Monthly Archives: February 2019

L’epistolario – Le piccole vie

***

Tel Aviv, maggio 1950

Proseguo lungo le piccole e strette vie. Nathan, sapessi quanto azzurro mi raggiunge ogni mattina, aprendo la finestra sul patio. Le donne sono fuori, cuciono, cantando canzonette patriottiche. La piccola e stretta via mi conduce a Eilat. Ho il passo veloce e le gambe si sono irrobustite. Devo ringraziare Irina, le sue zuppe di carne di bovino, cetrioli e panna acida. Non ho mai appetito. Irina mi obbliga a finire il pranzo. Il mio piatto di zuppa mi dà la nausea come lo sguardo del vecchio Adam quel giorno nella terrazza del caffè. Mi raggiunge la luce turchese, rifrange dai tetti delle casette sul lungomare. L’edera, le bouganville. È un nuovo mondo, così poco europeo. Non ricordo un’alba gelata a Tel Aviv. Nemmeno nei giorni della strana neve a gennaio. Non mi sembrava così gelata come l’alba livida di Praga. Con quale nostalgico amore ripenso a quel tripudio di riverberi glaciali. O alle aurore sopra i faggi. Ma lì, nelle aurore severe sopra la cima dei faggi, i miei pensieri si fermano. Non governati dal terrore, ma ammutoliscono. I pensieri che talvolta hanno la presunzione di parlare, ciarlieri o funesti, non so. Sopra le cime dei faggi tornano indietro. O si fermano.

Ho saputo di donne consumate dal male, dopo il campo. Ecco, ritorno nel tormento, è proprio breve l’indugio. Abbi pazienza. Tu mi chiedi di sopportare e amare, sempre comunque.

La sera sediamo allo stesso tavolo. Il venerdì accendiamo le candele. Ogni sera, le mie povere donne sono stanche e afflitte e aspettano un ritorno. Qualcuno che venga a bussare alla porta, con le lacrime dell’esule, del sopravvissuto, il morto disseppellito, il vivo. Non torna nessuno, mai nessuno per noi. Ci stringiamo le mantelline al seno, ognuna di noi ne ha intessuto una con la lana robusta lavorata dalle vecchie di Gerusalemme, nel quartiere di Ben Yehuda. La mia ha il colore dell’ambra, l’ambra del Baltico d’inverno. Quella di Irina è verde come il guscio delle castagne acerbe o i sentieri di muschio nei boschi di Klevan. Magda ha una mantellina chiara, color carta da zucchero, come i suoi occhi, splendidi, obliqui, simili alle pietre di un anello che indossavo nella vita di prima, prima del campo e dell’oltraggio. Magoska indossa una mantella bianca, bianca come il tuo desiderio di amare me.

La sera sediamo al tavolo. La karolinka manda canzoni d’amore, l’etere è pervaso del nostro desiderio di essere amate ancora una volta, prima che il tempo piombi su di noi, la sua inclemenza democratica ancorché precisa.

Solo per un secondo ho pensato di averti perso, solo per un secondo. Non lo farò più. Risaliva piano piano e poi sempre più violentemente l’origine di tutte le infelicità, risaliva a gradoni, oltrepassando inibizioni gerarchiche, forme di dolori minori, di infelicità subordinate. Nella disposizione di tutte le infelicità, vinceva il pensiero brevissimo di averti perso.

Ho poggiato la fronte sul tavolo, chiuso gli occhi, Irina carezzava i miei capelli, mi è parso di dormire del sonno che aspettavo dentro una fine giusta, nella tregua tesa alla memoria, l’oblio. C’è una penombra dolce, non abbiamo freddo, abbiamo smesso di patire il freddo. È maggio, verso il crepuscolo, mormorano sui fili in cortile, agganciati ai pioli degli archi di pietra, le piovanelle, oltre riesco a immaginare il volo delle cicogne o il più ardimentoso viaggio, orgoglioso e crudele, delle aquile. Tutto questo immagino, mentre chiudo gli occhi, credendo ciecamente alla possibilità che un giorno la mano sui miei capelli possa essere la tua.

Le sere racconto le storie che non succederanno a Irina e alle altre piccole afflitte donne, sedute intorno al tavolo. La loro attesa. Racconto di un amore sovrumano, deprecabile, scandaloso. Lo scandalo ingenerato dalle letture di una ragazza che non riconosco, una ragazza curiosa, con amici annoiati e un mucchio di parole in testa che non sa più ordinare. Quella ragazza si chiamava Vera Rosa Ruzovy Novotnà.

