara il miglior amico di mio padre. Donato. Freddato da un tumore al fegato. 35 anni. Una vita bevuta a Martini. Me lo ricordo come un tormento sorridente. Perché durante il rito funebre vidi un rivolo di sangue uscire dalla sua bocca. Gli volevo un bene dell’anima. Era per me un angelo custode che mi teneva sulle ginocchia invitandomi a chiedergli cosa avrei voluto che lui disegnasse per me. Ero un bambino che già viveva di incubi e deliri. L’avevo già scampata bella. Troppo fragile sin nell’utero. Mia madre mi guardava con occhi consolanti. Lei che gli occhi li aveva di due colori diversi. Un rivolo di sangue. Marilena mi carezzò i capelli. Lunghi. Ancora biondi. Ero disperato. Il mio amico Donato forse era ancora vivo. Ci sto pensando dopo aver bevuto troppe birre da mezzo litro. Senza aver mangiato un cazzo. Perché poi quando poi parli di alcool si fatica a farsi capire. Ecco, c’è un ritmo sospensivo di coscienza che ho respirato splendidamente “Vodka Siberiana” l’ultimo romanzo (autoprodotto e per acquistarlo dovete scrivere direttamente all’autrice) di Veronica Tomassini, una delle migliori scrittrici italiane viventi. Leggeteli tutti i suoi romanzi e non fermatevi solo al suo folgorante esordio del 2010 “Sangue di cane”. Quando crolli su te stesso senti le parole che si sciolgono in testa, che bruciano, che vivono, che scappano. Perché in fin dei conti è solo una conta. Dei giorni. Dei bicchieri. Delle ferite. Delle scopate. Non ho nemmeno le parole per scrivere di questo libro. Perché ha il sapore di un bicchiere bevuto di prima mattina senza preoccuparsi troppo di cosa accadrà. Di ulcere, di fegato a pezzi, di fica, di cazzo. Perché ne hai bisogno di quel sapore. Perché potresti bere fino alla morte e ballare e innamorarti. Il sapore di una perdita. Mi ricordo di aver morso quella bara. O forse no. Tendo a raccontarmelo oggi. È tutto così semplice. Ma il ritmo, il respiro che si portano dietro le pagine di questo romanzo è quello del sangue che sale dallo stomaco mescolato alla bile, ai rimorsi, alle scelte sbagliate, al vomito, alle lacrime, alla bellezzha. È come se mentre lo stavo leggendo mi stessi ferendo le labbra. Ustionando la lingua. E l’amore brucia. Un bicchiere di birra con uno sconosciuto. Il primo è un bacio. La ferita di uno sguardo è l’abbraccio di un pugno. E vedi i parcheggi pieni di cadaveri. Dopo la caduta del Muro gli occhi si riempiono di cadaveri, tombe, galere. E vedo il parco che sfioro ogni giorno dove alle nove di mattina si fanno di strisce sui bordi di un bidone dell’immondizia, il sacchetto di birre stretto fra gli stivaletti di pelle, un borsone con i resti di un apparmento. È un mondo in rovina. Ma poi cosa sono le rovine? E ti vedi allo specchio a anni di distanza. Chi eri, chi sei, cos’hai fatto? E che rottura di cazzo trovare sempre un senso, una ragione, una via di fuga a questo mondo, a questa esistenza. Si nasce, si vive, si muore. Fine. Niente oltre tomba. Nessuna possibilità di essere perdonati, accettati, accolti. È un crollo che ti sta addosso. Perché poi quando leggo non so nemmeno dove sto andando. Ricordo ancora che prima di essere ricoverato in un ospedale per un coma etilico vidi il lago diventare una barca. Poi ero su una barella. Che mi incazzavo con sbirri, paramedici, me stesso. E sono ancora qui. In attesa di tornare a lavorare. Lavorare. Una miseria. Avevo promesso di non tornarci dentro. E ci sono tornato. In silenzio. E io non so ancora come riesce Veronica Tomassini a scrivere in questo modo. Un talento cristallino. Parole che si riempiono di queste panchine. Di questa violenza. Di questi parchetti sfasciati. Di queste case. Di queste distruzioni. Di questi corpi. Corpi. Cadaveri. Fantasmi. Cazzo.
C’è un ritmo.
Un suono.
Che è indimenticabile.
Me lo sento in bocca.
In testa.
Sulle labbra.
Fra i denti.
Sulla lingua.
Nel corpo.
È stato bellissimo leggere Vodka siberiana.
Anche se la vodka mi ha sempre fatto schifo.
E non mi dispiacerebbe uccidermi di Martini come Donato.
