Category Archives: L’altro addio – Marsilio

Una fine imperdonabile

I miei capelli. Erano sottili, adesso. Adesso cadevano. Non è isterismo, il mio è un problema di accettazione. La psicoterapeuta allungò la ricetta, lessi: Seropram. Dieci gocce, disse. Ogni sera? Ogni sera, concluse. Mi alzai,  con in testa un numero. Era il numero della comunità di Sant’Egidio. Proverò a chiamarli. Forse loro possono salvarti e se finisci in stazione ti vengono a prendere. La porta a vetri opachi si chiuse dietro di me.

Sollevasti la sedia accanto al tuo letto, provasti col braccio destro, convenendo che tutto sommato tendevi a guarire, saggiavi la forza che tornava piano piano. In stanza i due compagni dormivano, stavano in ripresa anche loro. Le ragazze le vedevi meno in corridoio, qualcosa non andava per il verso giusto, avevi paura persino a domandare in giro, temevi per la giovane del Kazakistan.

Ti dirigesti in biblioteca, fuori pioveva, passeggiare nel parco non potevi. In biblioteca avevi iniziato a leggere un libro di Marek Hlasko, non credevi ai tuoi occhi quando lo notasti sullo scaffale dedicato ai classici. Ti accomodasti sulla poltroncina di velluto comoda e imbottita e apristi a caso, leggendo a voce alta, con lentezza infantile: “(…)Addio, disse Franciszek. Restò alla finestra finché lo vide uscire dal portone, andarsene lentamente con la sua valigia, in una specie di silenzio ronzante e sospeso(…)”. Chiudesti su quelle pagine, poi serrando gli occhi, il pianto montò con la prepotenza delle cose dimenticate che riappaiono improvvisamente, nel medesimo posto in cui si erano adagiate, illuminate dalla luce brusca della ragione. La ragione ti indusse al pianto. Desideravi la consolazione, una via dove soccombere alla folgorazione del Padre che veniva a cingerti da figlio, raccoglierti dalle tue insensatezze. Padre, mormorasti. Udivi lo scampanio, proveniva dalla chiesa del paese. Scuotevi la testa, ti eri arreso, era vero. Padre, mormorasti ancora, mentre il sonno ti raggiungeva.

romanzo d repub

(L’altro addio, Marsilio – 2017)

 

Su Liberi di Scrivere

di Giulietta Iannone

 L’altro addio di Veronica Tomassini (Marsilio 2017)

Dopo la caduta del Muro di Berlino, parlo per intenderci del periodo che va dalla fine degli anni Ottanta del Novecento all’inizio degli anni Novanta, molti ragazzi e ragazze dell’Est lasciarono gli ex paesi della Cortina di Ferro (Germania Est, Cecoslovacchia, Albania, Polonia, Ungheria, Romania etc…) in cerca di fortuna nel nostro edonistico e consumistico Ovest.BannerTomassini
Anche l’Italia fu terra di approdo di questi flussi migratori e se molti trovarono una nuova sistemazione legale e favorevole, impiegandosi come badanti, infermieri, taxisti, tecnici informatici, o aprendo piccole attività dal negozietto alimentare sottocasa, a ditte di import export magari verso i propri paesi d’origine, altri finirono nella zona d’ombra della criminalità, dell’accattonaggio o della prostituzione.
Questa marginalità trova dignità letteraria nei libri della siciliana Veronica Tomassini, come in quest’ ultimo L’altro addio, edito da Marsilio.
Della Tomassini ricordiamo già Sangue di cane, caso letterario del 2010, edito da Laurana Edizioni, in cui per la prima volta il personaggio del polacco Slawek prendeva vita nelle pagine di un libro in bilico tra autofiction, e ritratto sociale, che per potenza e asprezza ricorda uno Zolà, dove le storie degli ultimi assumono valenze epiche e universali, non tralasciando i lati più sordidi e dolorosi di una umanità reietta ma sempre umanissima e vera.
Sebbene forse più che al naturalismo francese, forti sono gli echi verso il verismo tutto nostro di scuola siciliana di un Capuana per esempio, per sensibilità e sincerità di intenti, e per il suo assillo continuo verso la malattia e la morte.
Tuttavia la Tomassini si scosta da queste scuole strutturate e teorizzate, per spontaneità e per l’uso prevalente del flusso di coscienza, strumento che nello stesso tempo è la parte più affascinante e il principale limite della sua scrittura.
Limite perché non è facilmente comprensibile da un lettore distratto, privo degli strumenti idonei per capire la complessità della sensibilità dell’autrice, che si espone quasi senza filtri, superando anche alcuni limiti di opportunità per il suo tendere verso l’aderenza al vero (se non fattuale e oggettivo, sicuramente psicologico e morale).
Insomma non è un libro facile, può scoraggiare, se non respingere, ma se si superano questi ostacoli concettuali, allora si può apprezzare con più consapevolezza il coraggio, la fede (sì, anche nella letteratura oltre che nella umanità o in Dio), l’autenticità di questa autrice che ignora mode, atteggiamenti arroganti o scuole di pensiero.
Il suo tipo di scrittura è molto personale, quasi sovversivo: alterna periodi involuti, ad altri molto piani e immediati, proprio seguendo le onde del pensiero.
Il dolore, l’amore, la malattia, la marginalità si aggiungono all’ universale difficoltà del vivere, del comprendere gli altri, del perdonare. Tanto che l’amore tra la ragazza siciliana e il “migrante” (uso con consapevolezza questa parola che ormai quasi per tutti ha un’ accezione unicamente negativa) polacco, acquista in breve tutte le valenze e le sfumature di uno scontro incontro tra due opposti difficilmente conciliabili. Fino al punto che al lettore, terminata la lettura, non restano che due certezze: il loro è un amore senza futuro, e nello stesso tempo destinato a non estinguersi mai. Doloroso e scorticante.