Ero io quella ragazza?

Nathan, senza il tuo amore il tempo piomberà su di me e non avrò scampo. A Eilat c’è un bosco, andrò lì, finirò i miei giorni, senza indugiare, senza attendere oltre che mi consumino. Senza il tuo amore, non avrò scelta.

Irina mi chiede di Il’ya. Il marito sepolto nella neve durante la lunga marcia del ’43. “Mi ama?”. Chiede come a una sibilla. Certo che ti ama, le dico, alzando il viso, nel torpore cagionato dalle sue carezze, i capelli scivolano sul collo e sul viso con un movimento morbido. Ho sonno, Irina. Le dico. Ma Il’ya tornerà, Irina. Non smetterà di tornare.

Le altre mi guardano con innocenza, con speranza. Oh, la pietà è un castigo se non si è puri abbastanza da ripararle al cospetto. Non ho niente per loro. Le mie storie non trovano le parole, talvolta. Non ricordo la vita, i nomi. La memoria è un nemico, io sono dentro una guerra. Io sono la guerra. Cos’era la vita?

Ripeto il nome di mio padre. E il tuo amore mi viene in soccorso.

Un giorno, tra moltissimi anni, un giorno sì, io ti dirò: *“ogni cosa è illuminata”.

Vera
*“Ogni cosa è illuminata” titolo del film di Liev Schreiber (Usa-Ucraina, 2005)
(continua)
Copyright © Davide Brullo
Copyright © Veronica Tomassini
La lettera di Nathan qui: http://www.pangea.news/da-qui-ti-chiamo-definitiva-e-me-ne-copro-il-cranio-lepistolario-estremo-di-veronica-tomassini-e-davide-brullo/?fbclid=IwAR0JJUWvJ_GweQZsWJ685M8nO1falnOO4KUytznVW5GY4WGpgUAOudNa-VA

 

Mazzarrona (il Fatto Quot.)

La città oltre Mazzarrona era un affare di luci e possibilità, di uomini migliori, secondo la nostra nostalgia, dei compagni della valle, di Mazzarrona, una nostalgia pigra e sfuggente che non era in grado di cogliere il resto, di intenderne la via. Non era possibile uscirne vivi? E invece ne siamo usciti. Ma Mazzarrona rimane ancora desta con i suoi languori esangui, desta e crudele come un incubo, oggi e allora.

 

cop mazzarrona

Mazzarrona, Miraggi edizioni (p.180, Euro 16)

Il sole picchiava così forte, sopra le lastre di metallo gettate nella campagna, da impedirci di oltrepassare l’orizzonte dello steccato a qualche metro da noi; rifletteva sui nostri visi, sorpresi dalla pochezza del medesimo paesaggio. Ogni giorno non smetteva di deluderci, ma non conoscevamo altro. Nel retro della motoape c’era il solito ubriacone che vendeva fumo ai ragazzini, su cassette di verdura andata e arance marce. Sotto i portici frugava il movimento sempre uguale dei tossici in attesa, lento ipnotico. Lo scambio, la stagnola passata da palmo a palmo, i ricetta, la polvere dell’asfalto che bruciava i nostri occhi chiusi. La fissità dolorosa dello stesso paesaggio coglieva il nostro sguardo vuoto o deluso. Massimo teneva le camicie fissate ai polsi, anche d’estate, per coprire le piste sul braccio e per lo stesso motivo usava stivali di cuoio per nascondere i buchi sulle caviglie. Vestiva bene, usava foulard di seta al collo, dove diavolo comprava quella roba. Massimo veniva dalle case popolari, non quelle dello spaccio, gialle, le case dei Mao Mao le chiamavano, dove la gente era più brutta e più sporca.  “Le tue spalle bianche mi dicono che qui non è posto per te”, riteneva. Il suo sorriso era pieno di comprensione. Le mie spalle bianche. Preferivo la durezza della pelle di Romina, la sua voce da donna, saperci fare a letto, come Mary, del quinto piano. Non crescevo mai, o ero già vecchia, di una vecchiezza diversa però, priva della sostanza della vita. Massimo era curato, pettinato, amavo il suo profumo qualcosa di simile al vetiver, mi piaceva; non come gli altri tossici. Massimo non doveva morire. Tutti finivano in overdose e certi morivano, speravo che lui non morisse mai. Lo baciai d’improvviso, un pomeriggio alle case, sedevamo in cortile, Romina ascoltava la radio in cuffia. Lo baciai. Continuava a guardarmi dentro quello stupido sonno, mi parve felice. Sì, felice. Romina non si accorse di nulla. Massimo non lo so, volli credere di averlo destato del suo sonno uggioso, il sonno della roba.

