Monthly Archives: November 2015

forme prossime all’amore

Sono giorni di confusione ancora. Ma aspetto il tempo giusto per mettere le cose a posto, i pensieri buoni, il perdono, la lucidità per distinguere senza più battermi il petto quel che è accaduto. La cosa buffa è che ci sto dentro, come se fosse ieri, non devo riassumere per voi pochi o tanti che mi leggete, il piagnisteo è sempre lo stesso, nel frattempo sono decenni di inerzia. Tuttavia, diciamo che sono nata come autrice, quando è crollato tutto il resto. E la ferita che rimane per sempre è capace di ingenerare miracolosamente forme prossime all’amore. Sono giorni in cui ho pregato moltissimo per un giovane che Dio ha voluto a Sé. Vedevo mio figlio, hanno la stessa età, avevano la stessa età, e non smetto mai di pensare a lui o ai genitori il cui dolore non ho nemmeno il coraggio di nominare. Però Dio mi risponde, se chiedo abbandonandomi completamente, Lui mi risponde e mi spiega e ci spiega. Con il libro numero 4 della SapienzaDivenuto caro a Dio, fu amato da Lui e, poiché viveva fra i peccatori, fu portato altrove. La sua anima era gradita al Signore. La gente vide ma non capì.

alle Porte di Clignancourt

Stanotte ho sognato di tornare a Parigi. E non c’entrano niente gli attentati, l’orrore del Bataclan. Parigi è una spina nel cuore, da quel lontano 1995, quando in attesa di ripartire, al De Gaulle, rimuginavo tutto il rimpianto. Entrai nel maestoso mercato dell’usato, non mi sono mai sentita così a casa, come allora, avevo i brividi, sono una senza patria, in fondo, per indole, e Parigi è fatta per le persone come me. Le Porte di Clignancourt. Abiti importanti d’epoca, lustrini ovunque, scarpette con la punta quadrata lucide con fiocchi vezzosi. Sentivo la storia camminarmi addosso, i sospiri delle grand dame bruciarmi nel petto. veri parisAvevo solo vent’anni e potevo sognare ancora quel che non sarebbe mai accaduto. Invece una specie di castigo continua a costringermi in una città di provincia irretita dalla diffidenza, dalla gente incapace di sorridere senza mormorare digrignando maldicenza o sospetto. E’ il mio castigo. Infatti sono sola, non ho amici, non ho un uomo, non ho nessuna vita. E’ tutto così orribile. Avevo conosciuto un francese, viveva in Bretagna, pensavo chissà magari è la volta buona. Poi ho chiuso anche con lui. Non c’era molto, solo una infinita proiezione di opportunità da verificare, senza alcuno slancio, tuttavia. Mon petit, io sono ancora qui.

 

cosa dovrà accadere ancora?

Si domandava un personaggio di Orwell: cosa dovrà accadere ancora?

Scrivo, dopo gli attentati di Parigi. Non è ancora cambiato nulla per noi occidentali o invece è cambiato tutto? Nella mia piccola vita intanto “tutto” procede comunque. Guardo poco la tv, solo per un  momento ho pensato di non partire per il Giubileo romano, andrò e basta. Il problema è che a volte dimentico le motivazioni, da qualche settimana mi ha preso un tedio mortale, un sonno costante, non mi lascia, durante il giorno faccio quel che devo fare, il pomeriggio cammino in pineta. Nessun sussulto. Non patisco per un abbandono ed è già una gran cosa; ho interrotto ogni contatto esterno, slegato relazioni fasulle. Ho ridotto il dosaggio del farmaco. Non mi aspetto nulla. Malgrado la domanda che contraddice la tentazione all’afasia (sospenderò ogni giudizio sul mondo e sulle cose): cosa dovrà accadere ancora? Allora dico: non smetti di affezionarti al mondo, sei una sfigata. Non sai neanche vivere come si dovrebbe: non sei competitiva, salvo timidi exploit che durano lo spazio d’un mattino. Continui a essere quella che si fermava al sesto giro di campestre. Piagnistei. E’ solo noia, credetemi. Ci sono fatti enormi, il mondo muore e io guardo i melograni esplodere in un rosso turgido e ostinato. Oppure penso al mio inglese da schifo con cui sono costretta a misurarmi quando capita, quando parlo con amici dall’altra parte della terra. melograni

Un pomeriggio, seduta al tempio, mi fermano dei ragazzi, appartengono alla Chiesa degli ultimi giorni, mi propongono: vuoi frequentare un corso di inglese da noi, signora? E’ gratuito. Ho sorriso, ho detto sì perché mi hanno chiamato signora.

la donna giusta

di Giuseppina Borghese

Nella lettera che hai pubblicato sul tuo blog (www.veronicatomassini.wordpress.com), a Michela Murgia imputi una leggerezza verbale. Chiariamo la tua posizione sulla questione.

