Monthly Archives: March 2021

Vodka Siberiana, l’intervista su Out Out

di Niccolò Ratto

Intervista a Veronica Tomassini

Niccolò Ratto ha incontrato per i lettori di Out Out Magazine la scrittrice Veronica Tomassini, autrice dei romanzi Christiane deve morire (2014), L’altro addio (2017), Mazzarrona (2019), candidato al Premio Strega, e Vodka siberiana (2020).

Chi è Veronica Tomassini, a quale età ha iniziato a scrivere e come si relaziona con la scrittura?

Scrivo ufficialmente da circa vent’anni, ho cominciato in una redazione siciliana. Ma ho sempre avuto un diario, un preciso sguardo sul mondo. Uno sguardo obliquo, forse, la tendenza a cacciarmi nei guai, per capire. La predilezione per il dolore altrui come il sentiero da percorrere in attesa di una qualche verità.

Vodka siberiana, come è nato e soprattutto come si colloca all’interno della sua produzione letteraria.

Nasce dalla necessità di raccontare anni irripetibili, il primo spostamento di esseri umani dentro un esodo biblico, negli anni ’90, metà anni ’90, dopo la caduta del Muro. La prima immigrazione elefantiaca proveniente dall’Est Europa. Sono finita dentro un destino, nel vortice della grande Storia, non lo sapevo ancora, ma mi preparavo a diventare una testimone. Credo che allora si stesse definendo un destino molteplice, non ultimo il mio, quello di scrittrice. “Vodka siberiana” racconta quegli anni, attraverso un amore, impossibile ovviamente, come ogni meraviglia nella mia vita, connotata da un significato imperscrutabile o inesorabile e dall’insoluto. Il romanzo chiude una trilogy. Inaugurata con “Sangue di cane” (Laurana 2010), quindi seguita da “L’altro addio” (Marsilio, 2017), e infine conclusa con “Vodka siberiana”, autopubblicato.

Perché la scelta di un formato epistolare?

Amo moltissimo una seconda persona da utilizzare, narrativamente, come ad assecondare un tono, lo permane, permane lo spirito tragico del testo. Restituisce il senso del vocativo, dunque è implicita una specie di preghiera; le lettere diventano il salmodiare del questuante, del misero. Diventano il gemito dello spirito querulo che non capisce, che procede a tentoni nell’enormità degli accadimenti. La vita e la morte che si interrogano continuamente, il senso escatologico di esistenze amene, tutto ciò aveva bisogno di un espediente letterario adeguato, la forma epistolare mi sembrava la soluzione migliore. Ecco perché.

Quali i riferimenti testuali o gli influssi letterari che l’hanno accompagnata durante la stesura di Vodka Siberiana.

Il realismo russo, è quasi un fatto implicito, un diktat. Ma stavolta anche Limonov, raccontato da Carrère.

Dalle sue opere traspare il costante desiderio di raccontare l’emarginazione. Ce ne può parlare?

La scrittura si è presentata così, in questa veste. La curiosità che diventa pietà per l’abiezione; la pietà è un sentimento violento, potentissimo. Il mio sguardo da bambina – lessi precocemente “Christiane F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino” – finiva di solito dove gli altri lo toglievano; dove per gli altri riparava l’ombra, per me iniziava la luce. E da adulta, la mia vita non ha sconfessato l’assunto. Ho realizzato che avrei dovuto riferire l’eccezionalità, la straordinarietà di un destino, malgrado i miseri figuranti. Una massa informe e collosa di perdenti, che io ho amato moltissimo, tuttavia.

Spesso nei suoi lavori si possono scovare tracce di una sottile religiosità, qual è il suo rapporto con la religione?

Il mio è un dialogo costante con Dio. Non sempre e non certo risolto. Non potrei immaginare una vita senza Dio. Ogni dettaglio della mia vita è Dio.

Come definirebbe il suo stile?

Oh non saprei, lo definiscano i lettori, al limite.

Il suo amore per la cultura slava, quando è nato e perché.

Nei miei vent’anni, leggendo i russi. Poi incontrando i film di Kusturica.

L’editoria italiana oggi. Il suo rapporto con essa e le motivazioni che l’hanno spinta ad autopubblicarsi.

L’editoria? Non so più onestamente quanta attinenza ci possa essere oramai tra letteratura e editoria. Decido di autopubblicarmi semplicemente perché non c’erano interlocutori. E non me sono pentita affatto, al contrario.