Romina era scura in volto. Guardava oltre il recinto verso il mare. Sul recinto si abbarbicavano cespugli di ginestre, più in là sporgevano aiuole di acacie e agrifogli. Mazzarrona non era solo un deserto allora. Però lo era lo stesso. Era buia come la sera quando scendeva, opprimendo le case, quando i cani latravano dagli abbaini, i bambini strepitavano e qualcuno le prendeva o le dava.

L’assenza di qualcosa tormentava quella gente, Romina ne avvertiva l’ingiustizia, era un’assenza senza nome, senza contenuto, non sapevo trovarne, eccetto il tedio, il male annunciato in alcune canzoni che ascoltavamo in macchina, nella Renault di Massimo. Sense of doubt di Bowie aveva spinto persino qualcuno a finirla davvero l’insulsa tragedia della propria vita. E c’era una ferrovia che attraversava i rovi era lì che finivano le insulse vite della gente di Mazzarrona. Romina guardava il mare, era poco più alta di me, dura nel corpo, a suo modo bella, sembrava ridere del mondo, era solo uno sguardo in fondo, una piega del mento, una breve cicatrice da angolo a angolo. Teneva i lunghi capelli neri legati con una pinza al centro della nuca, non si truccava mai, indossava pantaloni da ragazzo. Aveva chiuso con uno, le dicevo: è un buzzurro, hai fatto bene. E lei mi rideva in faccia, perché usavo parole difficili, ridicole tutto sommato. Aveva ragione. A Mazzarrona non servivano tante parole, poche, gergali, bisognava imparare un codice, usare il silenzio anche, nel metodo conosciuto a pochi, con l’atteggiamento di piccoli sfrontati criminali. L’ambizione era imitarli. Il tipo si bucava, stavano insieme da qualche mese. Era nero, segaligno, sembrava un ramo secco, uno di quei ceppi che ardeva nei falò nel cortile alle case. Cosa ci troverai mai? Le chiedevo sinceramente interessata. Romina non ci trovava nulla, come non c’era nulla da intercettare, nessun segreto che fosse meraviglia d’appresso o intorno alle case. Ci stava e basta. Cos’era l’amore in quel tempo? Ne eravamo disperatamente attratti, lo cercavamo, con vergogna. Io avevo Massimo, lui non mi amava, lo avrebbe fatto troppo tardi. Ma era il suo castigo, arrivare dopo qualcosa di bello, capirlo dopo, perderlo. Quando Romina guardava il mare così cupa, la sua ombra si allungava ancora di più verso le rocce e lei sembra grande immensa, lei sapeva tutto, non aveva paura. Ed era ancora più bella.

Romina era dura sempre. Non l’ho mai vista piangere. Quando parlavamo di Mary che aveva tentato di ammazzarsi, lanciandosi giù dal balcone, non mostrava alcuna forma di pietà, piuttosto in lei si agitava il rancore, il suo volto bruno di colpo impallidiva, il suo rancore scolorava. “Vuole morire e non lo fa mai!” mormorava tentando di controllare la rabbia. Non aveva ragioni migliori degli altri, Mary, per morire. Era fortunata perché era bella, una di quelle donne per le quali gli uomini sono destinati a fare follie e a perdere.

Copyright © Veronica Tomassini. Tutti i  diritti riservati trattati da Miraggi edizioni. Agenzia Stradescritte. 

La copertina è di Francesca Marzia Esposito.

 

 

L’epistolario – Il presagio

***

Tel Aviv, maggio 1950

Sai, tu non morirai, perché io ti amo. Allora, tu non morirai.

Non posso raggiungerti. Puoi tornare indietro qualche volta? No, mai. Tu soltanto dovrai raggiungermi, lasciare tutto di te, lì dove sei, nella terra dei senza patria, tu attraverserai l’oceano, per me, per il mio amore. Così, tu non morirai.

E non avrai niente, soltanto me. Sarai sfinito, e avrai me.