Mi ha offeso l’aggettivo usato per calare in una categoria un certo genere di donna, androgina magrissima (il riferimento era la copertina di Marie Claire di novembre, nda). L’aggettivo usato era: disgustosa. Michela Murgia si opponeva a quell’idea “disgustosa” di donna (dunque una categoria), in un post pubblico, e più o meno alla lettera. Per chi lavora con le parole, con un seguito di lettori considerevole come la Murgia, una tale leggerezza nella comunicazione, nella scelta della definizione, non dico sia imperdonabile, ma è senz’altro offensiva. Avrebbe offeso nel qual caso una parte della popolazione femminile che rientra in quell’idea “disgustosa”. La sua veemenza, con intenzioni nobili per carità, doveva dirottarsi al limite su un’idea di “estetica”, un immaginario, un paesaggio (la scelta esistenzialista, quasi gotica, da foglie d’autunno, ok discutibile), non su un’idea di donna. Un veterofemminismo al contrario, se vogliamo. Uno Slut shaming da pasionaria accecata da una trave nell’occhio, giacché non si è accorta che è caduta in una trappola prossima al peggiore sessismo.

Cos’è per te il disgusto?

E’ una chiusura, senz’altro una chiusura. Il fallimento di quel senso degli altri intimo che chiamiamo empatia. Il disgusto è un pregiudizio, anche. E il pregiudizio conta i passi della paura.

Ad un certo punto della tua vita, hai deciso di smettere di mangiare. Perché?

Ero una ragazza, il pretesto fu un forte stress dovuto agli esami di maturità, studiavo molto. Ma la ragione era un’altra. La ragione è un fattore ics, è un’assenza. Non lo so perché fondamentalmente; fondamentalmente dopo un po’ nella regola si torna a mangiare. Una ragazzini può pure tentare di imitare i limiti della moda (perché sono limiti), ma quelle che non hanno il fattore ics non ci restano, in definitiva vivono, tornano a mangiare. Le anoressiche no. Non imitano le modelle, a me non fregava un accidenti del modello estetico, io se devo dirla tutta sognavo di avere delle tette enormi. Vivevo malissimo, stavo con un tizio che si faceva di eroina. Eppure non basta a spiegare. Ho perso dieci in chili in un mese e poi giù, fino ai 41-42 chili. Avevo sempre freddo e stavo male. Il prolasso dell’intestino e altre cose. Soffrivo dunque anche fisicamente, non solo moralmente. La moda non c’entra un accidenti. E’ una grossa balla. 

magrezza

magrezza?

Cos’è la fame?

E’ la vita che si arrampica sulle tue scarne membra. Il bisogno primitivo che ti ricorda di stare al mondo. Ed è pauroso accorgersi che bisogna starci, in un modo o nell’altro. Non ti puoi arrendere. Forse le anoressiche si arrendono, ma il loro corpo no, marcia per fatti suoi, cede qua e là.

Esiste un fenomeno che si colloca in una posizione diametralmente opposta all’anoressia, ma oggettivamente sembra essere un’altra faccia della stessa medaglia. Parlo dell’invasione – sulle riviste e in tv – di fondoschiena e seni ipertrofici su gambe tornite e vitini stringati. Le chiamano “curvy”, un vero e proprio prodotto dell’industria dello spettacolo e si presentano come una sorta di riconciliazione col corpo della donna. Kim Kardashian è uno dei vessilli di questa finta pacificazione estetico/sociologica. Qual è la tua opinione al riguardo

Sono icone fasulle ovvio. Immagini che sono funzionali a un’idea appunto (da maquillage stavolta), sono una scenografia, sono una provocazione. Non conciliano nessuno, al limite demarcano il grande inganno: lo standard. Specie se riferito a una creatura umana. La normalità, ancora peggio. La misura giusta. Usa l’aggettivo “giusto” e ingeneri disperazione, è un fatto. Cercatemi la donna giusta, per favore. E anche l’uomo, sarò felice di darvi ragione.