Quali sono stati i suoi maestri e quali le opere che ogni buon scrittore dovrebbe conoscere.

Come accennavo, i nostri maestri russi, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Gor’kij, Gogol. I neorealisti, anche.

Attualmente sta già lavorando al prossimo progetto?

Ho una serie di inediti a cui pensare. E un prossimo romanzo che dovrebbe uscire nel 2022.

L’originale è uscito qui: https://outoutmagazine.com/2021/03/29/intervista-a-veronica-tomassini/

Vodka Siberiana su I Gufi Narranti.

INTERVISTA A VERONICA TOMASSINI – VODKA SIBERIANA; LETTERE EPICHE ALTICCE – AUTOPRODOTTO.

Abbiamo da poco recensito “Vodka siberiana; lettere epiche alticce”, scritto da Veronica Tomassini, di autoproduzione e abbiamo ora la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con l’autrice. Buongiorno, grazie essere passata a trovarci, possiamo darci del tu?

  • È la prima volta che ci incontriamo: vuoi farci conoscere qualche curiosità del tuo carattere?

Mah. Difficile dire così. In linea di massima sono una persona introversa, apparentemente mite e gentile.

  • Visto il titolo e il contenuto del tuo romanzo, cosa pensi del consumo di alcool sempre più diffuso tra i giovanissimi?

Ne posso pensare solo tutto il male ovviamente, nel senso non posso che dolermi. Tuttavia il romanzo non ha alcuna funzione sociologica e pedagogica, andremmo proprio fuori tema. Allo scrittore, a me perlomeno, non interessa la morale del mondo, ché non esiste in un uso oggettivo universale.

  • Il tuo romanzo si è preso tutte le libertà espressive che un’autoproduzione può permettersi. È stato difficile raccontare una storia come questa?

Racconto solo quel che conosco, in fondo è una narrazione pedissequa di fatti della mia vita. La scrittura per me è dolore, molto spesso lo è. Alla base di una poetica, c’è una ferita. Altrimenti è qualcos’altro, non saprei cosa però.

  • Interessante l’idea della struttura del romanzo a suo modo epistolare, com’è nata?

Il vocativo, più che la seconda persona, attiene a una supplica, a un salmodiare se vogliamo. I fatti che racconto, il patto implicito che stabiliscono, hanno avuto necessità di questo velo di pianto e dannazione che diventa una preghiera, un salmo, un’invocazione. Le lettere contengono un mistero, il mistero del vocativo, il tu al quale ci rivolgiamo.

  • Poiché hai sulle spalle una serie di libri prodotti da diversi editori e questo è autoprodotto, c’è qualcosa della pubblicazione classica che ti è mancato?

L’editoria non ha nemmeno preso in considerazione questo testo. Non mi è mancato nulla, al contrario, per la prima volta ho visto un risultato anche economico del mio lavoro, cosa che non posso dire per gli altri libri. La libertà, infine, il non dover subire cialtronerie e mediocrità altrui. Ho ricevuto un’attenzione (parlo della stampa) altissima. No, non mi è mancato nulla.

  • Nella carrellata di personaggi che compaiono in “Vodka siberiana; lettere epiche alticce”, c’è qualcuno realmente esistito?

Tutti.

  • Mi ha colpito molto molto la figura “del professore e della creaturina” vuoi dirci qualcosa in merito?

Creature angeliche, fuori dal mondo, un attraversamento verso la conversione. Un patrimonio averli avuti miei, in qualche modo.

Grazie mille per la disponibilità, arrivederci a presto sempre sulle pagine de I Gufi Narranti.

 David Usilla

L’originale qui: https://igufinarranti.altervista.org/intervista-a-veronica-tomassini-vodka-siberiana/?fbclid=IwAR2-mFze9xwZ-TxagnTXeetAenu6vmceuKuglm5CU_3PfDbuwbxXFHoEN_Q

Ilaria Palomba su Vodka Siberiana: una catabasi vertiginosa.