Ho lasciato l’ebreo, corro da te, allo scrittoio. Prendo la lettera, Magda mi avverte: ho un presagio. Stai zitta, le urlo. Lo sento anche io. Mi tremano le mani. Prendo la busta, è appena arrivata. Anche io ho un presagio. E d’improvviso, accade mentre l’ebreo mi invita al caffè, un pomeriggio, gli oleandri sulla cima delle dune. Eilat è bianca, come il tuo desiderio di amare me. Gli oleandri hanno un profumo fastidioso, l’ebreo non smette di guardarmi, ho la nausea. Sediamo sulla terrazza del caffè, fuori la vita vibra con repentine esplosioni di chiarori su dettagli che non noto di solito. La pietra preziosa sull’anulare del vecchio Adam. L’anulare circondato da oro rosso e dallo sfavillio educato dei soldi.

Il presagio. Mi stringo le mani, una sull’altra. Ho freddo. L’ebreo guarda con insistenza il vestito aperto sul mio seno, sotto ho una camicetta. Non ho vergogna di mostrarmi a quest’uomo, così misera. Il mio corpo non può esercitare un’azione, un desiderio. Lui sì, lui si eccita ancora.

Mi tiro su, dico: scusami, devo andare. Lui si alza. Mi allunga la mano. Aspetta. Esita. È sempre talmente devoto, talmente arreso. Il suo amore è vile. Inopportuno. Io lo uso, lo sai. Ho bisogno dei suoi favori. Lo ricambio con i miei, d’altronde.

Cosa c’entra l’amore?

L’amore sono le mie gambe che corrono da te, che dolgono ma corrono da te. Ogni tanto mi fermo, stringo le mie ginocchia, fanno male ancora. Devo arrivare a casa, subito.

Vorrei ricoprirti della mia ossessione, della mia gelosia, della mia paura.

Di non averti adesso. Ma tu non morirai. Perché hai incontrato me, superati tutti i castighi o le determinazioni che hanno concluso su di noi con chiose efferate e tragiche, adesso non ci è più possibile dividerci, o soffrire per qualcosa che non smetterà mai di vederci dentro il medesimo tormento, o la medesima gloria. Tu sarai per me, per sempre.

Fossi il peggiore, o il migliore. Adesso tu non te ne andrai. No no. Cosa faremo dopo? Nella distanza perenne. No, tu non potrai che vivere, soltanto perché io esisto.

Magda mi rimprovera, dice che sono finita su una strada sbagliata perché amo un uomo come te, lei dice che sei un avventuriero, che io ho solo da rovinarmi, finito il terrore di Buchenwald, non dovrei perdermi in altri. Rovinare in altre perdizioni. L’amore lo scegli? Dimmi, Magda. Lei non risponde e gira il volto tondo e roseo con durezza e un finto orgoglio che riderei per quanto è buffa se non fosse che parla di te.

Lei non capisce che se davvero ho ancora sangue a fremere nelle mie vene, questo sangue scivola nel tuo, simile alla madre di un fiume che ripara nelle fonti profondissime di una cascata, con il frastuono potente e rivelatore e infine il silenzio tuonante di un salmo. Tu non dovrai lasciarmi mai. Non ti è più possibile per nessuna ragione.

Tu sei un dono, hai detto. E adesso lo prometti. E non ti dimentichi di me e ogni giorno ogni santo giorno tu devi ricordarmelo che io esisto perché ti amo. E anche tu. Perché mi ami.

Ho preso la lettera, le mani tremano. La ripiego. Non importa, non importa, mia cara, mi dico. Infilo un vestito bianco, sopra il prendisole a fiori. Sembro una sposa. Una sposa innocente, non ha incontrato il male, il terrore. Non sa niente del Sonderbau. Ti aspetto. La sposa innocente. Non più la vedova bianca di Isaia, l’afflitta, la sconsolata. No. Allarga i pioli della tua tenda, tu sventurata.

Mi guardo nel povero specchio della toilette. Guardandomi, guardo te. Potrei essere bella volendo, darti il mio corpo ingrato. Non vergognarmene. Non sono in grado di amarlo, ma se ci sei tu, allora sì, può darsi.

Con quanta vergogna, ci penso. Eppure ti ricoprirà come un velario.

Sono capace di soffocarti per il troppo amore. Sono una bambina, sono rimasta una bambina in queste faccende. Lo dice anche mio padre. Anche mio padre è vivo, perché lo amo.

Cosa vuole il destino ancora da me? Perché non concedermi te e basta?

Fuori è maggio, la luce, gli oleandri, il mio vestito bianco. Io sono la tua sposa.