O forse di libri.
O forse solo scomparire in una fossa comune.
O forse smettere di fare tutto e dormire per anni e anni risvegliandomi su una spiaggia.
“Ringrazia. Il siberiano sibila: figlio d’un cane. Torna a sedersi.
Li guardi.
Eccola, sopraggiunge la strana sensazione, è l’amore sovrumano, il sentimento che sovverte, la pietà. Sopraggiunge, lo sguardo sbalza, deraglia, finisce nel gran segreto, è lì che pulsa il cuore, il cuore che freme, lo stringi, sanguina, è vera carne pulsante.
La pietà.
Sei la veterana, oggi. Sopravvissuta a una guerra riflessa e combattuta. A tuo modo.
Un personaggio di Hlasko dice: “Non cercare di trovare a questa guerra ragioni che non esistono. È tutto qui”.
“È tutto qui” è una risposta che userai nel tempo, fregiandoti di una sapienza articolata, non tua, sottratta al gergo dei profeti che avresti amato. I profetti delle panchine, li chiamerai, un giorno”. (pag. 130)
L’originale qui: https://andreaconsonniwrong.blogspot.com/2021/02/vodka-siberiana-di-veronica-tomassini.html
Il booktrailer di “Vodka Siberiana”.
La produzione è di Emmeerre Letterature. Montaggio regia e supervisione di Timothy Casanova.
Vodka Siberiana: Il dolore al centro della storia
di Giusy Capone
Sangue di cane;Il polacco Maciej, Feltrinelli; L’altro addio; Mazzarrona; Vodka siberiana. Lettere epiche e alticce: su quali temi si concentra la sua riflessione?
Il mio sguardo, più che altro, deraglia puntualmente, rovina dove gli altri lo tolgono. Dove per gli altri dimorano le ombre, per me comincia la luce. Quindi sono riflessioni sul filo di una umanità provata di solito, che indugia su luoghi scomodi, sulla porzione di mondo più ostile, se vogliamo. Mi interessa il momento in cui le nostre certezze riparano nell’imperscrutabilità del destino, mi interessa l’uomo nel momento della sua caduta, il bivio in cui mi sembra di sorprendere una qualche verità superiore e sovrana. Il momento in cui l’invisibile si autodetermina e promette ad ognuno la sua parte ultramondana, un biglietto per l’infinito. Siamo stati biologicamente forse concepiti dentro la grande assenza, il grande vuoto, la mancanza che si esplica nella risposta solo nel momento della debolezza, della fragilità, della tenebra che annuncia lei soltanto il suo contrario.
Il suo “Vodka siberiana” gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?
Domanda difficilissima. I rapporti umani sono l’incognita, enorme, sono ambivalenti, grotteschi, crudeli. Dipende. Procedono su strade carraie, mai su autostrade. Non ho alcuna idea di cosa siano i rapporti umani, nemmeno questo romanzo ne indaga le profondità. Soltanto ne prende atto, dell’elenco di pulsioni che lei mi cita nella domanda, nel romanzo si verifica la stoltezza o la straordinarietà dell’una e dell’altra (dell’ossessione, dell’attrazione, di una miseria morale che rinasce sorgiva simile all’araba fenice in procinto di diventare un miracolo), si aprono come un ventaglio, un’affascinante raggiera. Non c’è una questione etica, una domanda sociologica, o peggio psicologica, nel romanzo, in una sottolettura; non sarò mai nei miei scritti pedagogica o esemplare, al contrario. Nel romanzo, le pulsioni, le relazioni umane, succedono, di fatto, come la vita.
“Perché la creatura piange?”: è ineludibile il dolore?
Sì. Il dolore è al centro del destino dell’uomo. Della Storia. La Storia nella storia minima. Il dolore è una lente, è un bisturi, detiene la lucidità sferzante, apre la porta della conoscenza, segreta, da cogliere velocemente, appena un brano, quel poco che ci è concesso. Non è possibile ignorarlo, non contemplarlo. Salire sulla Croce per l’uomo di fede, contemplare il Viso eterno immutabile, riconoscere nei rivoli di sangue sulla fronte, nella contrizione, nel tenero Agnello sacrificato, il viaggio nella salvezza. Pauroso, terribile. Ma questo è.
Perché la creatura piange si chiedeva “Dmitrij” ne I Fratelli Karamazov (come scrive Davide Brullo, nella recensione a Vodka Siberiana, sulle pagine de Il Giornale, nda), perché? Nell’inesplicabile vuoto, o nel pianto inenarrabile, supplichiamo il Padre, Ciò da cui tutto è, tutto inizia e si completa. Il pianto come un vallo, un ponte, un attraversamento, per raggiungerLo.