di Ilaria Palomba    

“Vodka Siberiana” di Veronica Tomassini è un’opera auto-pubblicata,  che si può acquistare solo contattando l’autrice. Scelta coraggiosa, quella dell’autopubblicazione, pericolosa, coraggiosa e rivoluzionaria. Verrebbe però da chiedersi per quale motivo uno dei migliori romanzi italiani degli ultimi anni non sia stato pubblicato da un grande editore. Lungi dal fornire una risposta a questa domanda, vorrei semplicemente fare qualche riflessione sul libro di Veronica e su cosa è – e cosa può essere – letteratura. 
    Vodka Siberiana racconta un amore sovrannaturale, una catabasi vertiginosa, un dono – un farsi dono e dissiparsi nell’altro – due mondi che si compenetrano, a tratti s’identificano: l’est e il sud, descritti mediante lettere a sé stessa, che non sono lettere ma funzioni religiose. Veronica ricorda il passato in seconda persona, un passato destinato a un altro sé, che accoglie il vissuto frammentato nel tempo, le sue relazioni tossiche eppure estremamente umane, e proprio per questo estremamente umane. Vite marginali, ebbre, attanagliate da un destino buio e da un implacabile desiderio d’infinito – di Pietà.
    Veronica Tomassini descrive il disagio, la povertà, la periferia ma lo fa con tratto onirico, in ciò risiede la sua sfida: raccontare storie minime con uno stile massimo, rendere onore alla disperazione mediante la religione. La differenza è il segno che si fa chiodo, il tratto costitutivo dell’esistenza, ciò che ci rende dissimili dalla bestia e dall’ordine numerico. 
    I paesaggi sono metafisici, anche se possiamo intuire dove ci troviamo, siamo in un altrove assoluto, nel fondo di un’anima, in una periferia esistenziale. Tomassini prende le mosse da Limonov di Carrère, lo fa proprio, e crea una trama-lingua – non pura trama ma lingua che trama – che non può essere disgiunta dal vissuto, dalle suture della memoria. 

    «Parlavi con il professore ed era bizzarria e stranezza ovunque e ovunque per questo si ristabiliva l’ordine giusto dei fatti, che si succedevano, abnormi, compassionevoli, in casa della creaturina tutto era perdono. La vita stessa entrando in casa della creaturina diventava una preghiera incessante, voi con le vostre sventure, la vostra amoralità sopra la considerazione del buon gusto, diventavate preghiera, persino voi, intendendo la breve ressa convulsa di richiedenti qualcosa. Derelitti, orfani dell’indulgenza e tuttavia affogati nell’indulgenza che vi attraversava, come una ferita si apriva e lasciava che esondando l’empietà si colmasse di mestizia e misericordia. Misericordia. Hai cominciato allora forse – non ricordi bene, ma è probabile – a pronunciare la parola: misericordia. E più terribile dell’amore è la pietà. E ancor di più la misericordia. Terribile: che non ha mai fine. Terribile come un confine dell’eternità.
Vedi? Non sono folgorazioni? Tutto sommato, non lo sono? 
La pietà ti è stata inoculata anche se vogliamo. Con quella gente lì, quei balordi. Come Limonov guardando al suo paese dopo Chruscev, Breznev. La sua gente. Un popolo che non avrebbe avuto mai una vita normale. Piuttosto – scrive Carrère – volti verderame, ma mai rubicondi. Piuttosto treni devastati dall’uggia, un’uggia sovietica, la povertà costipata, come in una camerata, passeggeri miseri, con miserie in valigie legate, disadorne provviste, conserve nauseabonde. Una rimessa insopportabile di umiltà e resa. Limonov indovina il terrore ingenerato dalla pietà. Un terrore che non sa smettere, l’espiazione su larga scala, rimbalza fino a noi, diventando pietà, preghiera. O lo chiamerai terrore.» 
    Qualcuno ha definito questo romanzo poema, qualcun altro le ha detto: «Sei da Adelphi». Se ne scrivo è soprattutto per questo, sono tra coloro che vorrebbero la Tomassini pubblicata da Adelphi, tra coloro che tifano per una rivoluzione letteraria: non più fatti, non più narrativa – com’è possibile fare narrativa oggi? – ma mondi poetici, interiorità, onirico, immaginario. Anche una storia realistica può essere raccontata mediante l’immaginario ma – ancor più oggi che siamo invasi da programmi di cronaca nera, violenza domestica, fiction su mafie varie ed eventuali, film che parlano di cruda realtà, che ci assillano con la realtà – penso che la realtà possa essere raccontata mediante l’immaginario – l’inconscio – che ne è il fondamento. Esiste una differenza tra verità e realtà, la verità è nel non detto, il non detto della parola poetica, – che seduce e allude – il non detto della parola filosofica che, come voleva Lyotard, desidera il desiderio a partire dal lutto dell’unità, perché l’unità del senso è perduta. 

