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Tel Aviv, maggio 1950
Proseguo lungo le piccole e strette vie. Nathan, sapessi quanto azzurro mi raggiunge ogni mattina, aprendo la finestra sul patio. Le donne sono fuori, cuciono, cantando canzonette patriottiche. La piccola e stretta via mi conduce a Eilat. Ho il passo veloce e le gambe si sono irrobustite. Devo ringraziare Irina, le sue zuppe di carne di bovino, cetrioli e panna acida. Non ho mai appetito. Irina mi obbliga a finire il pranzo. Il mio piatto di zuppa mi dà la nausea come lo sguardo del vecchio Adam quel giorno nella terrazza del caffè. Mi raggiunge la luce turchese, rifrange dai tetti delle casette sul lungomare. L’edera, le bouganville. È un nuovo mondo, così poco europeo. Non ricordo un’alba gelata a Tel Aviv. Nemmeno nei giorni della strana neve a gennaio. Non mi sembrava così gelata come l’alba livida di Praga. Con quale nostalgico amore ripenso a quel tripudio di riverberi glaciali. O alle aurore sopra i faggi. Ma lì, nelle aurore severe sopra la cima dei faggi, i miei pensieri si fermano. Non governati dal terrore, ma ammutoliscono. I pensieri che talvolta hanno la presunzione di parlare, ciarlieri o funesti, non so. Sopra le cime dei faggi tornano indietro. O si fermano.
Ho saputo di donne consumate dal male, dopo il campo. Ecco, ritorno nel tormento, è proprio breve l’indugio. Abbi pazienza. Tu mi chiedi di sopportare e amare, sempre comunque.
La sera sediamo allo stesso tavolo. Il venerdì accendiamo le candele. Ogni sera, le mie povere donne sono stanche e afflitte e aspettano un ritorno. Qualcuno che venga a bussare alla porta, con le lacrime dell’esule, del sopravvissuto, il morto disseppellito, il vivo. Non torna nessuno, mai nessuno per noi. Ci stringiamo le mantelline al seno, ognuna di noi ne ha intessuto una con la lana robusta lavorata dalle vecchie di Gerusalemme, nel quartiere di Ben Yehuda. La mia ha il colore dell’ambra, l’ambra del Baltico d’inverno. Quella di Irina è verde come il guscio delle castagne acerbe o i sentieri di muschio nei boschi di Klevan. Magda ha una mantellina chiara, color carta da zucchero, come i suoi occhi, splendidi, obliqui, simili alle pietre di un anello che indossavo nella vita di prima, prima del campo e dell’oltraggio. Magoska indossa una mantella bianca, bianca come il tuo desiderio di amare me.
La sera sediamo al tavolo. La karolinka manda canzoni d’amore, l’etere è pervaso del nostro desiderio di essere amate ancora una volta, prima che il tempo piombi su di noi, la sua inclemenza democratica ancorché precisa.
Solo per un secondo ho pensato di averti perso, solo per un secondo. Non lo farò più. Risaliva piano piano e poi sempre più violentemente l’origine di tutte le infelicità, risaliva a gradoni, oltrepassando inibizioni gerarchiche, forme di dolori minori, di infelicità subordinate. Nella disposizione di tutte le infelicità, vinceva il pensiero brevissimo di averti perso.
Ho poggiato la fronte sul tavolo, chiuso gli occhi, Irina carezzava i miei capelli, mi è parso di dormire del sonno che aspettavo dentro una fine giusta, nella tregua tesa alla memoria, l’oblio. C’è una penombra dolce, non abbiamo freddo, abbiamo smesso di patire il freddo. È maggio, verso il crepuscolo, mormorano sui fili in cortile, agganciati ai pioli degli archi di pietra, le piovanelle, oltre riesco a immaginare il volo delle cicogne o il più ardimentoso viaggio, orgoglioso e crudele, delle aquile. Tutto questo immagino, mentre chiudo gli occhi, credendo ciecamente alla possibilità che un giorno la mano sui miei capelli possa essere la tua.
Le sere racconto le storie che non succederanno a Irina e alle altre piccole afflitte donne, sedute intorno al tavolo. La loro attesa. Racconto di un amore sovrumano, deprecabile, scandaloso. Lo scandalo ingenerato dalle letture di una ragazza che non riconosco, una ragazza curiosa, con amici annoiati e un mucchio di parole in testa che non sa più ordinare. Quella ragazza si chiamava Vera Rosa Ruzovy Novotnà.
Ero io quella ragazza?
Nathan, senza il tuo amore il tempo piomberà su di me e non avrò scampo. A Eilat c’è un bosco, andrò lì, finirò i miei giorni, senza indugiare, senza attendere oltre che mi consumino. Senza il tuo amore, non avrò scelta.
Irina mi chiede di Il’ya. Il marito sepolto nella neve durante la lunga marcia del ’43. “Mi ama?”. Chiede come a una sibilla. Certo che ti ama, le dico, alzando il viso, nel torpore cagionato dalle sue carezze, i capelli scivolano sul collo e sul viso con un movimento morbido. Ho sonno, Irina. Le dico. Ma Il’ya tornerà, Irina. Non smetterà di tornare.
Le altre mi guardano con innocenza, con speranza. Oh, la pietà è un castigo se non si è puri abbastanza da ripararle al cospetto. Non ho niente per loro. Le mie storie non trovano le parole, talvolta. Non ricordo la vita, i nomi. La memoria è un nemico, io sono dentro una guerra. Io sono la guerra. Cos’era la vita?
Ripeto il nome di mio padre. E il tuo amore mi viene in soccorso.
Un giorno, tra moltissimi anni, un giorno sì, io ti dirò: *“ogni cosa è illuminata”.
Vera
*“Ogni cosa è illuminata” titolo del film di Liev Schreiber (Usa-Ucraina, 2005)
(continua)
Copyright © Davide Brullo
Copyright © Veronica Tomassini
La lettera di Nathan qui: http://www.pangea.news/da-qui-ti-chiamo-definitiva-e-me-ne-copro-il-cranio-lepistolario-estremo-di-veronica-tomassini-e-davide-brullo/?fbclid=IwAR0JJUWvJ_GweQZsWJ685M8nO1falnOO4KUytznVW5GY4WGpgUAOudNa-VA
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