Vera

(continua)

Copyright © Davide Brullo

Copyright © Veronica Tomassini

La lettera di Nathan qui: http://www.pangea.news/sogno-le-tue-lettere-questi-esercizi-della-latitanza-e-pretendo-da-dio-che-il-futuro-sia-un-cortile/?fbclid=IwAR33tY_80fmJqpZPCelzTHskXMsJGhLFQumYY2iJLvwNuLaMPHHdBKmKBsA

L’epistolario – Seppellisco il desiderio

***

Tel Aviv, aprile 1950

I gabbiani piombavano sul mare. Sembrava che dovesse arrivare una buriana. Emettevano un suono infantile o simile al lamentoso desiderio dei gatti quando sono in amore o sembrava il pianto di un bambino. Il mare era feroce, ascoltavo un sussulto catacombale risalire con un ritmo metodico, tetro. Proveniva dal profondo di qualcosa. Avrei voluto scriverti allora, Nathan, e riferirti esattamente. Mi seguiva a pochi metri, sul lungomare di Eilat, l’ebreo tedesco. Si chiama Adam. Il suo sguardo fisso sulla mia schiena, sui miei capelli bruni. Sono lunghi adesso. Non lo so, penso che lui mi guardasse così, mentre io alzavo il viso verso il cielo pallido, di quel grigio sepolcrale prossimo alla vita di prima, sai. Il campo. Nathan. Soltanto a te riesco a dire, a scrivere persino, l’aggettivazione di un tempo, saperlo pronunciare, un termine da eroine. Il campo, il grigio sepolcrale sopra cui volteggiavano avvoltoi, portatori di sentori di orde mute e disperate. E sono tutti morti. Oh, l’ebreo dietro di me è sfuggito all’insana razzia di un orgoglio meschino. Lo odio perciò. Lui non lo sa. Non sa nemmeno di te. Delle tue lettere, che leggo ogni sera, con Magda accanto che non riesce a curiosare come vorrebbe. A volte mi prega come una bambina: “Leggimi solo una frase, quella che si può, ti prego, angelo mio”.

Le leggo il brano in cui tu mi racconti del prete dalla vocazione febbrile, o le storie lontane che riguardano le tue mappe e le costellazioni. Le riferisco di uno stagno in cui la pietra ricalca la profondità del firmamento e finisce nell’ignoto, vortice dopo vortice, giù, senza reticenze. Cos’è l’ignoto? Mi chiede Magda, aggiustandosi la gonna sui fianchi oramai morbidi e stringendosi di più a me, sulla sponda del letto vicino alla fiammella tenuta viva e tremolante per la sera. Allora le rispondo che l’ignoto tuttavia è solo una specie di paura. Non ne sono sicura però. Le dico il primo pensiero che mi sorprende, come mi sorprende la nostalgia di te. È una nostalgia piena di titubanze. Non riesco ad aderire al mondo e alla carne. Le tue parole mi allontanano dalla gratificazione reale, l’amore deve esserlo. Sono un sacco vuoto. Sensazione che confido a te e tutto sommato potrebbe anche averla pronunciata una sconosciuta allo specchio della mia povera toilette.

È tutto molto penoso. Sono così stanca nello spirito, qualunque cosa esso voglia diventare o sia. O: sono così stanca di aver già visto. Le tue lettere mi allontanano. Non mi avvicinano più. Mi sfugge la ragione di una tale diffidenza. La diffidenza nel destino che non riuscirà a ricongiungerci. Sarebbe così facile e bello esser felici. Eppure l’assunto mi si sconfessa platealmente ogni giorno. La nostra felicità è una gloria (la chiami così anche tu, gloria) sottomessa alla gioia segreta, dovremmo cercarla piuttosto alacremente. La gioia nella latebra. Gli avvoltoi sotto le nubi, portatori di mestizia e calamità. La gioia in terra, sepolta da qualche parte, come se si potesse realmente riassumerla in un’azione, in un fatto concreto. Limitiamoci a perdere, a sopportare con quale superbia l’entrata in servizio di un apostrofo impertinente quando non occorre e le chiamiamo risorse del caso, del destino. Non era tutto molto semplice esserci incontrati e amati subito e avvinti per sempre, non credendoci ai per sempre, alla loro vaghezza obsoleta? Per sempre e il genere umano messi insieme. No.

L’ebreo mi segue. Vuole avermi anche stavolta. Mi lascerà sul tavolo un paio di marchi. Io mi rivestirò. L’insolenza è una forma di umiltà, i nostri tremori sono la bassezza della necessità, il desiderio è una bassezza, una bassezza morale. Insopprimibile. Eppur riesco a deluderlo. Deludere è la mia specialità. Soltanto non ricordo più in quale tempo io lo abbia fatto, più che altro con quale precisione.