    Possiamo davvero ricalcare le grandi trame – quelle che furono di Hugo, Balzac, Dostoevskij, Tolstoj, Dickens, Brönte? Possiamo davvero ricalcare idee che furono di Joyce, Proust e Musil? Possiamo ancora giocare a fare i postmodernisti dopo Pynchon e Wallace? O non dovremmo piuttosto nietzschianamente rivolgere la punta del dolore contro noi stessi?     Qualche mese fa, a proposito di “Due vite” di Trevi, avevo scritto che, dopo le grandi narrazioni dell’Ottocento e le avanguardie del Novecento, non ci restano che due cose da raccontare: la memoria e l’assurdo. Veronica racconta la sua memoria ma lo fa in modo assurdo, e questo assurdo è tutto ciò che si può dire, perché oggi davvero non esiste altro che si possa dire se non la distorsione di cui siamo composti – e decomposti – ripercorrere la vita – la propria e le altre – con il filo indicibile della poesia.
    Hölderlin a un certo punto decise d’impazzire, stanco di essere sé stesso, iniziò a firmarsi Scardanelli, e allora cominciò a vedersi nelle cose, nei luoghi, negli alberi, nei boschi che percorreva uscendo saltuariamente dalla torre di Tubinga, in cui decise di abdicare al mondo. Veronica Tomassini, dalla sua personale torre di Tubinga, racconta il vivo e il margine, un’esistenza in bilico, la scelta di deviare, e lo fa con la maestria dei poeti. In ciò – nel ripercorrere la sua storia – supera ogni accademica, astratta storia.

L’originale su Suiteitaliana qui: <a href=”https://suiteitalianalt.blogspot.com/2021/03/romanzo-poema-e-autoproduzione-su-vodka.html?m=1&fbclid=IwAR2FFdCwl9FmBMOD0MrOtdH0nCQYIrjxgj1BvEWl6mVOaxp7hPaTa1RasN0″&gt;

LA RECENSIONE – L’AMORE, L’AULICO E L’OSSESSIONE IN “VODKA SIBERIANA” DI VERONICA TOMASSINI

di Paride Candelaresi

Ho chiamato Veronica una mattina di metà gennaio. Mi ha risposto in maniera cortese, apparentemente timida. Mi è parsa cordiale, ma schiva. Mi ha inviato il suo romanzo, Vodka siberiana, auto-pubblicato. Di norma non li leggo – gli auto-pubblicati, intendo –, ma ho fatto un’eccezione. Veronica Tomassini è una donna originale: siciliana, enigmatica, risoluta e selvatica come solo alcune donne del Sud sanno essere. A pagina 62 del suo libro, dice «Novembre in Sicilia ha la levità della primavera che procede verso l’autunno». Come non rimanere ammaliati da così tanta poesia. E ancora «è una gran fortuna nascere nella giustizia». Sono molte le frasi laconiche di questo genere, brevi calcoli poetici. Lettere epiche e alticce quelle di Veronica, missive che lei scrive a sé stessa.

Il Nuovo libro di Veronica Tomassini, Vodka Siberinana. Per acquistare il testo dovete scrivere all’autrice, su Facebook:

La Tomassini è una drammatica e prodigiosa scrittrice molto apprezzata – ha all’attivo i romanzi Il polacco Maciej, Christiane deve morire, L’altro addio, Mazzarrona. C’è chi l’ha definita rivoluzionaria, controcorrente, tragica, viscerale. Cerco di non farmi influenzare troppo dalla fama che la precede e comincio a leggere il libro. D’altra parte le recensioni iperboliche che ho letto delle sue opere non mi hanno ancora convinto ma lei, ammaliante come una strega, mi folgora con lo sguardo obliquo che attraversa la sua pagina Instagram. Ci sono una serie di foto del suo viso senza filtri, dettagli del suo volto, alternati a immagini del suo corpo minuto, bellissimo, senza testa. Mi chiedo, chi è Veronica? Impossibile nel suo caso disgiungere l’opera letteraria dal suo creatore.

Comincio a leggere le prime pagine. «La solitudine è la fossa più spaventosa dove guardare, e devi guardare, e devi farlo, in cui distinguere la degradazione delle pedisseque e ignobili circostanze di sventura». Caspita, penso questa ha piombo da sparare. Dunque, vado avanti. La scrittura di Veronica è infettiva, usa la seconda persona, è depositaria arcaica di sapienza letteraria.