L’originale qui: https://liberidiscrivere.com/2018/04/15/laltro-addio-di-veronica-tomassini-marsilio-2017/

Su L’Indice dei libri del mese

di Yasmin Incretolli

A dieci anni da Sangue di cane, Veronica Tomassini approfondisce con L’altro addio i motivi della sua ispirazione. Nel nuovo romanzo ripercorre la vita del polacco Slawek che, preda dell’alcol, vive volontariamente ai margini, in un’Italia sotterranea, fatta di ponti, metrò e parchi pubblici. Una vita, la sua, che attraversa e abita tante altre vite, di extracomunitari soprattutto, di spacciatori, di prostitute e di vagabondi. E ciò conferisce al romanzo un tono da invettiva contro un Occidente che “seduce e abbandona”.

Con la scrittura serratissima e l’intimo tu che contraddistinguono il suo stile, Tomassini fa emergere le viscere delle nostre città, portando alla luce ciò che preferiremmo non vedere, la spaventosa verità degli esclusi che incrociamo quotidianamente e dei quali non vogliamo sapere nulla né essere responsabili.

Slawek ripara in Italia nel 1996 da Konskie, un piccolo centro del voivodato della Santacroce, per sfuggire alle minacce del Mongolo, un boss al quale fa concorrenza nello spaccio. Percorre il paese da nord a sud, passando per dormitori e falansteri fatiscenti. In Sicilia incontra l’Italiana, con la quale avrà un figlio, Grzegorz. Ma il legame con il passato lo spingerà ad abbandonare la nuova famiglia e a tornare in Polonia. Niente, però, è più lo stesso. I suoi amici sono morti e il Mongolo continua a essere sulle sue tracce.Laltro addio Indice

Conosciamo questa epopea attraverso la donna straziata, l’Italiana. Inerme quanto noi lettori davanti all’autodistruzione dell’uomo, il suo è un amore rassegnato che sembra in qualche modo evocare quello di Didone per Enea. “Sono una slavofila, lo ammetto, ho pianto fino a rovinarmi gli occhi sulla fine di Perhan, il rom de Il tempo dei gitani” dice. Lei, famiglia borghese, prima segretaria poi giornalista, rimane catturata da Slawek quando è ancora una ragazzina. Si incontrano in un crocevia, sente già suo quel ragazzo, “spalle solide, struttura quadrata, polacco”. Lui le chiede una “zigaretta”. È sedotta, lotta per lui, per fargli ottenere la cittadinanza, per liberarlo dall’alcol. “Avevi bevuto per giorni e giorni, seduto al gelo, la neuropatia ti aveva consumato il movimento naturale degli arti inferiori, cominciavi allora a perdere l’uso dell’occhio destro. Mi chiamavi fuori di te. Sto morendo, farfugliavi, ho freddo, misiek, io muoio”.

Una lettura difficile, forte, che può cambiare il nostro sguardo verso le persone che incrociamo per strada, che offre una prospettiva nuova sulla città che attraversiamo e abitiamo. Solo la sensibilità illuminata di Tomassini verso il mondo ai margini poteva riuscire in questo difficile obiettivo.