Quanto sono politici i corpi dei derelitti che popolano le sue pagine? Quanto denunciano il crack morale occidentale gli alticci dell’est dell’Europa?
Sono corpi politici; sono il dito puntato contro una coscienza collettiva inesistente, sazia, pingue, involgarita. Posso testimoniarlo con fatti, uomini che morivano in una grotta assiderati, nella città in cui vivo, una città del sud; uomini che morivano in un parco, bevitori, senza tetto, nello sbadiglio generale di quelli che stanno dalla parte giusta. Morivano. Ricordo bene la disperazione, l’impotenza, a provare di salvarne uno si rischiava di impazzire per l’iniquità, lo spregio dell’indifferenza, la brutalità degli altri, distratti sempre, un passo più in là, sempre. Ricordo un bevitore, malato di cancro, dormiva in un parco, al freddo, faceva la chemio e poi andava a dormire in un parco, su una panchina. Sono diventata un’eretica, un’anticlericale, durante le omelie in chiesa, più di una volta, volevo balzare su, sulla panca, sull’altare e urlare: la salvezza è fuori da qui, non vi accorgete che c’è una guerra fuori da qui? Pontificate il vostro moralismo inutile, inapplicabile, ma Lui è fuori da qui, tiene la fronte barbone, lo solleva dai suoi escrementi, è fuori da qui.
Sono diventata un’anticlericale, la chiesa del Gesù rivoluzionario e scalzo non c’entra niente con le gerarchie ecclesiastiche e certi fasti offensivi.
Ex mercenari, ladri, traditori: è un romanzo catartico o redentivo? Serpeggiano intenti morali?
È redentivo, è la storia di un miracolo. Nella stoltezza, la storia di un miracolo. Erano tutti dei perdenti, ma hanno vinto, nella mia memoria, non c’è più nessuno di quel mondo, mi manca terribilmente. A volte penso: ma è esistito davvero? Dove sono andati? Moralismo: no, proprio no. Chi scrive, la voce narrante, è essa stessa la sacerdotessa del deprecabile.
L’originale è uscito qui:
L’epica alticcia di “Vodka siberiana” (Il Giornale)
di Davide Brullo
Come se avessero tagliato la lingua di Dostoevskij, interrandola in Sicilia. Non so quale complicità scaturisca tra Siracusa e Pietroburgo, né se i Karamazov siano degenerati a Catania, eppure nella scrittura di Veronica Tomassini cruda, spinata, come un’agave, dolce come la preghiera di compieta, che lascia fiato alla sera, a compiere ogni cosa risuona la domanda infaticabile, impossibile di Dmitrij: «Perché la creatura piange?», perché l’uomo è infelice, claudicante nel dolore, deriso dal male, eletto al pianto? «Tu hai incontrato i sopravvissuti della terra, seduta sul letto della creaturina», scrive Veronica Tomassini, in Vodka siberiana, ultima porzione di un’opera sinfonica, arrischiato requiem, che va da Sangue di cane (edito dieci anni fa da Laurana) a Christiane non deve morire (2014), da L’altro addio (2017) a Mazzarrona (2019).
Un’opera che ha la grazia tagliente degli abbandonati, la forma perturbante di chi è denigrato per eccesso d’innocenza.
Come una guerriera scalza cammina, Veronica Tomassini, nel sacrilegio dell’editoria italica: Vodka siberiana se l’è stampato da sola, col candore della svergognata, e quel libro, orfano, è diventato un miracolo, chiesto, desiderato, onorato, ristampato. È lei, Veronica Tomassini, con quelle frasi sul ciglio dell’abisso, a stupire le labbra perché ogni frase può essere l’ultima, sempre, in questa specie di incendio bianco: «C’era una luce timida che penetrava dalle fessure dei battenti. Una luce di settembre che suggeriva viali di porpora, la definitezza pacifica, concedeva riposo agli occhi, ed era come indirizzarti alla quiete. E dunque all’accettazione» , l’autentica eroina della letteratura italiana, altro che Elena Ferrante, Veronica Raimo, Teresa Ciabatti… (le è equivalente, nell’ambito della poesia, Francesca Serragnoli, che ha appena pubblicato un libro prediletto, La quasi notte).

A me pare, più la leggo, una santa, Veronica Tomassini, che usa il verbo come una spada: e la santità abita l’assenza, procede per crudeli tenerezze, nella tana dello spietato. Vodka siberiana è un poema romanzesco, così, di rovine e di rovinati, di perduti alla vita, di icone e di incubi, di «follie consumate per una passione governata male, l’intemperanza», di falò umani («il siberiano voleva darsi fuoco, bruciare davanti a te»).