I cambi di prospettiva sono caramelle amare da digerire. C’è il suo alter ego, una giovane donna che racconta della sua tormentata esistenzaLo fa grazie al mezzo più nobile, l’amore. Il suo è oscuro, puro, difettoso, altissimo. È rivolto al siberiano, uno zingaro dai denti d’oro, slanciato e virile nel suo magro fascio di muscoli. Ha il viso bello ed eroico, quadrato e con gli zigomi scolpiti. È sessualmente attraente perché coriaceo, esotico, sempre sbronzo. «Zapoj la chiamano i russi. La sbronza per settimane, un vagabondaggio di visioni alticce traboccanti di deliri, la rivendicazione di un proletariato afflitto da una giustizia inesatta e da infinite inanità».

Scrive bene Veronica, penso. E ci sono molti riferimenti alla letteratura russa che farebbero tremare l’inutile esistenza di molte zuccherose colleghe scrittrici. Emmanuel Carrère si manifesta più volte in vorticosi costrutti di parole che distinguono la prosa di Vodka siberiana. Va a braccetto con Hlasko e Dostoevskij. Veronica vola alto e il suo elogio della solitudine è groppo in gola per il lettore.

Forte è l’influenza del personaggio di Limonov, teppista in Ucraina e idolo dell’underground sovietico, proprio come quegli indigeni che abitano il parco descritto nel romanzo: derelitti, stranieri, dissidenti. Eccitanti nel loro imbarazzante odore e portatori di disordine. Sono uomini smarriti, selvaggi che fanno tremare in tutta la loro esuberante primordiale sensualità. Mi fermo a riflettere su quello sciame di parole, poi vado avanti nella lettura.

Il testosteronico siberiano della Tomassini diventa soglia verso un nuovo mondo che l’avvia alla morte per non tradire la sua fede. C’è un martedì di novembre che cambia per sempre l’esistenza della giovane donna, innocente e borghese prima, lurida e immorale dopo. La donna a cui scrive la Tomassini è vittima di un incantesimo malato, diventa bersaglio di un intervento magico, fragile peccatrice nella sua imponente e delicata bellezza.

Ma torniamo a quel giorno «forse era martedì. Ed era novembre. Hai preso la lampada azzurra e l’hai infilata in una sacca. (…) Novembre è un mese tetro. In Sicilia, la primavera non finisce mai, si chiama inverno». Gli struggenti e balenanti capoversi del finale illuminano le pagine di quell’aura che ha avuto santa Cecilia, la giovane nobile romana che nel III secolo si avviò alla morte pur di non tradire la sua fede. Se per lei la morte è ingresso in una dimora preziosa e ornata (San Paolo), la protagonista del libro di Veronica Tomassini si abbandona a una coerenza definitiva, assoluta e radicale verso l’Amore. «La consolazione? La consolazione è grazia. Attraversi le spire del fuoco, la solitudine ti ha piegato le ginocchia».

Ho letto questo libro in una settimana. Le pagine, fitte di aulici ed epigrammatici versi, obbligano il lettore a prendersi delle pause. Oppure lo inchiodano alla sedia. Mi ha disturbato quella scrittura implacabile, lapidaria, soffocante – non lo nascondo. La sua prosa solenne si piega alla descrizione di provocanti balordi, imbarazzanti prostitute, inquietudini e incertezze perché la Tomassini pensa come una donna e una madre, ma scrive come un uomo. È scultorea, plastica e imponente, fragile, esile, effimera, fugace. Ci sono gli oleandri, le magnolie e i fiori selvatici. E poi c’è l’Amore in tutta la sua bruciante potenza distruttrice.

Le lettere di Veronica non si trovano in libreria e neanche online. Se volete leggere il suo libro dovete andarvelo a cercare perché i tesori, si sa, non sarebbero tali se facilmente raggiungibili. Potete tapparle la bocca, ma lei non smetterà di gridare. Non è da tutti essere per pochi.

Avevo pensato di intervistare questa scrittrice ribelle della letteratura contemporanea. Poi, a fine lettura, ho deciso che lei avrei fatto solo una domanda, una sola, apparentemente semplice: che cos’è l’amore per Veronica Tomassini?

“L’amore è l’assedio, l’ombra che Qualcuno ci ha lasciato addosso, perché nell’assenza, la Luce per deduzione, ne rivendicassimo la sola appartenenza. L’amore è lo spazio vuoto, la sedia tolta. È una vita in pezzi“.

L’originale è uscito sulla rivista Il detonatore, il 9 marzo 2021

QUI: IL DETONATORE