 

12 luglio 2017 – L’Indice dei libri del mese

Un tentativo di salvezza

di Giuseppe Raudino, docente di lingua nell’Università di Groningen

L’altro addio di Veronica Tomassini (Marsilio, 2017) è la lunga confessione di una voce narrante che si rivolge alla persona amata. Non tanto il ricordo dei rari momenti di felicità insieme, quanto il dolore e la disperazione per il distacco e la nostalgia sono al centro delle pagine di questo romanzo, che è scritto con un linguaggio tanto ricercato da rasentare talvolta il parossismo stilistico e un intreccio che si avviluppa su se stesso al limite della compulsione. I pensieri si sovrappongono, spariscono, poi si ripresentano con più prepotenza, rafforzandosi nelle ripetizioni ossessive, scintillando di luce diversa man mano che i salti temporali si alternano nel corso della narrazione. Il romanzo di Veronica Tomassini non vuole soffermarsi sull’intreccio degli avvenimenti, che tutto sommato è semplice, ma si protende verso le emozioni che attraversano i personaggi, con i loro atteggiamenti estremi, le loro miserie, le loro immancabili contraddizioni.

Sebbene un indizio molto sibillino sembri svelare il nome del protagonista, la voce narrante si rivolge all’uomo col solo vezzeggiativo di “misiek”, un termine polacco quasi intraducibile in italiano che dà l’idea di un uomo di grande corporatura che ispira tenerezza.

Ma chi è il protagonista? Senza dubbio è un “[p]ortatore di guai e di dolore nella vita altrui” (p. 132) capace di travolgere ogni persona che incroci il suo cammino – e questo vale soprattutto per le donne. Nato in una cittadina rurale della Polonia, ben presto sceglie la strada della criminalità (rapine, sfruttamento della prostituzione) pur di permettersi un alto tenore di vita. Il grande salto sarà quello di tentare fortuna in Italia, ma il viaggio si rivelerà una caduta nella disperazione, nella malattia, nel fallimento e nella sofferenza.

La parabola discendente di questo polacco si coglie, topologicamente, anche nella geografia dei luoghi: da Końskie a Varsavia, ovvero dalla misera giovinezza al lusso criminale, è uno spostamento verso Nord, verso l’alto; Siracusa, il miraggio della moda e della bella vita italiana, è invece uno scivolamento verso Sud, verso il basso. I rari momenti di felicità che il protagonista vive insieme a una donna siracusana, che è anche il narratore omodiegetico e intradiegetico del romanzo, lasciano il passo a una natura decadente e corrotta dal male che infligge e che si lascia infliggere. Eppure lui resta bellissimo agli occhi di chi lo ama, nonostante il suo abbruttimento fisico, l’andamento claudicante, nonostante certe inclinazioni che sporcano la sua moralità. L’andata a Milano, scappando dalle responsabilità di padre e marito, è un tentativo di rimettersi in piedi, di sollevarsi, di puntare nuovamente in alto nella topografia delle sue irragionevoli aspirazioni.

L’altro addio diventa, pertanto, un distacco duplice, il commiato dolorosissimo di chi si vede separato due volte – dalla fine di un amore e dalla fine di un’esistenza.

Il romanzo è intriso di forti contrasti, come le brume ghiacciate della Polonia e il sole accecante della Sicilia, come l’abbondanza di denaro e la miseria, come la morte ineluttabile e la guarigione sperata. Proprio il tema della guarigione si intensifica verso le ultime pagine, lasciando intendere al lettore che si tratta di una guarigione dello spirito piuttosto che del corpo, mentre appare chiaro che la sofferenza del protagonista aveva un significato puramente cristologico, di riscatto ed espiazione. Impossibile, in questo senso, non cogliere il parallelismo col Cristo nell’immagine del protagonista sdraiato in un letto di ospedale e “la fronte corrucciata di un medico chino sul […] [suo] costato” attraverso il quale si tentata di drenare ciò che si accumulava nei polmoni. Dunque la malattia fisica, per quanto vera, è solo la metafora di un altro male, come spiega la voce narrante: “[S]offrivi per il male oscuro e tenace, il male che ti scavava in petto: si chiamava nostalgia” (p. 202). La nostalgia, di fatto, è la vera nemica del protagonista, capace di torturarlo coi ricordi dell’adolescenza, con gli odori e i sapori della terra natale, con i fiumi, i monti, i boschi, le case e la gente della sua Polonia, sempre troppo lontana dall’Italia e tanto anelata. Naturalmente il male è anche presente nei ricordi, un male – sia ben chiaro – che non è malvagità ma incapacità di resistere alle tentazioni, ai soldi facili, all’alcol, alla sessualità a volte smodata e a volte egoistica, al bisogno di rivalsa dopo aver subito torti e violenze da un padre adottivo da cui il protagonista non ha mai ricevuto amore.