È un uomo anziano e patetico, patetico non perché sia vecchio.

Mi giro a guardarlo, gli sorrido. Ho un vestito bianco e leggero, mi arriva alle caviglie, le nasconde. Fanno sempre male, sai? Vorrei che tu le baciassi con devozione.

Poi seppellisco anche questo desiderio. L’ebreo aumenta i suoi passi, noto la marsina che indossa. Mi restituisce l’immagine ancor più meschina di un genere umano da trapasso. Ne siamo aggiogati. Aggiogati al trapasso, alla fine di tutti gli inganni.

È finita la guerra. Riformulo l’osservazione: è finita la guerra? Davvero?

Sono la veterana. Eccomi, sono la tua icona smerlata. La tua icona. Non brilla. Cosa te ne fai?

Tu mi hai chiesto: cosa te ne farai di uno come me, del mio destino? Procederemo, perdendoci, poco per volta, Nathan. Destino, destino. E c’è da smarrire la ragione, ci costringe alla consunzione, allo sfinimento. Feriremo ogni sussulto (non chiamarla speranza, non lo faresti, non è da te, forse), finanche prima di consumarlo. Non ne posso più. Avanzo lungo la baia, l’ebreo è dietro di me. Indosso mocassini ai piedi, sono consumati anch’essi. E sono sempre più sola. Non è ridicolo? L’amore promette solitudine nel qual caso?

Sono sempre più sola. E sempre meno propensa ad abituarmi alle tue parole che scoloreranno, ti ho già scritto, come le mie.

Vorrei poterti scrivere qualcosa del genere, come Makar Devuskin di Povera gente: ho consumato molte uniformi. Aggiungerei: per dirmi felice.

Ecco, siamo arrivati alla casa. La finestra del primo piano, gli scuri accostati. L’ebreo promette una eccitazione da redivivo. Consumerò ancora qualcosa, niente di prossimo all’amore.

Vera

Copyright © Davide Brullo

Copyright © Veronica Tomassini

La lettera di Nathan qui: http://www.pangea.news/delirai-fino-a-mostrare-della-palpebra-la-norma-lepistolario-del-candore-e-del-dolore-di-veronica-tomassini-e-davide-brullo/?fbclid=IwAR150p08m8Q_JWorH65Y__qNL-

Avrei qualcosa da dire (da Il Fatto Quot.)

Siracusa impregnata di tristezza civica: è una bella immagine e anche nuova per me. Tutto merito della Sea Watch. Riflessione che resta come una suggestione irritante, in metafora: l’onda prodiera suscitata dalla nave della Ong, in rada nel porto di Catania. Sugli indignati “da combattimento” di Siracusa, la città in cui vivo, avrei qualcosa da dire. Devo andare un po’ indietro con la memoria.

man-618344_960_720 Erano gli anni ’90, la fine degli anni ’90. Conobbi un uomo polacco. Pensavo fosse una storia sentimentale e basta. E invece la mia piccola storia precipitò in una più grande, nel cambiamento tragico e epocale che proveniva da una Europa – l’Est – non ancora abbastanza per noi. La clandestinità oltrepassava vecchi reticolati, antiche cortine blindate, in ducati rumorosi, dentro c’erano uomini e donne ex qualcosa, ex impiegati delle poste, ex maestre, ex operai di cartiera, giovani della generazione del niente (generacja nicości), nati sulle ceneri del muro di Berlino, propensi ai dollari e all’Occidente. Ex qualcosa, presto qui da noi sarebbero diventati balordi da semafori, elemosinanti, un numero in questura. Non sapevano che farsene della democrazia, era una torma mogia di uomini sopravvissuti all’elegia atea e comunista. Conobbi quest’uomo, viveva per strada, beveva, era molto giovane. Lui e altri, clandestini, rimediavano fogli di via da collezionare e al massimo imprecazioni e indignazione nella considerazione collettiva. Siracusa non alzava bandiere per nessuno, mi riferisco a quelle stesse facce che vedo oggi, ancora, blaterare qualcosa per la Sea Watch,  se non fosse che le loro omissioni hanno già prodotto la morte di altri, hanno concorso a confezionarla, nella nostra città che invoca giustizia e urla “scendeteli”, oggi. Allora, no. Questa torma mogia di uomini viveva in un parco. Spesso qualcuno – come si dice – stendeva le gambe e suonava la campana per il morto. L’epilessia, il coma etilico, l’assideramento. Le ragioni di una morte di tal misura erano più o meno le medesime. Allora cominciai a realizzare l’inganno e la posa ideologica di tutto quel che avrebbe dovuto militare nel diritto e nella verità, la vaghezza dei propalatori della rete e dell’associazionismo. Per volerne salvare uno (perdonate la deprecabile presunzione) sono finita a incontrarli tutti i miserabili. Non li ha salvati nessuno. Oggi le bandiere rosse issate a gran voce nella costa, di fronte la Sea Watch. Ieri la diffidenza, il digrignamento di denti davanti a sacchi informi, morti con il fegato in pappa, dentro una grotta, nel salotto buono della città. Vergognosa dimostrazione di inciviltà, era per tutti convenire sulla dipartita di donne e uomini anonimi.

