Monthly Archives: February 2016

Slavonski Brod

Leggo i racconti di Ivo Andric e rimango sedotta, più che dal suo linguaggio, dal luogo letterario utilizzato nel primo di questi (Lettera del 1920, nda), la stazione di Slavonski Brod. Il mio slavismo torna indomito e ostinato. Non so tuttavia quanto ancora possa esercitare le sue influenze, in questo preciso momento storico della mia vita intendo. Però Slavonski Brod è già un capitolo, una suggestione che dilata ad elastico la possibilità della storia e ne possiamo immaginare i dettagli. I vicoli tortuosi di una non proprio modesta cittadina sul guado (brod) del fiume Sava. La guerra, la promiscuità delle razze, il nazionalismo, la stupidità, la suggestione, sono già letteratura. Di Andric ho letto solo questi racconti, ho comprato il libricino in una bancarella, nel mercato della domenica della mia città. La passione per la lettura la devo a mio padre ed ero con lui una domenica al mercato della borgata. Ho notato i due volumetti, uno di Andric e l’altro di Solzenicyn (Una giornata di Ivan Denisovic). andricIl tedio di Solzenicyn è funzionale alla narrazione drammatica e monotono ambientata nei gulag del regime socialista in Siberia (1942). Chiamo mio padre: hei guarda, dico, alzando il volumetto, appena scovato nel mucchio. Mio padre non mostra un grande interesse. Non so cosa stia cercando, sapete quell’ inquietudine a cui non si sa dar nome, ma che è il libro a restituirlo, il libro, l’autore che sovviene a noi, incontrandoci. E io invece avevo già trovato, i due tascabili economici Newton, ricordate? 100 pagine 1000 lire. Che nostalgia. Racconti di Sarajevo, cita il titolo dell’uno. Andric fa dire al suo personaggio: (…) Resterò per tutta la vita con il ricordo della Bosnia, come di una malattia contratta (…). La letteratura è spesso nostalgia, non siete d’accordo? E’ nutrita dagli esuli, da tutti “i fuori luogo”, dai nostri tormenti certo e soprattutto da tutte le assenze. Che sono i trofei che contano nella memoria. Niente di più precipuo dell’assenza che assedia la memoria. La stazione di Slavonski Brod è uggiosa, grigia. Sporca come la neve di inverno sul ciglio di stradoni anonimi, in un qualsiasi paese comunista. Il medesimo paesaggio mi prende allo stomaco, tutte le volte. E non so spiegare ancora.

modesti ritorni

Torno al tempio in un pomeriggio di vento. Il sole batte sui ruderi pagani, la gente sembra sparita. Sono solo vecchi, pochi sparuti vecchi. Il mio piccolo mondo, i suoi modesti ritorni. Il poeta, il maestro poeta. E’ morto. L’ebreo. I miei amici, vecchissimi, come me, di quella vecchiezza che non si abbarbica sui nostri visi o sulle membra stanche, ignora la sostanza della nostra età. Sono tutti i modesti ritorni che abbiamo seguito, noiosi pedanti. Le enormità, la debolezza, gli abomini franati sulle mie spalle, accolti ancora una volta come aborti da sostentare. Mio figlio mi dice: mamma, che stiamo a fare qui? Sapete quei rami storti? Eccomi. Lo sono. Mi siedo sulla panca, davanti al mare. R. dice che mi fa bene, mi aiuterà a risolvere la tosse. Vorrei ridere.

_MG_0752Vorrei essere felice. Un giorno, lo scriverò, vorrà dire che sarà accaduto. E aggiungerei: di nuovo. I. non mi scrive più, non ci siamo più visti. Ci teneva che andassi da lui, a San Valentino. Invece gli ho scritto: senti, lascia stare. E questo lascia stare è la folgorazione che risolve le cose. Come il sole risolve la tosse, scaldandomi appena, seduta sulla panca. Lascia stare. Ho imparato a dimenticare, devo concentrarmi: decido di botto di non pensare. Provate a farlo, individuate l’obiettivo e poi: dimenticate. Fra un mesetto comincerò l’editing, il nuovo romanzo se Dio vuole uscirà il prossimo anno. Nel frattempo lavoro a maglia.

 

non cominciare

Stamattina lo vedo, con le sue solite maschere. Supera in altezza di due palmi almeno tutti gli altri passanti. Nero di quella negritudine che mi sembra io non abbia mai capito, abbia piuttosto ignorato in assoluto. Mi sono persa qualcosa. Non mi importa, I. non è l’uomo per me. Quindi la seconda fase è: non cominciare nemmeno.

Mi trascino, ammetto, è questa influenza ibrida, un tedio mortale che mi si è appiccicato addosso. Mi vedo bruttissima, con tutti gli anni, li dimostro tutti. Stamattina ero proprio gonfia, in viso in special modo. Mi sono vergognata, ho sperato che I. non mi notasse nemmeno. Segretamente non voglio guarire, non trovo una ragione, non è una questione di ragioni, è una questione di spirito, di vigore morale. Ho incontrato un amico stamane, mi ha detto: scrivi ogni giorno. Lo faccio. Soltanto che non trovo la luce.

I. è un incontro sbagliato. Ma io sono una donna. I. è un uomo. E’ tutto molto naturale. Eppure capisco che non devo non devo non devo.

forget me

I. non vuole capire. Gli spiego: siamo diversi, ok? Sono troppo europea per te, non chiamarlo razzismo, per favore. I miei pensieri sono europei, sono malinconica, algida come certi paesaggi lagunari. Non mi importa un accidenti del colore della tua pelle. Sei tu razzista, tu me lo ricordi sempre, tu distingui gli uomini per razze. Io no.

I. dice di amarmi. Così mi arrabbio sul serio. Lui insiste: “Please, love me, because i love you“. Non se ne parla nemmeno. Vorrebbe un figlio un giorno, partiamo, andiamo in Germania, in Francia, ricominciamo. Ma sai quanti anni ho? Lui è più giovane, molto più giovane. A lui non frega nulla dice, potresti essere vecchissima, ma quando sei vicino a me, tu sei piccola, bambina.

Bè, importa a me invece. Perché sono stanca,  avventurarmi mi stanca, perché biologicamente funziona così. In questa età si vogliono altre cose e infatti cerco altre cose, un altro tipo di uomo che si prenda cura di me e di mio figlio. I. dice che ho paura della vita. Bravo, tipico ricatto morale, no anzi un modo di provocarmi, per indurmi a un sì, devo pensarci bene per riconoscerlo però, sennò casco nella trappola. Potrei rispondergli: E allora? Tu hai paura dei cani, e ti ho già rassicurato quel giorno al mare quando ne incontrammo in branco. Massì. Ho paura della vita, ho già dato tutto. I. non c’entra niente con me, l’ho incontrato per strada un pomeriggio di dicembre, lo salutai distratta sorridendo, anche lui salutò annoiato, aspettando seduto al tavolo di un bar il prossimo cliente al quale avrebbe venduto le sue maschere. Io cercavo altro, non un uomo che non avresse niente, perché stavolta non ho niente nemmeno io. E poi certe cose vanno bene a una età e so perfettamente il grado di resistenza che esse pretendono. Rimprovero I. : “Forget me!”.