Monthly Archives: October 2021

Il senso di una vita – Cosa volevo in cambio?

La pioggia smette di colpo. Il torpore si dissipa tutto intorno, la luce opaca sprofonda attinta da voragini di infedeltà umida, grumosa, piombata dal cielo. L’identico grigio che mi atterrisce, nei visi smorti di un sottopassaggio.

Erano incubi oramai, non i personaggi di un diario. Il diario di Christiane Felscherinow. Lo lessi a nove anni.

C’era questo spaventoso grigio sotterraneo, meschino, i viandanti discendevano il kurfustendamm di Berlino ovest, invece che risalire, nel profondissimo utero, infestato di resistenze o assedi. Eroinomani dal volto deformato fino alla smorfia innaturale, la spoliazione definitiva, un tempio di ossa che celebrava l’esondante nostalgia del disumano, orfano della rivelazione. Eroinomani.

Volevo capire, quale bambina curiosa io fossi.

Risalire come da una notte frettolosa e cupa. Sganciata sommariamente alle tenebre dentro l’alba fugace, priva di un principio di brillio, un albume fluorescente, alla stregua di un battito.

Ero una bambina curiosa. Mi sono imbattuta precocemente nel senso criptato, qualora sussistesse e fosse della vita, allora sulla soglia del dolore.

In casa dei nonni ero ancora una bambina. Ma avevo già il diario di Christiane Felscherinow sotto il cuscino.

Sono diventata una donna.

Sì?

A Johannes avevo delegato nuove sventure. Come se non ne avesse abbastanza di suo. La mia ossessione in fondo era la medesima che da bambina mi spingeva a fermarmi davanti a un uomo di strada, steso, finito.

Era la stessa. Cosa volevo in cambio? E’ una tale curiosità ricamava decori intorno alla ferita che avrebbe preparato l’ultima cena per l’età adulta.

Forse è più facile essere amata quando si diventa necessari, in uno stato di oggettiva disperazione. Stavolta altrui. Quasi a voler indagare il supremo mistero a capo di ogni umana vicenda. Persino scoprirsi esistente, dinanzi a uno specchio.

Johannes mi ha tenuto compagnia, dentro anni a cui guardare con spavento. Anni senza nemmeno una promessa da tradire. Anni frenati davanti al valico inibito di un qualsiasi accadimento che non sarebbe mai accaduto piuttosto.

L’ultima volta in cui mi vidi, io da me, in quanto realmente una donna, con un vissuto, con qualcosa, ero in un centro commerciale, provavo un cappotto di cammello; dalla musica degli altoparlanti proveniva la voce blues di Amy Winehouse.

Poi sono scivolata, come sparita, in un lutto esteso e nero o nascosto dentro canterani ferali parimenti, insieme con maglie e scarpine di lana da neonati. Lettere, scontrini, appunti famigliari, dolorosamente innocui.

Sono scivolata in un vestibolo di infelicità impenetrabile, difficile da scalfire. Ritta e distante dal cingottare tiepido, consolante, normale, dagli altri. Distanti dalla gratitudine e dal compenso morale a una siffatta rinuncia, un faro accanto all’altro, uno smorzato, l’altro indeciso nell’intermittenza. L’altro che fulgeva appena era il massimo a cui potessi dedicarmi. Una riproduzione in scala miserrima della pace e del gaudio.

Indossato il cappotto di cammello, da lì a poco avrei dovuto dismettere qualsiasi arrogante serenità. Indossare di fretta e furia la veste povera della vedova bianca di Isaia.

Ci sono ferite che saranno rimarginate solo in Cielo.

E’ il destino delle vedove, più o meno.

Un destino che, permettetemi, mi è precipitato addosso, nella forzatura di una elezione, non mi vestiva nemmeno bene.

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Johannes sicché ospitava un uomo finito, steso, come quegli uomini che da bambina mi istigavano una pietà inopportuna, anch’essa precoce.

Mentre gli altri preferivano la città, le sue vestigia – ricordo la permanenza in casa degli zii nella capitale – io preferivo i sottopassaggi. Io volevo scendere giù, tirando mia madre per il braccio.

Dove vuoi andare? Mi chiedeva.

Sotto, rispondevo.

Perché?

Dovevo vedere. Cosa? Chiedeva mia madre.

Oh, non lo so, dovevo più che altro capire il mistero ai piedi di un uomo finito.

Un uomo su cui avrebbe dominato casomai il fideismo del mondo.

