Monthly Archives: September 2021

Il senso di una vita – Il mio nome.

Ho aperto a caso Le Confessioni di Sant’Agostino. Leggo: la morbosa ricerca dell’amore. Qualcosa che attiene alle creature sensibili, del mondo. La sete che non disseta. Nel mondo. Una strana sete. Non si estingue, se non altrove. L’altrove è la sola destinazione. Se ne convenissi senza reclamare, battermi, anzi ancor meglio dibattermi, sarebbe già aspergersi di cenere e non di rancore. Rancore per l’incompiuto. L’umiliazione come regola di vita, è inaccettabile; campo di battaglia. Poi le battaglie non sai condurle. Non vinci, non perdi.

Prima di dormire, penso a dove riposare, la mia testa, il mio cervello. Allora torno all’infanzia, alcuni brani, non tutti. Non l’infanzia siciliana, nel condominio di estrazione medio borghese, con coetanei selvaggi come volgari puledrini, crudeli ratti scattanti. Diffidenti. Brutali. Un assaggino sulle cose a venire, sul tipo di umanità a cui adattarsi, ipso facto.

Mi riposo invece in alcune estati della mia infanzia. In special modo ripercorro a mente la discesa di asfalto che conduceva al mare. La casa era povera, le mie amichette erano bambine semplici e buone. Senza girarci attorno con altri aggettivi inutili. Semplici. Buone. Indossavamo zoccoletti con il tacco di legno, la cinghia di cuoio. La stradina bruciava sotto il sole che la trafiggeva da mattina fino al tramonto. I carrubi ombreggiavano più in là. C’erano rovi di more dentro un ronzio di api lungo il tragitto e strani brividi indotti dal bitume di fuoco, una brace nera proveniente dal calpestio. Il mare imbiondiva in superficie, somigliava a un campo di grano a guardarlo sulla somma, verso settembre. Era simile a un fruscio, borbottante in guizzi rapidissimi e schiumosi, un verde stemperato verso il grigio e il blu improvviso a proseguire avanti, nelle acque aperte e profonde.

Ricordo quella discesa, e le mie amichette. Poi mi addormento. Se mi sorprende la disperazione e so che non ho chance, allora mi arrendo. So che Johannes mi avrebbe rassicurato e per anni lo ha fatto.

Adesso capisco che c’è un altro grado di accettazione, un livello di sottrazione ieratico, una specie di assalto alla diligenza. Succede più o meno il mio stupore. Ma non è stato sempre così?

Perché quando hai perduto non è stato ancora una volta il tuo stupore a preferire ogni altro sentimento?

Perché scrivi, chiedono a Malcom Lowry. Lui dice: si scrive per la disperazione. Sicuro.

Dovrò leggerlo meglio, la sua dissipazione alcolica ha un che di mostruoso e famigliare.

Al tempio ieri ho incontrato uno della vecchia guardia, della vecchia vita insomma. Uno che beve. Sedeva sulla panca, ubriaco. Mi saluta. Doveva cenare alla mensa dei poveri, ma aveva fatto tardi.

Sto male, dice. Sono stato in ospedale. Dice che vomitava sangue. Ed è di nuovo ubriaco.

Tutto questo lui lo racconta, mentre io lo guardo in piedi, di fronte. In silenzio. E non provo nemmeno compassione.

Sono uno strumento che non suona. E’ un po’ un fatto vero. Cioè la mia gentilezza è il lenzuolo sulla mia genetica distrazione, immutabilità, ignavia. Non mi importa nulla del resto. Non so cosa sia.

Allora ne scrivo talmente bene da crederci persino, da scongiurare una tale scelleratezza. Scrivo e mi assumo le varie e disinnescate colpe, di tutti, senza un reale contributo.

Sono il risultato di una genetica imperfetta, di una qualche forma di sopraffazione, ne sono certa. Lo so.

Sono sopravvissuta, sempre. Per pigrizia, perché costa fatica non esserlo. Ma non vorrei essere mai stata. Una creatura nata per non costruire, non intervenire, non tangere.

Io non vorrei essere mai stata, nemmeno un concetto, un’idea.

Il mio nome. Ogni nome contiene un destino. Sì?

Cos’è successo alla donna, era l’emorroissa, custodito il Velo, dopo la sesta stazione? I suoi pensieri? La sua vita?

Cosa ha fatto dopo, l’emorroissa, la donna del Velo? Come è morta?

O come è vissuta?

Di quale rimpianto.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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Il senso di una vita – Ammissioni di colpa.

La sua piccola barca rimane ormeggiata dentro la baia. Johannes era un uomo di mare. La nostra amicizia ignora le maldicenze degli ultimi tempi. Era un ex internato?

E se avesse ucciso davvero quella donna?

Ma ha salvato me. Allora?

Non ricordo altro che la sua comprensione, un perdono aperto all’insulto, spalancato sull’errore. Come è possibile?

A ogni passo incespicante, quando la rabbia perforava le mie viscere, incontravo il suo silenzio buono, l’ascolto mite dell’uomo provato nel crogiolo del dolore. Siracide, Siracide.

Oppure nel passo evangelico, il non temere cristico, che lui recitava malgrado la conversione – non praticabile se vogliamo – nell’ebraismo della più settaria ortodossia.

Non temere, mi rassicurava, non aver paura, non sei sola. Sei la testimone.

Per anni, mi ha tenuto sopra la furia, mi ha tratto dalla tempesta, ha assecondato la pietà disumana che diventava scandalo.

Prese in casa l’uomo che beveva. Perché non morisse. Perché glielo avevo chiesto.