La scrittura, in questi regni inferi dell’uomo, nell’ustione, è esatta, pare una regola monastica («Lui voltò il suo viso bello ed eroico quadrato, gli zigomi scolpiti, il biancore guastato dal sangue fiammeggiante che ne imporporava il volto a causa dell’ubriachezza»).
Qualcuno, con un film di Emir Kusturica in sottofondo, potrebbe scambiare Veronica Tomassini per una Marguerite Duras, semmai più allucinata, trafitta da profezie. Piuttosto, Veronica Tomassini sa ruotare la rabbia in aristocrazia, sa che si ama solo ciò che muore, certi nella lacerazione.
«Se pure si ama, è amore nascosto, inapparente, non pare amore, ma tutto patire», scrive quell’altra Veronica, la Giuliani, mistica umiliata, vissuta nel tardo Seicento, scrittrice di stravolta grandezza. Insomma: in questo romanzo si entra per adorazione.
L’originale è uscito sulle pagine de Il Giornale (Inserto Controcultura) edizione del 17 gennaio 2021.
Veronica Tomassini. Vodka siberiana. Lettere epiche e alticce
di Roberto Plevano
Un’idea molto tenace fa del libro un’estensione della personalità dell’autore, un’espressione autentica, in un certo modo veridica e definitiva, anche quando la finzione è massima, dell’essere stesso di chi scrive.
Io credo che un libro sia invece qualcosa di più di un’impresa individuale. Oltre all’autore, vi concorre una pluralità di attori, che trasformano un elaborato privato in libro, che è un fatto pubblico. Il vaglio di una casa editrice che abbia un qualche credito, la selezione, l’editing, i consigli, il blurb, la pubblicazione insomma, e poi il lancio, la trafila delle presentazioni, la promozione, le recensioni, i premi, costituiscono la prima dimensione sociale del libro. Seguono poi i lettori, che sono la vera ragion d’essere del libro. Per questo mi sono tenuto lontano dalla cosiddetta “editoria” a pagamento, anche se i casi possono essere vari e tanti e il confine tra un editore non a pagamento e uno che vende i suoi “servizi” non sempre è definito.


Frustrata dall’industria editoriale, Veronica Tomassini ha deciso di autopubblicare il suo romanzo, affidando il testo a uno stampatore e distribuendolo personalmente a chi ne fa richiesta direttamente all’autrice. Tomassini è una scrittrice che ha, per quanto posso giudicare, tutte le credenziali a posto: una storia di pubblicazioni alle spalle, premi letterari, riscontro di critica, di pubblico, riconoscimento presso la “società” letteraria nazionale, collaborazioni con testate nazionali. Mi auguro che le circostanze dell’”uscita” del suo testo non precludano l’attenzione che merita. Non si può tacere però la considerazione che alcuni mali che si imputano alle case editrici, spesso generalizzando in modo indebito – la scarsa attenzione verso opere non “etichettabili” e l’essere un mondo autoreferenziale che promuove libri e autori interni al circuito culturale e mediatico – rischiano paradossalmente di ingigantire se l’autore si affida unicamente ai suoi contatti e capacità di fare marketing di sé stesso. Per capirci: questo libro mi è arrivato in mano soltanto perché ho avuto qualche chiacchierata con Tomassini, che è parte della mia “bolla” di social media.
L’esistenza di quest’oggetto però pone diverse questioni, in primo luogo sulla necessità e rilevanza dell’industria editoriale. Non credo che sia desiderabile un mondo in cui le case editrici sono sostituite dal do it yourself e dall’iniziativa degli scrittori, anche se spesso le case editrici sono soltanto una tappa, nemmeno la più importante, nella circolazione della narrativa.
Ho deciso di leggere questo libro prima di tutto per stima verso l’autrice. Non mi pare che le esigenze di Tomassini siano autopromozione o vanità. I suoi lettori – che sono più di venticinque – fanno massa critica e hanno assicurato un primo riscontro di attenzione. Tomassini è nota come un’autrice sincera e onesta, e a pensarci bene, l’onestà è forse la prima qualità che si debba chiedere a un autore. La letteratura è artificio, certo, ma un buon autore risolve l’artificio senza trucchi o scorciatoie: un suo libro è frutto di fatica, serietà, sudore, perizia artigianale. Diamo credito al lettore di accorgersene.