Ma cosa fosse questo mondo non era un fatto interessante.

Non dovevo essere protetta da me, da una compulsione, finanche da una pietà assetata, sempre.

Io dovevo essere il pasto.

E tale è stato. Tutto conforme ai desideri di un progetto, di cui ancora sconosco i dettagli, il fine può darsi no, può darsi lo abbia sorpreso, colto, come il lampo sulla porta dell’orizzonte, fuggire via oltre le foschie violette.

Ed ecco accorgermi di un trepidante portento, svelarsi senza eco alla fine del viale, del greto, oltre la catasta di bossi, alle fine di tutte le rovine.

Nel silenzio pulito al cospetto del crepuscolo, li dove l’attesa non cessa di esserlo, per una definizione aprioristica, persino teologica.

L’attesa è qualcosa che attiene al cerchio e all’infinito, l’inizio che coincide con la fine. E quella è l’eternità, mi rivelò la sapienza nel sogno.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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Il senso di una vita – Giorni migliori.

Sono distante e di solito infelice. Vigilo seduta ovunque un canto mi possa nascondere. Ho vissuto colpevolmente.

Rifletto scostando i capelli dal viso, tormentati da una brezza dispettosa. Noto la leggerezza straordinaria compiersi comunque lungo la passeggiata degli attracchi, i turisti nipponici sembrano sopraelevarsi sul cruccio del tempo. Dagli altoparlanti aggrottano sonorità indistinguibili e alcuni frame, musica da revival, ma la musica tace di colpo, inibita dal pomeriggio abulico, illuminato e verso la lontananza bluastra ingrigirsi per promettere un cambiamento repentino. Nuvole ingombranti sbalzano dalle forge più strane, indecise a cosa donarsi, alla pioggia o alla contemplazione.

Ieri torno a trovare il sole d’ottobre, sulla promenade. Ma il vento di Ponente rende la permanenza ostile. Siedo e accolgo un silenzio umido, che scivola nel rimescolio ondoso, frantumandosi con i fiotti avvitati sul molo.

Mi raggiunge un profumo dolente di cose accadute, tradite perlopiù. Il profumo di salsedine misto a una sentina connessa nella carena dei panfili ormeggiati ai ciclamini autunnali. Così perenni e vellutati da indurmi a un guizzo stupido di curiosità, brevissima, tale da morire all’istante.

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Vorrei parlarvi degli uomini, dell’animo umano, di come questi si esplica nella banalità e nella disperazione. Mi risulta impossibile accontentarvi, qualora lo desideraste, sono bardata di solitudine, come bardato di nostalgia viveva il confino, Stefano de Prima che il gallo canti, l’ingegnere del Nord, il resistente introverso, di una malinconia concava, lutulenta, il cui sguardo si perde oltre i cirri che piombano con ombre limacciose in colli estesi, impacciati financo nella solitudine ignorante. Arsa similmente ai sentieri di rovi che percorro al culmine della desolazione. Così Stefano di Pavese. Le nostre distanze, rifletto di nuovo senza ragione, le nostre distanze, ripeto tra me, sono inconciliabili con le forme del mistero (perché proprio io qui nella sperduta irredimibile landa?), non è forse l’identica questione del confinato che rilancia un rimpianto dietro l’altro, scagliandolo sopra i tornaconti smarriti, gli imbrogli, più che altro incagli del destino, e la sostanza stessa del destino incapace di replicare giorni migliori a sussiego?

Invece che riferirvi di uomini e antiche baldanze o inimmaginabili eroismi contemporanei, taccio, nel monologo insozzato di spergiuri, inattendibile, credetemi. Con quale misura dovrei ragguagliare me, se mancano gli altri?

Chi sono gli altri?

Con indolenza seguo con lo sguardo il nipponico, giovane e dall’aria abbastanza occidentale. Sono forse nella condizione suprema della lunga notte?

E’ questa?

Quando riesco a leggere qualcosa di Sant’Agostino non rimedio per ciò rivelazioni salvifiche nell’istante, non realizzo tanto altro se non la consapevolezza di una gravità grama sui cui vago con la lanterna e poco olio di riserva, smarrita sempre, la vergine disattenta. La lunga notte dove tutto si spegne. Alla fine Sant’Agostino sa che la ricerca è la via, la consolazione, non la scoperta.

Non è terribilmente severo l’assunto?

Non ho altro che il Tutto, dovrei recepire. Capirlo insomma.