Sono gli anni peggiori della mia vita. La mia vita non è una preghiera sfinita, forse a tratti; la mia vita sono stazioni verso il calvario, senza l’offerta, senza la longanimità del cireneo.

Sono ammissioni di colpa. Sono pellegrinaggi alla fine del mondo.

Dove vai? Mi chiedeva, anche nel silenzio. Dove vado?

Non lo so.

Cosa posso fare per te?

Chiedeva, anche nel silenzio, con un buco al centro del collo. Il buco, la voragine per cui è morto, dentro cui si è insinuata la nostalgia dei flutti, il desiderio e il segreto deposto sul fondo turchino, illuminato come un occhio sgranato dal vortice dei raggi in superficie, l’occhio sgranato che indulge eppure la morte, forse la morte improvvisa alla stregua di un risveglio, il passaggio nella minuzia del terrore, a scansione, fino al trapasso. Il momento preterito, lo aspettiamo da quando veniamo al mondo. La fine del pianto.

Cosa posso fare per te? Soltanto dopo qualche passo, mi voltavo indietro e rispondevo con astio: dammi la mia vita, puoi? No, non puoi.

Forse ci sono umani scesi sulla terra per non far nulla, non incidere, non edificare, piuttosto scansarsi, avanzare con esitazione in una specie di attesa proteiforme, attesa del perdono, di una casa, un significato; l’identità riconducibile a un punto di inizio; ci sono umani che non sono mai stati, non provengono da un luogo, sono l’idea sbagliata tradotta e reincarnata ma non nobile come la pietra di scarto; il sovvertimento patetico; una somma vergognosa di debolezza e ostinazione, congerie confuse; maldestre.

Sono umani?

Ogni pomeriggio percorro l’isolotto. Sulla punta il maniero ripara la violenza delle acque, nel mare di scirocco.

Indosso la salsedine, la crudeltà della luce uggiosa, quando non eccelsa e suprema sulla vetta del mezzogiorno. Sono la meridiana offesa. Sono anche io l’idea sbagliata e adesso temo un tipo di solitudine rinnovata, emana splendore e immacolatezza. Nessuno può toccarmi.

Allora temo. Talvolta, spesso. Sento che il mio respiro si spezza in gola.

Scendo dal vicolo, mi fermo davanti la porta a vetro di un fondaco. Mi guardo. Sono una donna, ma non lo sono mai stata. Non sono l’idea esatta di una donna fatta. Sono l’idea sbagliata di un concetto enumerato e equivoco, con un corpicino a scudo.

Perché? Come farò? Le domande sono una questione stizzosa, il rimbombo stracco di un grillo parlante. Mi interrogano.

Non rispondere, è una trappola.

Infatti non rispondo.

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Il senso di una vita – Altre amenità

Sedevo con le vecchie del tempio. Certe volte correvo da loro in preda all’insopportabile agitazione, per poi accomodarmi e tacere. Ed era una vera stranezza, dapprima, per taluni frequentatori, vedermi lì, come se due generazioni non contigue, ma lontane lontanissime, non potessero comunicare, trarne un qualche sollievo l’una dalle speranze dell’altra.

L’agitazione così tornava a essere un sentimento ordinario, persino mediocre, a guardare la città, immaginarla in una vertigine di tetti, campanili, nuvole che snebbiavano ancora altra luce. Tutto era perduto, sempre, per me. E in quel tutto era perduto la città era una vertigine malinconica, erano i tetti, gli umani inadempiuti a un compito, privi ognuno di una passione da confermare o renderla alla stregua dolorosissima di una sopravvalutazione inesatta per quanto generosa, fino all’ordinaria restituzione all’universo, rendere, restituire, una pratica su cui disciplinare il vizio dell’impazienza.

Le vecchie discutevano di una vita povera e autentica e tanto mi commuoveva. Johannes attraversava il tempio, curvo, la barba lunga e l’estenuato rigore di un patriarca. A molti appariva l’identica figura quasi mostruosa o fuori dal mondo visibile, l’immane biblica profezia, poteva sembrare, lo era in un certo senso.

Aveva fatto di tutto per sollevare il mio peso. Negli anni. L’attitudine all’impossibile con me diventava ragionamento, predisposizione mentale; a seguirmi sembrava di vivere con il fiatone; non dipendeva da me, personcina all’apparenza mite, dipendeva da una congiura di avvenimenti, esosi e parossistici naturalmente, fino a farmi riflettere su una biografia più letteraria di ogni mia opera, se vogliamo chiamarla opera. Quando cioè l’attitudine al disastro la conformi a un mestiere.

Poi sopraggiunse la tregua, la vita mi ha lasciato in pace, allora sedevo al tempio con le vedove. Ricostruivo il mondo avulso, avendo smarrito il precedente, non riconoscendomi mai in altro che nell’inopportunità, nell’avallo del fuori la porta, di solito.

La mattina davanti casa spesso trovavo il giornale e le sigarette. Johannes faceva di queste cose. Mi regalava abiti costosi, soltanto perché una volta gli raccontai della mia infanzia abbastanza povera, non ho mai avuto abiti nuovi o cose così. Giocattoli. No nulla.

Allora ecco lui mi regalava quel che poteva.

Figlia mia, diceva spesso, stringendo la mia mano, mentre seduti al tempio o non so al Porto o da qualche parte, guardavamo il mare o un punto infinito, invisibile.

Il cielo sovrastava nell’identica possente inalterabilità. E quello stesso cielo ci induceva a una constatazione di speranze varie. Era un errore nutrirne?

