Ho aperto a caso Le Confessioni di Sant’Agostino. Leggo: la morbosa ricerca dell’amore. Qualcosa che attiene alle creature sensibili, del mondo. La sete che non disseta. Nel mondo. Una strana sete. Non si estingue, se non altrove. L’altrove è la sola destinazione. Se ne convenissi senza reclamare, battermi, anzi ancor meglio dibattermi, sarebbe già aspergersi di cenere e non di rancore. Rancore per l’incompiuto. L’umiliazione come regola di vita, è inaccettabile; campo di battaglia. Poi le battaglie non sai condurle. Non vinci, non perdi.
Prima di dormire, penso a dove riposare, la mia testa, il mio cervello. Allora torno all’infanzia, alcuni brani, non tutti. Non l’infanzia siciliana, nel condominio di estrazione medio borghese, con coetanei selvaggi come volgari puledrini, crudeli ratti scattanti. Diffidenti. Brutali. Un assaggino sulle cose a venire, sul tipo di umanità a cui adattarsi, ipso facto.
Mi riposo invece in alcune estati della mia infanzia. In special modo ripercorro a mente la discesa di asfalto che conduceva al mare. La casa era povera, le mie amichette erano bambine semplici e buone. Senza girarci attorno con altri aggettivi inutili. Semplici. Buone. Indossavamo zoccoletti con il tacco di legno, la cinghia di cuoio. La stradina bruciava sotto il sole che la trafiggeva da mattina fino al tramonto. I carrubi ombreggiavano più in là. C’erano rovi di more dentro un ronzio di api lungo il tragitto e strani brividi indotti dal bitume di fuoco, una brace nera proveniente dal calpestio. Il mare imbiondiva in superficie, somigliava a un campo di grano a guardarlo sulla somma, verso settembre. Era simile a un fruscio, borbottante in guizzi rapidissimi e schiumosi, un verde stemperato verso il grigio e il blu improvviso a proseguire avanti, nelle acque aperte e profonde.
Ricordo quella discesa, e le mie amichette. Poi mi addormento. Se mi sorprende la disperazione e so che non ho chance, allora mi arrendo. So che Johannes mi avrebbe rassicurato e per anni lo ha fatto.
Adesso capisco che c’è un altro grado di accettazione, un livello di sottrazione ieratico, una specie di assalto alla diligenza. Succede più o meno il mio stupore. Ma non è stato sempre così?
Perché quando hai perduto non è stato ancora una volta il tuo stupore a preferire ogni altro sentimento?
Perché scrivi, chiedono a Malcom Lowry. Lui dice: si scrive per la disperazione. Sicuro.
Dovrò leggerlo meglio, la sua dissipazione alcolica ha un che di mostruoso e famigliare.
Al tempio ieri ho incontrato uno della vecchia guardia, della vecchia vita insomma. Uno che beve. Sedeva sulla panca, ubriaco. Mi saluta. Doveva cenare alla mensa dei poveri, ma aveva fatto tardi.
Sto male, dice. Sono stato in ospedale. Dice che vomitava sangue. Ed è di nuovo ubriaco.
Tutto questo lui lo racconta, mentre io lo guardo in piedi, di fronte. In silenzio. E non provo nemmeno compassione.
Sono uno strumento che non suona. E’ un po’ un fatto vero. Cioè la mia gentilezza è il lenzuolo sulla mia genetica distrazione, immutabilità, ignavia. Non mi importa nulla del resto. Non so cosa sia.
Allora ne scrivo talmente bene da crederci persino, da scongiurare una tale scelleratezza. Scrivo e mi assumo le varie e disinnescate colpe, di tutti, senza un reale contributo.
Sono il risultato di una genetica imperfetta, di una qualche forma di sopraffazione, ne sono certa. Lo so.
Sono sopravvissuta, sempre. Per pigrizia, perché costa fatica non esserlo. Ma non vorrei essere mai stata. Una creatura nata per non costruire, non intervenire, non tangere.
Io non vorrei essere mai stata, nemmeno un concetto, un’idea.
Il mio nome. Ogni nome contiene un destino. Sì?
Cos’è successo alla donna, era l’emorroissa, custodito il Velo, dopo la sesta stazione? I suoi pensieri? La sua vita?
Cosa ha fatto dopo, l’emorroissa, la donna del Velo? Come è morta?
O come è vissuta?
Di quale rimpianto.
© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature
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