Non mi toglie dai guai, direi. Non mi toglie dal ganglio di pensieri stolti; disperazioni comunque, fedeli nell’unico blocco equiparabile al senso di una perdita tout court, di una visita vi dicevo colpevole, la mia, negli astuti meandri della vita.

Aspettavo giorni migliori anche per tornare alle nostre giaculatorie, io e l’amico morto. Johannes.

Aspettavo giorni migliori.

Sono stata una donna giovane, astrusa, inconsolabile, con molte vanità.

Aspettavo giorni migliori.

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Il senso di una vita – Non una che vive.

In ottobre il cielo esplode. E’ tutto una questione di cielo, sapete. Di azzurità, non so come spiegarvi. O se siedo sulla panca del parco e i bambini della scuola di fronte urlano una certa vita, io la ricordo, eccome, e con l’azzurrità che penetra tenace tra l’alcazar di magnolie, riesco ancora a commuovermi, mi serve credo. Da lontano, sorprendo sul davanzale fulgido di cose domestiche e intimità che ho dimenticato vasi di margheritine o cespi più in là di ortiche e aiuole di ibischi. Effimeri e cangianti, mi si rovescia addosso la mutazione di una sfumatura, il destino implacabile, dal rosso pallido al porpora della sera. Così muoiono, gli ibischi, nello spazio di un mattino, o direi di una sera.

Ottobre sono gli ambulanti di caldarroste, la visita al camposanto, i cari defunti; i biscotti delle feste, al cioccolato. In Ottobre siedo al tempio. Il cantante neomelodico mi racconta la sua povera e piccola vita. Cantava ai matrimoni. Vive in un quartiere popolare. Ha una compagna, enorme, grassa.

A cosa ti serve? Gli chiedo.

A sedersi sulla poltrona la sera, davanti la tv, sapendo che lei accanto sgrana noccioline, con il volto accaldato e l’enorme epa sfibrata, una donna anonima. Si chiama resistenza, della donna non del tale cantante neomelodico, una forma ragguardevole di devozione senza chance.

Basta tutto ciò per redimere una insulsa esistenza, regalandola magnanimi alla logica delle ore uguali, di ogni giorno, preciso identico all’attimo fuggito per pigrizia; senza che per ciò la clessidra sia in grado di promettere altro; ore nitide uguali e infilarci dentro qualcuno. Siedo sulla panca del giardino davanti la scuola dove i bambini urlano una certa vita e io la ricordo e la riferisco a Johannes, di solito piango, mi piacciono i finali da grande soirée.

Lui mi guarda. Lui mi guardava, voglio dire. Stringeva gli occhi, una fessura, una specie di sorriso sfumato impresso nell’iride dentro cui rovinano vortici di rimembranze, come mulinelli di alcuni brani di fatti, esistiti, sicuro, in un tempo, quale, che importa.

Mi tiro su. L’azzurrità mi avvolge, ricapitola in un breve alone sulla panca di legno un piano sequenza, lì dove un secolo, un millennio fa, sedevo con qualcuno, con lo zingaro del Montenegro.

Si chiamava Hismet.

Hismet detto Bruno. Occhi verdissimi, efferato, e io pensavo: chissà se ci sa fare.

Di quelle bestie. A letto deve essere un animale.

Ero giovane, si fanno di questi pensieri, della loro futilità si insozza la giovinezza, si guasta di un mucchio di rimanenze buone a confezionare ricordi disonesti con cui consolarci un dì, similmente all’orfano che ciuccia il pollice e si fa la ninna da solo. Continuo a vagare, cerco la mia vita impressa da qualche parte.

Può darsi la trovi in un viale di tigli, oltre il ponte, nella cittadina umbra, la torre svettante, il poggio, mi annunciava la casa dei nonni. Vi ho detto?

Il viale di tigli, l’azzurrità di ottobre, diventava rosata o un giallo ocra medievale.

O la dovrei agguantare per un braccio, la mia vita, i miei giorni della giovinezza, ne pesco a caso, e indovino.

Dove sei?

Sono alle Porte de Clignancourt. Sono a Parigi, compro un vestito a balze.

Sono bianca, ostinata.

Leggerò la Rochefort e Moravia e mi annunceranno tutte le disfatte, le cadute che conserverò in centottanta pagine di un testo e che poi pubblicherò e che poi farà di me una che scrive. Non che vive. Quello è un pregresso.

Non una che vive.