Cos’altro potevamo fare? Non arrendersi non è solo una questione di tempra e di eroismo, arrendersi è quasi codardia, nel mio caso specifico: nel senso scegliere la porta da cui uscire. La meno stretta era la speranza.

Spararsi in bocca, non lo aveva fatto, alla fine. Voglio dire la luce, una specie di folgorazione. E certo non sarebbe stata la via d’uscita migliore. La sortita sbrigativa, no affatto.

E io? No, nemmeno io avrei scelto di sedermi sulle rotaie della vecchia ferrovia, o altre amenità.

Il sud è una terra accecante, la mia isola vi dicevo. Una prestanza paurosa, violenta, la luce è disperante e diventa lutto.

Una tristezza recondita infilza i suoi abitatori. Alcune rupi sul mare convulso sono un ragguardevole sospetto di una tale circostanziata eredità. La tristezza. Sulla rupe verso il mare intrecciato di furia e fulgore e abisso convolano segrete tristezze, uno spirito collettivo e nostalgico, ma di una nostalgia aspra, sgraziata.

Il giorno o la sera nelle luci fasulle dei lampioni, vigilo la città vecchia, in una passeggiata solitaria o guardando, da uno scranno immaginario, il medesimo punto che guardavamo con Johannes quando pensavamo che coltivando la speranza saremmo morti dopo, morti di una morte innocua. Non morale.

Il lungomare si pronuncia con monosillabi cromatici, negli assoli delle cinque del pomeriggio; il lungomare, lo costeggio lungo il parapetto di ferro consumato dalla salsedine. Al porto, ci sono ancora attracchi lussuosi, e ieri un marinaio mi ha sorriso, dicendo qualcosa in americano. Ma non ho capito.

Davvero, non ho capito.

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Il senso di una vita – Qualcosa

Seduta al tempio non devo aspettare altro che il sole sparire dietro i tetti sopra i vicoli accaldati. Un pasticcio di angiporti che sbucano dentro cortili vocianti. Sono pensierosa, dice un tale passando, un signore distinto, sorridente, mi conosce. No, guardi, no, mi difendo con ritardo, il signore è già di spalle, distratto dalle sue abitudini borghesi del passeggio futile; è come se l’urgenza l’avessi intesa con noia, una replica automatica, necessaria a ribadire la sostanza orgogliosa e autoreferenziale: guardi signore, le sembrerà strano, ma sono viva e mi interessa di questa parvenza che mi attanaglia e non importa se sonnecchianti ciarliamo, agiamo, ancora, malgrado tutto. Capisce? Mi interessa eccome e no. Non sono pensierosa, signore.

Ma chi era?

Torno a contare gli assenti, i pedoni, le torri, il re e la regina, gli alfieri, sulla scacchiera indistinguibile oltre la pietra bianca, una scacchiera di frettolosità, eventi trascorsi, le loro tracce confuse. Io le vedo, più o meno tornare, sagome ondeggianti sulla traiettoria nel pulviscolo verso il tramonto, arabeschi nascosti, luminosi e stanchi, sul finire, al crepuscolo.

E le vecchie del tempio. Le ore derelitte, la speranza grama. Io e Johannes farneticare il risveglio, lui piuttosto. E io crederci, perché non avrei dovuto? Io l’ho aspettato: il giardino fiorire di nuovo, le vigne solcare come l’edera le pianure e scendere sui declivi, troneggianti fino al greto del fiume, dove prima erano elegie di creta e silenzi di colpe senza nome.

Sono pensierosa, è vero. Lo ammetto. Accanto una donna araba allatta la figlia, le sorrido senza ragione, senza felicità. E difatti mi chiedo irretita: perché sorridere? Di quale felicità o attesa? Perché? Mentre mi chiedo perché, il cielo del tempio si squarcia nel volo obliquo delle nottole.

Farai la strada di casa, con un passo più svelto, asciugando le solite stupide lacrime, proseguirai diritto e non guarderai giù, sotto la cala, quando sarai sul ponte, e non fisserai stupita le prime luci delle lampare e la riva e il porto laggiù.

Io devo aver avuto una casa, un tempo. C’era un vasetto di ceramica su una piccola mensa. In quel vasetto, a dicembre, è rimasta una rosa. Ho chiuso la porta. Era tutto in ordine. L’albero di Natale.

Chiusi la porta.

Chi era quella donna?

Al tempio si fa buio presto. E’ un sollievo.

La mattina apro la finestra e lascio i battenti accostati.

Mi nascondo dalla luce. Desidero la pioggia e nuvolaglie sporche.

La luce fa male talvolta. La luce del sud non tiene conto di alcune remore di uno spirito affranto. Affranto. Nel salmo, l’invocazione è accolta nel grembo della misericordia.
Non sento risuonare la parola, non sento sopraggiungere la santa dolcezza.

Sono sola.

Io.

Soltanto.

Quando ho chiuso la porta di casa quel giorno di dicembre io non sapevo ancora ma dentro era rimasto qualcosa.

Qualcosa, e rimescolo tra i pensieri, qualcosa qualcosa.

Era un profumo, ecco. E un ricordo preciso, le tende bianche sollevarsi al vento provenire dal maniero, sulla punta, nel mare impetuoso di Ortigia, la città vecchia.

Vorrei che piovesse per sempre.

E’ così deprimente la luce splendere su altro.

Allora chiudo la finestra, aggancio gli scuri.

Siedo sul letto. Non ho ricordi dalla mia. Al massimo istanti inutili che vorrebbero soccombere al sonno. E così provo a dormire, lasciando spegnere una per una ogni lucina brillare.