Ecco allora che la morte si adombra in ogni momento della vita, dal più intenso al più banale: l’orgasmo è rigorosamente appellato alla francese come “piccola morte”, così come la morte è presente nel falciare uno a uno tutti gli sciagurati compagni di bevute, dai parchi siracusani ai sottopassaggi milanesi. Effettivamente molti personaggi hanno già l’aspetto di un cadavere quando sono ancora in vita: persone che inspiegabilmente si muovono e respirano nonostante la loro condizione sia già segnata per i brutti giri che frequentano o per la disperazione che spesso si trasforma in suicidio – poco conta che sia istantaneo come il lanciarsi sotto le rotaie o lento, come l’abbandono all’alcolismo, alla trascuratezza, alla resa di fronte alla malattia. La morte si insinua come una maledizione, invade il corpo di qualcuna che viene amata e posseduta, oppure trasuda dall’inadeguatezza di chi non è pronto a sopportare la croce quotidiana e finisce per crepare a ridosso di un cassonetto o sgozzato in una campagna come un maiale nello scannatoio.BannerTomassini

In questo mondo frantumato e imperfetto, dove è soprattutto il dolore a contagiare chi sta bene, dove il male sparge il seme della disperazione, la donna impersonata dall’io narrante prova in tutti i modi a redimere e a salvare colui che ama, colui il quale non sa sottrarsi al richiamo della propria distruzione. Un tentativo, questo, che appare come lo sforzo titanico di privarsi di qualcosa pur di donare salvezza: “La nostra rinuncia avrebbe forse servito il mondo, cosa se ne faceva il mondo della nostra rinuncia?” (p. 175). C’è da dire che questo tentativo di salvezza passa anche attraverso lo spirito di sacrificio e di rinuncia penitenziale, chiaramente riflesso nell’anoressia del personaggio che dà voce alla storia, un’anoressia che è inappetenza per la delusione sentimentale ma anche la cifra di un digiuno ascetico. La salvezza, nell’accezione più religiosa del termine, diventa pertanto la meta verso cui protendono sia il protagonista che la narratrice, sebbene ciascuno dei due lo faccia con mezzi appena diversi. Questa tensione sarà anche il loro più autentico punto di incontro dopo le afflizioni e le ripetute separazioni.

Quello che resta dopo aver letto questo romanzo è un senso di pietas come devozione verso il sacro, verso gli affetti e verso la patria (il protagonista sente una commovente nostalgia per la Polonia). Già la primissima pagina del romanzo si apre con questa dichiarazione di intenti narrativi: “Sai cosa sia la pietà, dimmi?” (p. 11). Chi narra la storia ha questa domanda incalzante per l’interlocutore amato e perduto. E poi ancora: “Mi sovveniva la pietà, cera calda sulla ferita. La pietà. Non era difficile immaginarti stravolto, agitato” (p.121). La voce narrante, a un certo punto, dà anche la propria definizione di pietà, rispondendo alla domanda che poneva nell’incipit: “Io la chiamo pietà, l’espressione più nobile e segreta dell’amore. […] Ti dico pietà, ascolta pietà pietà, cioè amore amore. […] Chiusi gli occhi, e ti amai da lì e per sempre” (pp.85-86).

In mezzo a tanta umanità violentata dalla sfiducia e dalla miseria, descritta senza risparmiare immagini crude e rivoltanti, il romanzo di Veronica Tomassini punta l’attenzione sulla pietà come amore e sulla speranza quale dono soprannaturale che si nutre di fede e di preghiera. Lo stesso nome della persona amata si trasforma spesso in una giaculatoria, mentre le immagini sacre dei grani di un rosario o dell’icona di Wojtyla saranno presentati come i segni di un cambiamento profondo, di una salvezza sperata e creduta, voluta e raggiunta.

Groningen, domenica 9 luglio, 2017

 

L’originale qui:

https://pennetulipani.blogspot.it/2017/07/laltro-addio-recensione.html