La diseducazione nelle cose amorose. Lo recitavo con una seriosità comica, se penso oggi con quale abbandono mi affidassi al dogma postulante falsità. Se qualcosa è accaduto sul serio dopo, non saprei dirvi, fu una concertazione di fatalità, estreme, strabilianti, ovviamente tragiche; ma sento la mia prossimità con Bess, piuttosto che con la sanguinaria docilità dell’Andreina di Moravia. L’ottusità crudele e terribilmente ignara di Bess.

Bess de Le onde del destino.

Nessuna descrizione della foto disponibile.

La diseducazione nelle cose amorose fanno di me una disadattata. Siedo ovunque una panca mi accolga per congedarmi continuamente dalle vicende che mi assalgono, sono fiere manchevoli e deliranti; scatteranno oltre.

Capite. Non resta altro.

Al tempio c’è la gattara, la mezzadra che fuma sigarette al mentolo. Non muore mai, sia benedetta.

In un tale resoconto indegno, non so compilare il mio commento a margine; la nota derelitta e vilipesa. L’indignazione a carattere stampati.

Infine, muoiono tutti.

C’è un solo destino, a voler essere pratici di quella magmatica operosità che vanifica o spodesta illusioni dolose, in luogo di un cinismo arcigno più che mai. Tutti sanno che il destino può darsi o senz’altro finisce in un libro di Qoelet.

Così le vecchie del tempio sanno perdonarmi per il mio inutile modo, la gentilezza leziosa e il silenzio inane. Possono rimproverarmi di non aver combinato molto, soltanto raffinare le parole a saper dire grazie, quando è il momento. Salutare sempre, aprire e chiudere le porte di ogni stanza.

Chiuderle di norma mi viene meglio, chiudere e basta.

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Il senso di una vita – Petali di fiori

Sedevamo al tempio. L’alberello di melograno era fiorito. Il tempio era una ridda, di uomini e grossolanità. Johannes salutava i passanti con un sorriso molto autorevole per la gente del rione.

L’aggiustaossa lo chiamavano.

E allora ridevamo. Lo guardavo e di colpo ridevo. E lui senza voce sillabava: marrana, non ridere. Oppure con tenerezza, sillabava: scurpiddu preziusu.

Leggete Luigi Capuana e capirete.

Il tempio è stato un luogo utile a custodirmi fintanto non avessi allietato il vivaio di errori con rinnovati abbagli, dunque ancora chiudere la questione. Quale? La pratica del vivere. Volevo riprendermi quel che mi era stato tolto. E in fondo tuttora non faccio altro che rivendicare espropri immotivati, a mio modesto avviso.

Johannes era il custode della mia intemperanza. Intemperanza ragionata su fatti squallidi oltremodo, di una inesplicabilità tale da rendere la faccenda per intero immanente, ai limiti della trascendenza.

Sicché tutto mi era stato tolto. Ogni mattina, per mesi, tornavo nella mia casa, la casa dove dimorava la vedova bianca di Isaia.

Smisi anche quel pellegrinaggio, presi a frequentare altri uomini. Johannes mi amava come una figlia, diceva, e assecondava le mie richieste concitate che vertevano a ogni modo su eventuali non meglio identificati progetti di salvezza; manifesto che assumeva oramai le sembianze (il clangore) di un assillo, più che adeguarsi a un vestigio di una qualche carità.

Frequentavo un uomo, nel frattempo mi auspicavo che l’altro non finisse a crepare in una bettola, o rotolando fuori, maldestramente indignato, nel senso più elevato di una ilarità nera nerissima, cechoviana; trascinato, insultato dall’oste furioso di volgarità e ignoranza. Le solite vili evidenze. Una scelta precisa, sedersi dalla parte dei peggiori, salvo poi chiedere a una sorta di consiglio di anziani universale, immaginifico, una congrua parte di riconoscenza, ristabilendo perciò equità e educazione; invocata tuttavia e in special modo per gli altri, disconoscendo l’attributo – l’equità o riconoscenza o entrambe il che è uguale – giacché di questa a me stessa non ne fossero restituiti che scampoli rognosi.

Ma quando chiedevo alla vita di consolarmi, perché mi venisse concesso una specie di “brava”, brava bambina, sul finale, finale di solito imperioso quanto stucchevole, in realtà chiedevo al Cielo. L’interminabile interlocuzione. Non ho fatto altro che mormorare, tacendo persino.

Non ho fatto altro che parlare con Lui, lassù.