Non so da dove venga il brillio, non procura fastidio.

Il sonno ha un metodo aristocratico di rimediare la verità del giorno, quale verità direte voi.

La verità.

E’ ancora Natale? Hai chiuso la porta?

Dove sei?

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Il senso di una vita – Un azzurro greco

Il sole accecava gli uomini del tempio. Avevano quasi tutti problemi con la giustizia, con l’ordine sociale se vogliamo. La mattina, la pietra bianca del tempio era lo specchio ustorio di Archimede. Gli ambulanti del mercato urlavano in un dialetto cavernoso. I turisti osservavano con aria ebete e curiosa l’umanità da folklore che pareva scorrere sul rullo ilare di una movida grottesca e ignorante e la visiera sulla fronte a proteggersi dalla violenza indigena dei colori, della natura avviluppante e feroce, tortuosa come certi florilegi violetti della passiflora, o delle agavi impetuose e i fiori carnosi, le siepi di tribolo; il viso paonazzo, bermuda molto americani, con entusiasmi molto americani. Johannes era un souvenir per la curiosità degli astanti anche, di una strana goliardia teutonica, lo stupore sempliciotto del magnate di Georgetown con famiglia al seguito. Era un giullare. Ma lui era serio. A volte gratificato. Il talled, il bastone, la barba lunga.

In questi giorni di settembre trovo spiacevole ancor di più la luce accecante. Non è un buon segno. A malincuore ricordo. A lui piaceva vivere, così mi sembrava, negli ultimi anni.

Aveva accettato ogni mutilazione, con stupore e gratitudine. Era il segno di una elezione.

Secondo lui, eletta lo ero anche io. Ero risentita, piuttosto. Condizione che mi contraddistingue. Mi calmavo a tratti, non bastava tuttavia, ma quel poco bastava, quando potevamo parlare dell’Eterno, delle cose di lassù.

Non bastava per i giorni a seguire, quando ripiombavo nella rabbia che risuonava a vuoto e girava girava, intorno a se stessa, per consumarmi, senza l’offerta, il sacrificio, giusto per purificare. Il giusto purificato. Non per la Sua gloria.

Leggo Sant’Agostino, le pagine sono fitte e le lettere una dietro l’altra sono piccole e complicate persino, nella traduzione di Carlo Vitali. E’ la sola verità che riesco a sopportare. Una verità illuminata dalla grazia, se soltanto la smettessimo di errare, i nostri corpi vacui riparano nella caduta, il riposo dello spirito. Nella caduta, lo spirito stranamente rinsalda talune virtù, un esercizio di abbandono, non senza locuzione. L’abbandono all’altro. Cosa ben diversa da: l’abbandono dell’altro.

Il sole della mattina mi faceva specie talvolta. Raramente succedeva che lo tollerassi in brevi passeggiate fino al porto. Sedevo in attesa che l’orizzonte si estinguesse, sprofondasse nell’azzurro sfrontato e leggerissimo. Un azzurro greco, sapete. Avete mai visto un azzurro greco splendere sopra le acque di Aegina? Intorno al Pireo?

E’ così azzurro e greco, come l’orizzonte sprofondato verso le vele che inforcano i venti fino al Canale.

La musica proveniva dalle giostrine, una vita mi assaliva, una qualche strana equazione che ad essa mi facesse pensare. La musica di una giostrina, un bicchiere tintinnare, simile al pentagramma di un carillon. Una risata esotica, un profumo di nobiltà, eleganze che sfilavano dai panfili di fronte.

Noi siciliani siamo fatti così, aspettiamo sempre qualcosa che arrivi dal mare. Sappiamo che non succederà. L’attesa è un fatto siciliano, il tempo si dilata stancamente, grasso, inaffidabile.

Ma io non sono siciliana.

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Il senso di una vita – Una lunga preghiera

Sono la pia greca, la vestale strappata al suo pianto. Lo sono come la più gettata tra le beghine che invocano una qualche salvezza. Esserlo, nella sostanza finanche di un settembre irradiato. Certe mattine di settembre irradiato, oltre la cala, dondolano i velieri senza alcuna fretta di tirar su gli ormeggi.

Piccole onde infrangono la luce turchina, tradiscono le lontananze, responsabili di nostalgie faconde.

Ma io non uscivo di casa la mattina, perché avrei ascoltato una vivacità straziante. Per anni, è andata così. I bambini, le mamme, la scuola.

Non esco quasi mai di casa, la mattina in special modo. La mattina si svolge la vita, di quale materia sia fatta io posso pontificare, enunciare, ma non ho più quella vita di cui posso enunciare, pontificare. Non avendo la mia piccola chiesa, tolta, dileggiata, sopra cui picconi di infingimenti hanno seppellito e sterrato senza considerazione, vedete io per ciò e da allora sono una specie di animale confinato.

Qualcuno può abitare la mia solitudine? Vi sembra possibile? Tornerò a percorrere la medesima strada, fino all’ultimo dei miei giorni. Ogni passo contato è la meditazione sull’impossibile che mi era stato destinato. Io lo so. Adesso ho abbastanza tempo per chiudere un disegno, con una matita, lo faccio. Eccolo.

Fino all’ultimo giorno, a volte penso che non ci sia Consolazione. E quando lo penso, lo stesso pianto mi avvolge ed è forse la dimostrazione esatta che la Consolazione non sia altro.

Cosa sia il pianto, ve lo chiedete mai, per quale ragione il dolore? Cosa sia il dolore ve lo domandate mai? Perché si esprima in lacrime. E cosa siano le lacrime ve lo chiedete mai?