Vodka siberiana. Lettere epiche e alticce non è un romanzo epistolare. Le lettere sono un lungo monologo, come un testo messo in scena, inviato a un tu che è la persona dell’autrice stessa a venticinque anni, arrangiato secondo un filo narrativo che preferisce l’avvicendarsi delle impressioni di una stagione sulle costrizioni di una trama. Non è autofiction, non biografia romanzata.
È vero, a venticinque anni la vita brucia, non si può costringere entro le meschinità di interni piccolo-borghesi di una città di provincia, con i riti, le ipocrisie, le grettezze delle anime morte. L’assolato esterno di un parcheggio apre la scena del dramma passato, mai chiuso. Il tu cui si parla è una giovane donna che si arrangia servendo ai tavoli “di un Club dall’aria decadente”, che molte cose non sa, ma sa che non saranno altri a decidere la sua vita.
La vita brucia di domande mai poste, di cieche ricerche. La giovane percorre le strade della sua cittadina alla ricerca di rifugi. La casa di un anziano professore di francese, un maestro difficile, consumato dall’attrito della vita, per cui i libri sono, se non salvezza, necessario ristoro. Nella casa vive, confinata a letto da un’indefinita disabilità, la “creaturina”, testimone e custode della commedia umana di visitatori sul palcoscenico della sua camera. I giardini pubblici, dove “il caos era vera perdizione”. Qui incontriamo una variopinta umanità di immigrati dai paesi dell’Est, reduci delle guerre balcaniche, relitti del crollo del sistema sovietico, polacchi disturbati, disfatte prostitute slave, ladri: per costoro “l’ubriachezza fu un sigillo”, la vita sobria un molesto ricordo, il degrado il solo presente. E pure la giovane trova qui accoglienza, e qualcosa che è un momento di puro amore.
Le lettere epiche e alticce sono un diario di tormenti giovanili e ostinati, timidezze e orgogli, raccontato con onestà e candore. Tomassini è lontanissima da sentenziosità, da condiscendenze sedimentate dal tempo che passa. Sospende il giudizio, la vita è immediata o non è: non è originaria, non è autentica, semmai soltanto riflessa, ma la riflessione viene poi, dalla narratrice in dialogo con il tu della sua giovinezza, che vede sé stessa dal tempo presente, ma questa distanza temporale non è distanza giudicante. È validazione di un’esperienza integrale, vale a dire ciò che deve essere la buona letteratura.
Ci si lascia trascinare dalla prosa di Tomassini, che è come una fiumara che sgorga improvvisa e travolge quel poco di precariamente stabile che un lettore oppone al testo. Come un aedo, Tomassini non può fare a meno di cantare la vita, tanto più vera nel dolore, negli interstizi, nella degradazione, ai margini della società, rispettabile soltanto per ipocrita convenzione. Il crollo delle società dell’Est mette a nudo la bancarotta morale dell’Occidente: la provincia siciliana, come ovunque, è un tessuto di antica perenne decadenza.
Vodka siberiana è percorso da un’ansia tutta femminile di pietà e impossibile redenzione per i suoi personaggi, perché nella realtà la redenzione può soltanto essere invocata attraverso la postura sacrificale dell’innocente. Sono tutti innocenti i personaggi che affollano le pagine, anche quando ex mercenari, ladri, traditori, perché il giudizio non è pronunciato. È innocente il narratore raddoppiato nel suo ego/tu passato: la scrittura di Tomassini s’incammina lungo la via crucis di una redenzione mancata. Gli ultimi sono gli ultimi e non saranno consolati. Estremo realismo e barocca ridondanza. Si affacciano generazioni di perdenti e maledetti, dai Miserabili all’ubriacone Marmeladov in Delitto e castigo, che ha uno sguardo lucido sulla realtà così come è: “bisogna bene che ci sia per ogni uomo almeno un posto in cui si abbia pietà di lui!”. “Proprio per questo bevo, perché in questo mio bere cerco compassione e sentimento… Bevo perché voglio soffrire il doppio!”, giù giù fino al Jean Genet di Nostra signora dei fiori.
La giovane non si unisce alla nebbia etilica di uomini e donne dei giardini, non ne ha bisogno, è empatica per carattere e per destino, è sincera, coem per una missione, fino all’estremo, all’autolesionismo. Altri si danno compulsivamente all’alcol per avere una paradossale lucidità disincantata e definitiva sul “segreto deposto all’origine di tutte le cose, del dolore, della grazia, degli errori, delle croci assegnate per ognuno, anzitempo. Per ognuno.”
Vodka siberiana. Lettere epiche e alticce. Tra i migliori romanzi (non) usciti nel disgraziato anno 2020.
L’originale è uscito sul blog letterario La poesia e lo spirito il 16 gennaio 2021
You must be logged in to post a comment.