Aprivo la porta della mia casa dove vivevo un tempo, preparando il corredo della vedova bianca di Isaia. Un corredo di stracci ripiegati, controllavo che tutto fosse in ordine. La rosa rimase a lungo nel vasetto di ceramica in cucina, così l’asse da stiro, la camicia con il collo inamidato poggiata allo schienale della seggiola; lo stesso vociare del mondo di fuori, replicarsi nell’esattezza feroce, stando alla vulnerabilità di quel dato muscolo che uso con indolenza, la memoria vorrei dire; lo stesso vociare persisteva per inutile fecondità di un tempo valido per ognuno, non per me, già nell’ordine del trapassato. Sedevo anch’io sulla sedia accanto al vasetto di ceramica sistemato sul tavolo, chissà in quale (non ricordavo più) dicevo chissà in quale innocua, distratta circostanza; la circostanza per cui spesso incontriamo la sublimità delle cose, delle persone, finanche nella reiterazione di un gesto, un brano di dialogo, un mugugno, una consuetudine, ecco, eppure lo dimentichiamo. Ed il tutto è sublime, irripetibile, ma noi sazi ignoriamo l’eccezione e consumiamo la preziosità con una manciata di secondi, una riproposizione di sequele successive, automatismi, altri gesti. E cancelliamo, cancelliamo. Senza sapere infine che abbiamo trascurato la grazia concessa, similmente al petalo di un fiore caduto nella cesta, raccolto, dimenticato.

La cesta delle grazie, sapete?

Don Tonino Bello diceva che la sofferenza dell’uomo si traduce in petali di fiori conservati in una cesta, diventano grazie, le grazie rovesciate sul mondo; la cesta capovolta che abbandona i petali dei fiori sul capo chino dell’umanità afflitta.

Per questo volevo sempre salvare qualcuno. Veramente, non so perché. Perché i poveracci mi crollavano davanti. Non che amassi il genere umano.

Forse avrei dovuto evitare di leggere il diario di Christiane Felscherinow a nove anni.

Dico, da ragazzina mi fotteva la pietà. Io volevo solo divertirmi. Fumare, bere, trascorrere la notte in discoteca. Non fare nulla.

E’ andata in un certo modo.

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Sono fatta per non fare nulla, per guardare il mare seduta sulla panca al porto. Accendere una sigaretta e pensare con eccitazione a qualcosa. Sono stata anche questa giovane donna.

Sono fatta per perdere qualcuno che amo, sempre.

Non devo dibattermi o ancor peggio postulare.

La giovane donna passeggiava le sere d’estate sull’identico lungomare dove oggi si esplicano taluni luttuosi turgori, di norma finiscono nel pianto pre-crepuscolare. La giostrina ronzava come un carillon. Le bancarelle di libri vendevano a prezzi stracciati l’opera omnia dei miei scrittori preferiti: Dostoevskij, Gor’kij; i russi tutti; o anche Maupassant.

Le luci dei panfili erano ovattate e intermittenti, languide per una pièce di eccellenza che si svolgeva al loro interno e a nostro discapito; ma nulla che facesse intristire una siffatta vita così preparata ai giorni futuri.

Era l’avvento, allora lo era senza timore.

E guardate miei cari, l’Avvento. Negli stessi giorni lo precedette la sventura, stranissima parabola. La nascita del figlio dell’Uomo nei giorni del mio abbandono: cosa vorrebbe dirmi il segno?

E’ un segno?

Non che adesso lo senta bruciare. L’affare riguarda altri, sembrerebbe, io non posso che disaminare la sventura senza un palpito.

Spesso mi ritrovo a barbugliare qualcosa come: “che finisca subito e presto”.

Nell’attimo che anticipa il crepuscolo, la trama si sfalda, si trasforma, trafitta di bagliori acquavite.

Siedo sulla panca del porto, socchiudo le palpebre perché del resto mi giunga soltanto una vivida dolcezza nella qualità della consolazione segreta, postulata perché mi riprendesse proprio quando avessi smesso di invocarla.

In quella dolcezza soltanto, rimango.

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Il senso di una vita – L’altro.

Le tenebre sono legacci dello spirito. Par che ti scuotano da parte a parte. La lancia nel costato però esonda, sangue ed acqua. Cacciar via le tenebre significa attraversare la via immonda, è un tragitto di insensatezze, di impeti abbastanza inutili, non servono ad altro che a esaurir se stessi. Ieri sedevo sulla riva della baietta, nascosta a un canto del Porto. C’era un gran vento. Piccoli vortici di rena si avvitavano al suono della furia. Il solfeggio disperante di chi patisce diventa sordità a quel che anima dinanzi.