Dove si colloca il dolore, l’ipofisi, l’ipotalamo? Dove, lungo la cartilagine delle dita che contrai o infilato dietro lo sterno, sopra la spalla, tra il collo e la nuca? Piazzato al centro del ventricolo, la pompa pulsante…Dove?

Cos’è il dolore?

Come dire, cos’è l’amore? Di quale assenze ci nutriamo?

La stessa risposta non è già un mistero? Non sono troppe le domande? Da dove scaturiscono tutte le domande?

Non è forse l’Eterno?

Le domande sono l’Eterno. Il dolore. L’amore. Le lacrime. Il pianto. E’ l’Eterno.

Impalpabile, lo sai, assiso, lo E’, per sempre, da sempre. Ogni parola lo cerca, ogni parola si svela nel pauroso segreto, ogni parola è l’infinito precipitare, come se d’un tratto ogni finestra della nostra vita si spalancasse immutata e labile. D’un tratto ogni cosa può smarrire il senso, esserci da sempre o non esserci mai.

Johannes abitava la mia solitudine, prossima alla sua. Ma sacrificava volentieri la sua, per la mia.

Aveva trovato una figlia, diceva.

Sotto la cala del porto, il mare è placido, si acquatta, si nasconde, rimesta senza disordine i brevissimi flutti.

Ecco dove saresti finito. Senza una lapide. Senza un funerale.

Come se non fossi mai esistito. Ed è quel che presentivi. Eri Giobbe. Eri il misero che l’Eterno aveva preso per la collottola, malgrado scalpitassi: non me, non scegliere me. Malgrado tutto.

Vorrei ricordare meglio questa lunga preghiera che dovrebbe corrispondere alla parte di mezzo della mia vita, all’ultima della tua. A metà tra una lode e un requiem.

Per cui ecco il mondo non era veramente compartecipe di noi. Io non so cosa significhi. Realizzo di aver vissuto più che mai attraversando un’intollerabile sponda. L’attraversamento verso il cielo. E’ stato così. Per qualcuno è una malattia. L’isolamento. La predisposizione borderline. Un disturbo.

Non sapevamo fare che questo. Ricomporre il disordine con scombinate teorie, marginalità diverse, assoluti e miracolose agnizioni.

Ogni mattina accompagnavo mio figlio a scuola. Il cuore era strizzato. Immaginate un cuore strizzato, dentro un pugno. Sanguina, vero?

Sì, sanguina.

E le madri e le altre famiglie e ancora oggi.

Ancora oggi seduta al tempio, rimpiango, lo stesso rovello. Johannes allora mi asciugava le lacrime, con un kleenex. Poi ne chiedevo un altro perché dovevo soffiare il naso. E un altro. E un altro.

E i pomeriggi trascorrevano in consolazioni improvvisate, piuttosto strane, agguantate come farebbe la mano di un naufrago al braccio del suo salvatore.

Cos’è il dolore? Un giorno freddo di sole, era febbraio, ho aperto la Bibbia, seduta sul letto. Ero la serva Ruth.

Così l’Eterno sembrò parlarmi.

Consolarmi.

E ho letto: “Il Signore ti ripaghi questa tua buona azione e sia davvero piena per te la ricompensa da parte del Signore, Dio d’Israele, sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti“.

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Il senso di una vita – La magione

Johannes aveva un buco al centro del collo. Era scavato nel corpo, rivestito di pelle spessa, sembrava estinto. Ma aveva ancora una discreta forza, un vigore nerboruto. Negli ultimi tempi girava per i vicoli della città vecchia indossando il talled.

Aveva i capelli lunghi e la barba di un patriarca. I turisti lo fotografavano come una specie di souvenir.

Dalla Sicilia con amore.

Oggi piove, di nuovo. Mi piace settembre piovoso. Felicità retroattiva, l’uomo ci casca sempre, e sul senso della felicità soprassediamo, ma la citiamo a oltranza; erigiamo steccati intorno a uno sbadiglio che la ricordi. Non so, una sagoma, un cenno, qualcosa. E inciampiamo nelle medesime parole, specchi ingannevoli. La felicità. C’era una casa sulla punta di una roccia, sotto spumeggiava il mare blu zaffiro della fine dell’estate. Sedevo accucciata come un cagnetto bagnato, una bambina selvatica e con una inquietante capacità di immaginare. Guardavo la casa sulla roccia, accovacciata sulla rena fresca e grumosa, dopo una pioggia sottile; la casa era l’inverno a venire, il sopraggiungere di un fatto, nuovo a ogni stagione. L’idea di un focolare, un camino crepitante, un maglione caldo, l’ordine e un bagno con una vasca di ceramica e l’acqua corrente. Era una felicità ad esempio. Ma non manteneva la promessa ovviamente, neanche allora.

Tornava l’inverno, meschino e disadorno. Dunque?

Chi dimorava nella magione sulla roccia? Quale figure sfuggenti attraversavano le stanze, nella penombra torpida, la sala a giorno con la veranda sul costone dai complicati profili frananti sulle onde in certi giorni di settembre. E il grigiore intorno mi procurava i brividi, il già visto che non spiegheremo mai o la fortissima emozione di tornare in un luogo senza che si riesca a collocarlo. Talvolta lo vedi: è immerso tra le sequoie di una foresta russa. O è una terrazza dove si serve il samovar al tramonto, un pomeriggio che finisce troppo presto; il cielo si mostra tra le fronde di salvia, giallo violaceo; una lunga tavola in marmo, sopra cui crollano le ombre di una siepe di Perovskia. Un bosco, un cratere, quasi un anfiteatro, un bosco che scivola nei pendii sottostanti, dove si annunciano abeti e vigne lungo la linea retta, contigua a una schiarita celestiale, alternata a nubi bianche, vacue. O ancora un sentiero inglese, oltre la brughiera, la bicicletta poggiata alle mura principali di un edificio, che vedrai soltanto nella sua esposizione a est.