Come Ewa Bialowasz.

Morì una notte di dicembre. Nel parco archeologico. Pioveva. Non si riusciva a tirarla fuori dalla cava. C’era da perdere la pazienza. Non un Requiem per lei. Niente. Morta di freddo, venti metri più avanti l’arcidiocesi avrebbe organizzato un presepe vivente o chi per essa. Nasceva il Figlio di Dio, mentre moriva il Figlio dell’uomo. Dio era nella grotta con Ewa. Ma i curiosi guardavano più in là. Per salvarne uno, ho bussato a tutte le porte. Le chiese. I movimenti cattolici. Niente da fare. C’era sempre un se e un ma di sbieco. Tra i piedi te ne crollava ancora qualcuno. Irenka, all’angolo di una strada, viveva così. Malata di alcol, di cuore, di sifilide. Con un’amica di Medici Senza frontiere la portammo in comunità da Don Pierino Gelmini, a Pozzallo. Un’altra volta lo abbiamo fatto con Azib. Azib poi è morto. Azib beveva come Irenka. Ne morivano altri. A tratti mi sentivo un’eretica, durante le omelie avrei voluto urlare, salendo su una panca, l’ipocrisia e l’ingiustizia delle parole che non guariscono, delle azioni che ingannano, di tutto quel gran ciarlare. Era una guerra, con i suoi morti. Non vinceva nessuno in questa guerra. E oggi, Siracusa, si riscopre indefessa consegnataria dei diritti, la stessa città di irretiti, che non ha voluto salvare, al limite puntare il dito, accusare di mancanza di decoro i miserabili che crepavano al parco. Erano clandestini, europei. Attraversavano le montagne, le foreste, a volte a piedi. Cucivano i passaporti nelle bluse di pelle. Circolavano storie leggendarie, uomini epici. Attraversavano il Danubio in canotto, non so tutto questo, non meno drammatico, sguarnito di Ong e di seguito sensazionalistico. Siracusa non la ricordo così indignata, nutriva nuove disperazioni casomai. Ne sono stata testimone, mio malgrado. Soltanto perché ero una ragazza e avevo incontrato un uomo e quell’uomo consegnava una Storia enorme, una svolta definitiva. Fino alla fine, bussai a tutte le porte. In quella parrocchia, il prete ci guardò da su a giù. L’uomo al mio fianco era ricoperto di polvere e non si riconosceva nemmeno il colore dei suoi capelli che erano bruni come l’ambra d’inverno nel Baltico.

 

L’originale è uscito sulle pagine de Il fatto Quotidiano, edizione cartacea, 6 febbraio 2019 (“Quando i migranti venivano dall’Est e morivano invisibili”).

L’epistolario. Le parole.

Tel Aviv, aprile 1950

Ci sono corone di fiori, petali come ogive, precipitano simili a una pioggia azzurra, Nathan. Li raccolgo. Non riconosco il luogo in cui mi trovo. Mi sono svegliata.

In questo sogno ho rivisto tutti. Sono circondata da fantasmi. Non ho nessuno. Non ho il tuo amore. Solo le lettere che degradano nell’inchiostro nero e destinato a scolorare. Le tue parole non mi bastano. Sono stanca di riceverle. Talvolta sono stanca.

Nathan, non parlarmi di mio padre. La tua lettera è la ragione di un nuovo dolore. Mio adorato, mi preoccupa il tuo stato di salute. Potrei suggerirti un apprezzato luminare, si trova a Praga, un ebreo di Dachau. Sarà tornato a Praga, presumo. So per certo che è vivo. Può aiutarti.

Ti darei il suo indirizzo, ma se torni nel mio quartiere, il suo studio è ancora nel medesimo civico, il portone d’appresso al nostro. Ricordi il palazzo di famiglia? Oh, scusa. No che non puoi sapere. Il civico 145 a Vinohrady.