La cattiveria delle donne che combattono le donne. Anche in virtù di un affrancamento della donna nella società maschilista. C’è tanta letteratura e cinematografia al riguardo. Da scrittrice, dovendone dare un’immagine, come la descriveresti

Non ho mai amato le corporazioni, lo ammetto. Non capisco molte cose del femminismo. Mi piacerebbe pensarmi parte di una sorellanza universale. Non è così. Siamo in guerra. Per affrancarci, diventare più stronze degli uomini quando lo sono? Può darsi. Le donne cattive con le donne: l’unica cosa che mi viene in mente adesso è Meryl Streep ne Il diavolo veste Prada.

C’è stato un momento nella tua vita in cui ti sei sentita nuda?

Tutte le volte che ho presentato il mio romanzo d’esordio (Sangue di cane, nda), perché la donna di quel romanzo non aveva pudore: amava e basta, senza guardarsi mai allo specchio. Senza pensarsi un corpo o perlomeno senza pensarsi un corpo che non fosse stretto a quello del suo infelicissimo disperatissimo amato.

Cosa diresti, oggi, a Martha Wiggers (la donna copertina di Marie Claire di novembre, nda)?

Le direi: sei così bella, spero che almeno tu sia felice.

 

L’articolo originale potete leggerlo qui:

http://lereticosumarte.com/2015/11/11/must-have-autunno-2015-deretani-ipertrofici-su-sane-taglie-38-classico-intramontabile-la-noia-intervista-a-veronica-tomassini/

oscillazioni

Tornano le oscillazioni. Non sono mai andate via. Un tripudio di stupidità ha caratterizzato gli ultimi mesi. Questo significa star bene? Ho fatto un sacco di confusione, ho smesso di essere empatica, non lo sono, punto. Ed è una gran cosa. Nonostante ciò, soffro moltissimo per gli animaletti, non sopporto certi link sui social così brutali, soffro moltissimo per il destino degli adolescenti, in tutti vedo mio figlio. Tipico di una madre, persino maldestra come me. Torno a scrivere i miei post. E’ un esercizio, non avrei niente da dire, come avrete notato. Non sto bene, forse, sono già in paranoia perché ho diminuito il dosaggio del farmaco e penso che sia la causa della tristezza, come se non conoscessi altro. Tempo fa ho incontrato un amico scrittore, mi ha chiesto: non sei contenta per quanto accadrà al tuo nuovo romanzo? L’ho guardato e ho detto: sì. Alle parole deve corrispondere un fatto, una circostanza. Sono talmente lontana dal mondo. E sono anni che ho divorato senza memoria, senza che ne possa ricordare almeno una canzone per ognuno.

Pasolini per me

Avevo paura dello scrittore, lo ammetto, nel cordoglio generale, oggi, lo ammetto. Ero scossa persino dal suo viso, ero una bambina, ma ancora adesso è così. Impressionata da quel corpo coperto male, il fango i baracconi. Il sangue, l’efferatezza. L’idroscalo, l’anonimo girone. Nella mia tenera percezione delle cose già la morte dello scrittore era tutt’uno con i suoi film i suoi scritti. In tv – non so come sia stato possibile – avevo visto, turbata profondamente, alcune scene di Mamma Roma la cui tragicità restituiva una crudeltà da parossismo. Non sono mai riuscita a leggerlo, malgrado ho amato moltissimo il neorealismo, se vogliamo, se è giusto dirla così, il neorealismo più consolatorio. Le periferie di Pierpaolo Pasolini erano quella proda repellente che non ero capace di sopportare, preferendogli la quiete della provincia pratoliniana, dove la brutalità riuscivo a tollerare come un innocuo contributo letterario, senza l’esosa sommità del limite umano superato dal regista di Salò. Eppure le periferie sono state una specie di poetica per me, questo doveva spingermi a rivalutare il neorealismo pasoliniano, non temendolo oltre. Non sono riuscita ancora. Ed è la mia confessione di oggi. Ieri ho riprovato, ho seguito molte cose che lo riguardavano (e questo negli anni ovviamente), le infinite ricostruzioni della notte dell’idroscalo. Ho provato ad appassionarmi, senza pregiudizio, al suo visionario Decameron, con Ninetto Davoli più simile a un satanasso (nella mia limitata sensibilità) che a un malinconico guitto del tempo. Gli afrori di quella periferia erano osceni – la periferia pasoliniana tout court – un paesaggio eretico da cui difendersi. Devo nascondere questa colpa? E stata una colpa? Non amare Pasolini, rifuggirne piuttosto? Non trovavo la luce nelle sue periferie, le sue remore le sue fragilità erano in penombra. Certe volte ho avuto la sensazione che prima di accadere la sua morte essa stessa ne fosse presagita o che perlomeno io la considerassi addirittura inequivocabilmente. Conseguente la morte a un paesaggio eretico. Non temo di ammetterlo oggi. Non è cambiato nulla. Tra le mani ho un saggio dedicato a Pasolini, del giovane autore Luca Raimondi, pasoliniano, non della prima ora solo per una questione anagrafica. Le cose che racconto potrebbero in fondo rivelarsi prossime eppure sono ispirate da un randagismo umano illuminato. Ecco di Pasolini temevo il buio.