Cos’erano? Luoghi di un’anima antica. E’ una gran consolazione. Altrimenti resta un rovello, non lo risolvi. E la chiami felicità a bagliori. Quando non ti infili in un refrain poco propenso a conciliarti il sonno.

Oggi sembra uno di quei benevoli refrain. La pioggia.

Ma la magione è vuota. Da una stanza all’altra vagano ombre famigliari. Quella magione è la mia memoria.

A uno scrittore serve l’unico muscolo, la memoria. Sembrerebbe un albume quando fai fatica ad ammettere che la scrittura è l’aborto di una vita intera.

O forse è un esteso cimitero.

Per me lo è stato, eleggo la mia stoltezza a un rigore universale.

Certe volte, con la pioggia – guardarla da dietro i vetri – non ci si affligge nemmeno sul da farsi, su come ricucire l’abito usurato, stupidamente, non avendo nemmeno l’errore, la stoffa nuova. Intontirsi con l’identico crepitio, la pioggia come lamelle di fuoco balbettare.

La pioggia fu anche il sudario sull’ultimo saluto, un cancello si chiude. Piove. E’ dicembre.

Refrain, vi dicevo.

Johannes talvolta allargava le braccia verso il cielo, glorificava. Una lode. E sorrideva. A volte con il mantello da patriarca. Sottile, curvo.

Un giorno raccoglieremo il senso delle verità coltivate su campi arsi e desolati. Abbiamo coltivato e ricapitolato covoni. E raccoglieremo un giorno. E soltanto allora. Allora torneremo a casa.

Diceva Gesù: “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo”.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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Il senso di una vita – Capite adesso?

Il cielo torna azzurro e specchiato, ha smesso di tuonare. Mi vengono in mente le mattine nitide di Terni, fendevano glaciali, immacolate, le prime ore del freddo turgido e settembrino. Ero un’adolescente. La mattina scendevo di corsa i tre piani del palazzo popolare senza ascensore, dove vivevano i nonni, e sentivo già un buon odore di minestra. Con quale contentezza l’esistenza si svolgeva modesta e santa. Sembrava avvolgere le stradine del rione un brevissimo fumo, una nebbia pulita in verità, che condensava fino a stemperarsi in un tepore esitante a metà mattino. Facevo sempre la medesima strada. Attraversavo gli isolati, i condomini con le cime dei tigli a svettare lentamente, sfiorando i cirri pendenti a grappoli di lanterne; il ponte fino alla Passeggiata, il viale di lecci. Mi domando sempre più spesso e insensatamente quanto abbia contato nel mio destino essermi separata da loro; aver vissuto lontano, dimorato in una costante negligenza e sottrazione; una povertà di vario genere. Dall’affezione, alla comprensione, alla condivisione. Quanto abbia contato nel mio destino di scrittrice, uh perdonate la parola enorme, boriosa, scrittrice. Sì, insomma se non fossi stato quel puledrino disordinato e macilento, e fossi piuttosto diventata la margherita che i nonni amavano tanto, la bambina che cresceva felice, indossando cappellini di lana a uncinetto con un enorme fiore sulla tempia. Felice dentro un lemma che deborda in commozioni disperate oggi: insieme. Insieme è un concetto che ridondava come una gonna a godet. Insieme è qualcosa che non vale più che un suono, una replicazione stonata, un magistero minimo di lettere, una dietro l’altra.

A Johannes parlavo dei nonni. Sedevo al tempio. Le rondinelle verso il crepuscolo. Avevo lasciato la mia casa da donna adulta. Ero tornata nel medesimo disordine sciupato del puledrino malmesso, la bambina che ero. Era tornata. Vitrea. Ma non dovevo giustificarmi. Al tempio potevo tacere. O fissare per minuti, ore, la punta delle mie scarpe, o il rosone sulla cima della chiesa dedicata all’apostolo. Non era la colpa a giudicare, discriminando, in quel luogo, dove la promiscuità e la miserevolezza lo era di per sé a giustificarne ognuna, e restituirla passaggio, normalità decretata dal volgo brutale. Giusta. La colpa.

Quale che fosse la mia non avevo idea. La mia presenza, senz’altro, il fatto che esistessi così astrusamente, non conforme ad alcune rigidità nella forma del serpente. Non chiamateli affetti, di alcun tipo. Li disconosco.

Allora mi tormentava la rabbia, diventava ottusa. Allora elencavo sulle dita i nomi di chi mi avesse mai amato dopo i nonni. Restava solo mio padre. Ed ecco Johannes, l’amico, lui può darsi anche. C’era lui, quando enunciavo, violenta e immota, le insensatezze, la vergogna che indossavo ancora una volta.

La ripudiata. Ancora una volta. Poi abbassavo la testa, e mi arrendevo. A quel punto, vigeva il Cielo sopra di me. O sopra di noi.

I salmi da recitare.

Il cantico di Simeone.

Lascia andare libero il tuo servo, Signore; ora che i miei occhi hanno visto la tua salvezza.

Era un vangelo usato da mio padre, datato. Si apriva sempre sul cantico di Simeone. La mia vita era appena finita, conclusa.

