La pioggia smette di colpo. Il torpore si dissipa tutto intorno, la luce opaca sprofonda attinta da voragini di infedeltà umida, grumosa, piombata dal cielo. L’identico grigio che mi atterrisce, nei visi smorti di un sottopassaggio.
Erano incubi oramai, non i personaggi di un diario. Il diario di Christiane Felscherinow. Lo lessi a nove anni.
C’era questo spaventoso grigio sotterraneo, meschino, i viandanti discendevano il kurfustendamm di Berlino ovest, invece che risalire, nel profondissimo utero, infestato di resistenze o assedi. Eroinomani dal volto deformato fino alla smorfia innaturale, la spoliazione definitiva, un tempio di ossa che celebrava l’esondante nostalgia del disumano, orfano della rivelazione. Eroinomani.
Volevo capire, quale bambina curiosa io fossi.
Risalire come da una notte frettolosa e cupa. Sganciata sommariamente alle tenebre dentro l’alba fugace, priva di un principio di brillio, un albume fluorescente, alla stregua di un battito.
Ero una bambina curiosa. Mi sono imbattuta precocemente nel senso criptato, qualora sussistesse e fosse della vita, allora sulla soglia del dolore.
In casa dei nonni ero ancora una bambina. Ma avevo già il diario di Christiane Felscherinow sotto il cuscino.
Sono diventata una donna.
Sì?
A Johannes avevo delegato nuove sventure. Come se non ne avesse abbastanza di suo. La mia ossessione in fondo era la medesima che da bambina mi spingeva a fermarmi davanti a un uomo di strada, steso, finito.
Era la stessa. Cosa volevo in cambio? E’ una tale curiosità ricamava decori intorno alla ferita che avrebbe preparato l’ultima cena per l’età adulta.
Forse è più facile essere amata quando si diventa necessari, in uno stato di oggettiva disperazione. Stavolta altrui. Quasi a voler indagare il supremo mistero a capo di ogni umana vicenda. Persino scoprirsi esistente, dinanzi a uno specchio.
Johannes mi ha tenuto compagnia, dentro anni a cui guardare con spavento. Anni senza nemmeno una promessa da tradire. Anni frenati davanti al valico inibito di un qualsiasi accadimento che non sarebbe mai accaduto piuttosto.
L’ultima volta in cui mi vidi, io da me, in quanto realmente una donna, con un vissuto, con qualcosa, ero in un centro commerciale, provavo un cappotto di cammello; dalla musica degli altoparlanti proveniva la voce blues di Amy Winehouse.
Poi sono scivolata, come sparita, in un lutto esteso e nero o nascosto dentro canterani ferali parimenti, insieme con maglie e scarpine di lana da neonati. Lettere, scontrini, appunti famigliari, dolorosamente innocui.
Sono scivolata in un vestibolo di infelicità impenetrabile, difficile da scalfire. Ritta e distante dal cingottare tiepido, consolante, normale, dagli altri. Distanti dalla gratitudine e dal compenso morale a una siffatta rinuncia, un faro accanto all’altro, uno smorzato, l’altro indeciso nell’intermittenza. L’altro che fulgeva appena era il massimo a cui potessi dedicarmi. Una riproduzione in scala miserrima della pace e del gaudio.
Indossato il cappotto di cammello, da lì a poco avrei dovuto dismettere qualsiasi arrogante serenità. Indossare di fretta e furia la veste povera della vedova bianca di Isaia.
Ci sono ferite che saranno rimarginate solo in Cielo.
E’ il destino delle vedove, più o meno.
Un destino che, permettetemi, mi è precipitato addosso, nella forzatura di una elezione, non mi vestiva nemmeno bene.
Johannes sicché ospitava un uomo finito, steso, come quegli uomini che da bambina mi istigavano una pietà inopportuna, anch’essa precoce.
Mentre gli altri preferivano la città, le sue vestigia – ricordo la permanenza in casa degli zii nella capitale – io preferivo i sottopassaggi. Io volevo scendere giù, tirando mia madre per il braccio.
Dove vuoi andare? Mi chiedeva.
Sotto, rispondevo.
Perché?
Dovevo vedere. Cosa? Chiedeva mia madre.
Oh, non lo so, dovevo più che altro capire il mistero ai piedi di un uomo finito.
Un uomo su cui avrebbe dominato casomai il fideismo del mondo.
Ma cosa fosse questo mondo non era un fatto interessante.
Non dovevo essere protetta da me, da una compulsione, finanche da una pietà assetata, sempre.
Io dovevo essere il pasto.
E tale è stato. Tutto conforme ai desideri di un progetto, di cui ancora sconosco i dettagli, il fine può darsi no, può darsi lo abbia sorpreso, colto, come il lampo sulla porta dell’orizzonte, fuggire via oltre le foschie violette.
Ed ecco accorgermi di un trepidante portento, svelarsi senza eco alla fine del viale, del greto, oltre la catasta di bossi, alle fine di tutte le rovine.
Nel silenzio pulito al cospetto del crepuscolo, li dove l’attesa non cessa di esserlo, per una definizione aprioristica, persino teologica.
L’attesa è qualcosa che attiene al cerchio e all’infinito, l’inizio che coincide con la fine. E quella è l’eternità, mi rivelò la sapienza nel sogno.
© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature
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