Sono successe molte cose in questi giorni. Ad esempio è esploso un sole mai visto a Tel Aviv. Non è bianco e lattiginoso come certe mattine in cui la tristezza mi indebolisce fino al terrore, fino a lasciarmi esausta, esausta alla fine del giorno. Io di questo giorno non raccolgo nulla, solo nei sogni, mi agito per evitare la morte dei petali e sono cannule, blu, franano similmente alla pioggia. E sono i miei morti, vengono a trovarmi. Vorrei ritrovarli, mettere a posto le cose anche con te.

Adam è l’ebreo tedesco che ho incontrato a Eilat. Ogni giorno mi aspetta in cortile, guarda in direzione della mia finestra. Irina lo manda via, con la sua bella voce, lascia in pace la nostra Vera, le ho sentito urlare dalla porta. E io sono per loro, sono la candela che si accende ogni sera, sotto il calore di questa candela si moltiplicano le storie di ognuna, si moltiplicano di dolcissime speranze.

Leggo le tue lettere, Nathan, non posso rimediare alla tua follia. Vorrei dirti: vieni da me, sul mio gracile petto, ti reggerò, dormirai, riposerai veramente, come il pellegrino che cerca la fulgente aurora. Fulgente aurora, senti com’è bello e ovvio il richiamo ad essa. Max Brod mi avrebbe rimproverato se lo avesse notato, nel bel mezzo di un pathos. Ma no, non scrivo più. Max Brod al caffè Louvre mi avrebbe fissato disgustato con i suoi Lorgnette dalla montatura d’oro 14 carati.

Adam, l’ebreo ortodosso, vuole sposarmi. Avere un figlio. Un’impresa titanica nell’insieme convincermi all’una e all’altra cosa. Non credo di poter avere figli, non più dopo il Sonderbau. Continuo a leggere i tuoi abomini. Non parlarmi più di mio padre. Non lo fare, mai più. Altrimenti mi perderai, ci perderemo, sì. Finito, Nathan. Mi limiterò a leggere le tue lettere con la stessa curiosità con cui leggo i miei cari esistenzialisti o le letture russe che un tempo ho dovuto interrompere, oscurare, prima di quella notte del ’41. Ecco ti leggerò così, se vuoi. E tu leggerai me. Con la curiosità distante di chi non si amerà più, malgrado lo abbia desiderato, fino a perderci quasi la ragione.

Ma ho capito, Nathan, l’ho capito adesso, d’un tratto, mentre lo scrivo a te, adesso: non è nel mio destino essere amata. Nemmeno da te. Mi stanca la tua lontananza, non leggo le parole che mi divoravano, non sai più scrivermele. Allora mi distraggo, vado via, sono fatta così. Ma dopo il campo, io non so più da quale spirito sia attraversata.

Posso anche ridere, sai? Lo facciamo, ridiamo, con Irina e le altre per cose piccole e innocenti. D’improvviso mi sorprende il tedio che nascondo agli altri come un segreto malevolo, e non c’è niente niente niente.  Così speravo in te, in questo tuo amore capace di prevaricarmi.

E invece la tua vita procede verso deliri sempre più accesi e crudeli. E io fremo talvolta, talvolta dormo, lascio che il sonno mi finisca come la tristezza come il sole bianco e lattiginoso di certe mattine o il suono lontano di una fanfara, di un violino, la memoria di una gelata sopra le cime dei faggi, le foreste, la strada del ritorno, Sluzk.

Vorrei essere amata fino alla morte, fino a morire per questo amore, per l’ombra che indosso, per l’ombra che mi ripara. Tu? Lascerai che io mi annoierò, di me stessa e delle parole che non trovo, non permetterlo, non lasciarmi andare via. E anche adesso è così ovvio e fulgente come l’aurora supplicarti: non lasciarmi senza le tue parole. Non lasciarmi andare.

Vera

 

La lettera di Nathan qui: http://www.pangea.news/bisogna-tradire-tutto-per-capire-cosa-si-ama-tu-sei-la-maniglia-che-mi-porta-nella-stanza-del-mostro-il-feuilleton-della-crudelta-di-veronica-tomassini-e-davide-brullo/?fbclid=IwAR3aA2L4wJCMyLrom80QdTkoZluUncdo-1pMxouC5EP7-nM35S-HTfg_50Y

Copyright © Davide Brullo

Copyright © Veronica Tomassini