Avevo chiuso la porta di casa. La mia casa da adulta. Profumava di detersivo, ammorbidenti, talco del bambino. L’ho chiusa per sempre, capite?

E avevo almeno un paio di primavere da aspettare ancora e per sempre, in quelle primavere dovevo mantenere la promessa, condurre mio figlio al circo. Il circo tornava ad aprile. Sempre. Con promesse crudeli di docilità, vita domestica, la piccola chiesa. Mio figlio era un bambino, e ogni primavera lo sarebbe stato, guardando la cima del tendone rosso, sul poggio della provinciale.

Capite adesso?

Ma voi direte: perché sei ancora qui? E cosa sarebbe la tua, non è anche questa la vita? Una vita?

Johannes capiva e taceva, o sorrideva con smarrita e devota indulgenza. Chiedeva: cosa posso fare per te?

Sulla volta del cielo, sul far della sera, sfilavano le nottole e le rondinelle e gli storni e così pensavo a un presagio, una risposta, la rassegnazione.

In questa rassegnazione, ho intessuto una casacca di menzogne, che chiamerei ricordi. La vesto con indolenza. Un saio luttuoso, perlopiù.

Ho intrattenuto la disperazione, vi dicevo, come ho potuto. Johannes era l’unico amico che avessi. Ne avevo tre. Ma lui conteneva tutta la comprensione del mondo, la comprensione dell’impossibile, tale da intercettare, in un tergo invisibile e criptato, l’esergo, l’innumerato consenso dell’Eterno. L’insperato con Johannes era un passo biblico:

Il deserto e la terra arida si rallegrino,

la steppa fiorisca ed esulti!

Si copriranno con fiori di campo,
canteranno e grideranno di gioia“.

Isaia, libro 35.

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Il senso di una vita – E io?

La pioggia arriva dentro pomeriggi inutili, oziosi. Oggi piove. Potrebbe cogliermi una strana felicità, similmente alla felicità fuggevole con una brezza settembrina. Il peso della mia solitudine è il fulcro, la sostanza al centro del senso di una vita. Ne potevo parlare al tempio, dico, al limite. Adesso cosa dovrei fare? Mi dico.

Scrivo e fuori il cielo dilania nelle saette lampeggianti lontane che oltre la cima dei pini potrei intercettare nel grigio bordeggiare delle acque del Porto. Cosa farsene adesso, mi ripeto, di quel che resta?

Johannes proclamava la lode per la vita, ripetitiva, cocciuta, la lode all’Eterno. Gli era stato tolto piano piano qualcosa, deduzioni di piccole felicità appunto, come la brezza settembrina, la pioggia dietro i vetri; piccole felicità rimandate nelle preghiere, non l’ho mai visto pregare, ma la nostra vita, persino la mia, non era che la drammatizzazione parziale di una estesa preghiera. L’abitudine a una conversazione recondita, nascosta al mondo. Non erano locuzioni, nemmeno le sue. Forse Siracide lo fu.

Johannes mi aveva spiegato bene. Voleva uccidersi, dopo la morte di Stella, si era lanciata dalla finestra del terzo piano di un albergo catanese, e lui non era riuscito a fermarla. Voleva morire. Salì nella sua vecchia automobile, prese con sé il fucile. Fermò l’automobile davanti al cimitero. La sua disperazione era senza risorse, se non c’è l’Eterno a fermare il tuo braccio o rinvigorire le membra. Guariscimi, Signore.

Prese il fucile e guardando verso il sedile posteriore, poggiò la canna fredda alla tempia e lo avrebbe fatto, avrebbe sparato.

Bang!

Poi quella luce, un torrente, l’ineffabile tenerezza sovrastava. E allora Johannes ha poggiato il fucile sul sedile. Il pianto era la ripida, il salmo. Un’orazione.

E la mattina dopo o era il pomeriggio o la sera, non ricordo, ma d’improvviso, sulla fronte ebbe la certezza di un segno, scolpito; scorreva la voce o l’epigrafe: Siracide, 2, 4-6.

E mi raccontava Siracide, vedendomi estenuata. Perché non mi arrendessi. Se io sono qui, ancora, e a occhio e croce sarei viva ancora, dovete la mia assurda presenza a lui; militante di una apocrifa evangelizzazione.

Cosa c’è di giusto nel vivere?

Fuori il cielo dilania roboanti maestosità, si squarcia in frecce fiammeggianti che inforcano fino a dileguarsi la nuvolaglia sporca. La mia indole disperata trova l’otre vuota. Sono muta. Cosa me ne faccio? Della pioggia, dell’autunno malinconico che potrebbe promettere inedie intollerabili.

Conservo lodi e disperazioni in egual misura, a cui destinare lo stesso principio di importanza, custodito in filatteri da eresiarchi.

Giobbe visse ancora lungamente, ringraziando l’Eterno.

Sono trascorsi anni di inesplicabile misticismo. Fatti esosi mi hanno attraversato, lance che penetravano il mio costato da parte a parte.

Il destino si chiama sciagura, per certuni, con uno strano senso di agilità, i francesi lo definirebbero smarcato della cosiddetta souplesse, di una leggerezza ad accostarsi all’esistenza umana nei suoi strozzati sentieri, declinati in tutti gli abissi, con rapide appena accennate, a interrompere la marcia o il tempo ronzante e lontano.