intorno all’intervista di Giovanni Pacchiano

Ammetto che leggerla è stato liberatorio. L’intervista a Giovanni Pacchiano, scrittore e temutissimo critico letterario al quale devo molto, firmata da Silvia Truzzi, sulle pagine de Il Fatto Quotidiano di qualche giorno fa. All’incirca si verificavano gli stati generali della letteratura contemporanea. Giovanni Pacchiano ha chiaramente affermato che le cose buone sono le cose che non arrivano al grande pubblico, i bravi narratori (non era una provocazione, immagino, o almeno non solo) sono quelli che passano attraverso la cruna della piccola e media editoria. Voci solitarie, che hanno una loro tradizione. Ne cita abbastanza per farsene una idea. Tra queste voci, c’è anche la mia. Ci chiama autori sottotraccia, autori che non riescono ad arrivare al grande pubblico, o altrimenti con una certa difficoltà. Oltre me, cita Arturo Cattaneo; Annalucia Lomunno, il primo Gaetano Cappelli; Antonio Franchini. E poi anche Pietro Grossi, Viola Di Grado. Paolo Cortesi.

Intervista a Giovanni Pacchiano

L’intervista a Giovanni Pacchiano, firmata da Silvia Truzzi – Il Fatto Quotidiano 27 ottobre 2015.

Autori con una tradizione dietro. La mia si forma sui russi, Pacchiano fa riferimento a Cechov. E così via con gli altri. Il sassolino dalla scarpa me lo sono tolto, per i tanti no rimediati e la capacità di penetrazione, malgrado tutto, del mio romanzo d’esordio, Sangue di cane. Difficoltà che non sono mai finite, parlo per me adesso, ma sono molti i bravi autori che possono rivendicare il medesimo destino. Di recente leggo lo scoramento di Flavio Villani, il suo libro di esordio con Laurana era L’ordine di Babele. Ritornando ai no, alle difficoltà, alla strana condizione in cui mi trovo: gli editori sanno che esisto, ma mi  tengono lontana. Un elemento estraneo, scriveva l’ottimo Andrea Pomella, in una recensione al mio primo romanzo. Definizione assolutamente corrispondente al vero: sono un elemento estraneo. Il romanzo inedito, che avrebbe trovato l’editore, finalmente, non ha avuto una sorte diversa, fino a qualche settimana fa. Allora ho realizzato che la questione è: accettarsi in quanto elemento estraneo. Ma badate: il gap tra lettori e scelte editoriali è un baratro. I lettori non rifiutano quel che gli editori si ostinano a trattare con diffidenza. Sangue di cane ne fu la dimostrazione. Non sarebbe mai uscito se non fosse stato per la caparbietà di scrittori del valore di Giulio Mozzi o per l’entusiasmo di Marco Travaglio e dell’amministratore delegato di Melampo, Lillo Garlisi, che fondò poi la Laurana editore. Fu un concorso di accidenti buoni ad aiutarmi allora. Ritengo che l’intervista a Giovanni Pacchiano sia la ragione che possa indurre qualcuno a invertire la tendenza, a non aspettarsi dalla letteratura un adeguamento al ribasso a mode popolari. I lettori sono molto meglio. Non esistono mode popolari. Indottriniamo alla volgarità e saremo tutti volgari. Non è una legge estendibile, assolutamente immorale pensare che una procedura simile diventi una soluzione e per giunta vincente.