Illudetevi che i nostri giorni possano essere costruiti su gettate di leggerezza e amabili consuetudini, e non siano piuttosto l’esegesi criptica da cui sottrarre lezioni, moraleggianti astruse forme di comprensione. Il bene capovolto, non è altro che il paradosso veritiero, l’acronimo dietro a ogni stupidità e stoltezza, sembrerebbe lampeggiare la consapevolezza a cui dover inchinarsi, lucidamente, nel nome e per conto della salvezza.

A chi dirlo? Adesso, dico. Con chi posso discutere delle cose che appartengono al Mondo a Venire come lo chiamavano gli ebrei di Singer.

Il mondo a venire. E io? Mi ripeto, e io io io.

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Il senso di una vita – Figlia preziosa.

Intorno si svolgevano giorni intonsi. Finivano al tramonto nell’ottusità o nell’irritazione di aver sfrondato ore inqualificabili, tese a vagare in vortici di luci e esasperate ombre, senza concedere altro. Ore vagare prive di brillio, lucciole cieche nelle notti di tempesta. Se potessimo disegnare le circostanze di quei giorni, un tempo tondo come un uovo, o un’opaca placenta, dentro cui feti marci rotolavano insensatezze. Aborti di qualcosa, antichissime felicità attinte a una macina strozzante. Non una soluzione. In una tale disperazione – volere ricomporre con uguale ordine la mia famiglia, la mia casa – chiedevo giustizia, con orrore, con la tenacia isterica di chi abbandonata al talamo non cerca ragioni, ma riedifica, all’istante, palafitte malmesse, escludendo l’offesa, scansando verità simili a detriti, perché verità del mondo, nel disordine del delirio chiedevo a Johannes la salvezza. Non la chiedevo. Piangevo piuttosto o rovinavo nell’identica sventura, la lunga sequela di gradoni, da sollevare, fino ad arrivare al momento in cui l’accettazione placa ogni buriana. L’idea di tutti era questa, passerà, vedrai.

Johannes dovette assolvere a un ruolo tutoriale, starmi dietro, non ricevere nulla, calmarmi, conciliarmi; dove il fuoco ardeva di più, smorzarlo, indirizzarlo. Parlava dell’Eterno. Aveva perso tutto. Era un uomo solo. Anche lui.

Seguiva me, prese in casa il tale che dormiva per strada. Lo supplicai. Tutto funzionava nell’ordine dell’impossibile. Johannes capiva che con me sarebbe stato quel tempo, nell’ordine dell’impossibile, abituarsi all’irrevocabilità di sentenze ostili, salvo rivelarsi in una concessione altera o commovente, una negazione rutilante in procinto di diventare un sì, o un trattato escatologico nella forma di un miracolo, imprestato agli empi perché ne facessero memoria. In attesa di, ricordate il miracolo, nell’impossibilità, nella stoltezza edificante, ricordate. Sembrava tutto sempre fuori da noi, così fuori da noi. E il cielo si avvicinava ai nostri sussulti. Se Johannes mi riferiva di un Padre misericordioso istigandomi una tale dolcezza, allora questo Padre non poteva essere che una moltiplicazione somma e indeterminata della medesima.

Johannes diceva che ero la figlia preziosa. Quanta devozione e delicatezza. Povera cara, povera cara, ripeteva. Ed io non avevo altro da consegnare se non lo sgomento, il mio volto pallido, rigido come la cera, l’icona verderame.

L’uomo che aveva preso in casa aveva smesso di bere. Io non facevo che ringraziare chiunque salvasse l’uomo che beveva. Con Johannes non dovevo umiliarmi oltre. Dimenticavo di risentirmi, dimenticavo che potevo esercitare il diritto della donna tradita, derubata, ingannata nel piano supremo, nella fuga architettata anzitempo; mentre io ero semplice e operosa, una donna come tante; una brigata di meschinità doveva ancora trascinarmi con sé, nel luogo dei significati che si svelano, in una apparente contraddizione, nel mistero di tutte le cose fissate per giustizia, una giustizia di cui sconoscevamo il paradigma. Mentre mi prevaricavano monti e lava dai vulcani, piogge di fuoco e grandine, io credevo di vivere la vita di una donna come tante. Normale, giusta.

Johannes era Giobbe. O come lo ammonì Siracide, un giorno qualunque, era l’uomo provato nel crogiuolo del dolore.

Incontrò me, una donna sfinita, stanchissima.

Giovane ancora, lo ero, ma contenevo tutti i secoli. Così mi pareva. A volte. Così sedevamo al tempio. Perché era davvero troppo, certe volte sembrava fosse davvero troppo. Verso il tramonto, nei pomeriggi d’estate, la brevissima brezza mi rendeva stranamente felice, per un secondo.

Non è poi così terribile la vita, pareva suggerirmi la brezza breve nel pomeriggio d’estate seduta su una panca al tempio. Con le vecchie più in là. Possiamo ricordare i sentimenti, nella sacca della memoria, una ricognizione fredda, dettagliata, ma fredda. Senza perturbare il nostro animo. Possiamo ricordare la tristezza senza esserlo, la gioia senza giubilarne, è un passo di Sant’Agostino. Tutto riconduce all’Eterno per dire, ogni effimero sussulto, finanche quando ci si mostra profondo, al suo culmine, non sarebbe molto se non in relazione a un destino ultimo.

Adesso ne parlo, ne parlerò come in un mormorio. Sono andati via tutti, più o meno.

A quel non temere tenterò di avvalermi, per il tempo che mi sarà concesso, che sia un frutto e non un dono, come leggo ne Le Confessioni.

Per raggiungere il tempio, supero la cala del Porto.

Non umile, non dolente, impreco casomai: cosa ne sarà di me?

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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