Il mare impetuoso che rovinava sul molo. Il pescatore accigliato che liberava i nodi della lenza, il pesce scattante agganciato all’amo. Così dibattendosi, non rinunciando.

Così, si vive.

Sono faccende esemplari. Guarda, sembrava ammonirmi la creatura scattante, assisa all’amo, guarda come funziona la vita, che ostinazione abbisogna per superarla. D’un tratto mi arriva il profumo delle acque profonde e magmatiche, nel fervore umbratile, sfuggente, e riesco ad esultare, un breve battito, qualcosa in più, aggiunto al cuoricino pulsante, agitato. Un piccolo cuore con mille destini.

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Non riesco a badarne che ad un paio. Ne annovero ancora, su questioni andate, le ripesco, la creatura scattante all’amo. So dibattermi, sopravvivere.

“Oh tu che dormi, alzati, togliti dai morti, e Cristo ti darà la luce”. L’esortazione di San Paolo sprofonda nelle pagine di Sant’Agostino.

Ma sono irretita, penso ad altro. Rimugino, sono ancora del mondo. Torno al mondo nella stoltezza, nella deformazione con cui ricapitolo i fatti. Sono tutte deformazioni. Non guardo, sono cieca. O nel sonno che smarrisce la ragione.

Quale ragione che non sia la deduzione esoterica di inesplicabilità allarmate, maldisposte a trattare.

Attraverso la promenade. Incontro lo sguardo di un inglese seduto al tavolo, davanti a un calice di rosé. Mi sorride. Allora anche io provo a sorridere.

I giorni finiscono dentro il crepuscolo, senza avvertire.

Il giorno ritorna con la pioggia. E io la guardo, alla finestra.

D’intorno la pineta, il verde bruno e traslucido, l’agave che piega la cima a una furia modesta stavolta.

Le siepi di bignonia franano nel torpore di una foschia acida. Torme di cupezza e fuliggine assumono i colori del lutto o del procedere anonimo, nella via del mogio calpestare, del pulsare incessante, calmo e ossesso di un’acquerugiola, non coraggiosa, non a tal punto.

Come vorrei lo fosse di nuovo una certa vita.

Depongo i pensieri come una corona di fiori nel luogo dove sono stata davvero, me stessa, emancipata, libera dall’ignominia che mi ha messo al mondo. Libera dall’insulto di chi mi ha delegato un deserto di insensatezza al fianco, da percorrere malgrado sia il carovaniere stanco; la colpa di una meschinità ignorante, offensiva forse suo malgrado.

Dovrei cominciare a perdonare.

O desiderare finalmente una distesa separazione affinché io possa tornare laddove è la nostra vera patria. Vera Patria.

Sono il pezzo mancante di un dettaglio, qualcosa, che non mi cerca. Resto l’esaudimento di altro.

La casa della mia giovinezza era piccola, un fondaco. Vigile sotto la pineta. Le tende erano bianche e ricamate. Guardavo la pioggia anche allora. La malinconia non mi affliggeva. La malinconia era un sentimento su cui compiacersi, per assenze di cui non occuparsi affatto. L’assenza metafisica, un fattore ics, aristocratico, speculazioni talvolta, nondimeno banali. Qualcosa su cui fumarci sopra, gratificandosi di tutto quel che si ha, si contiene, l’amore, intanto; la felicità, senza saperlo.

Si è felici senza saperlo.

Davvero?

Quando oggi sento la persecuzione del nemico, sovraccaricarmi, sul tergo, l’avversario, nessuno, ho difficoltà a ricordare quella donna, dietro i vetri di una finestra, oltre le tende bianche e ricamate, guardare fuori la pioggia, nella casetta vigile, sotto la pineta nel verde traslucido, ignara che la felicità l’assiste, gravida ancora.

Era una donna giovane, aveva capelli lunghi, bruni, spessi.

Era bella.

Era bella perché era amata.

Cosa posso fare per te, chiede l’amante ingrigito dal tedio all’Andreina del lungofiume, la tragica e discinta colpevole e moraviana.

Cosa posso fare per te.

Sei bella perché sei amata?

Davvero?

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Il senso di una vita – Nessuno.

Apro gli occhi su un giorno funesto di inutilità. E devo spingermi fino alla fine, subentra tutta l’inezia di una lotta senza avversario; perlomeno che si facesse vedere. Ogni secondo mi sfida a ledere quel che talora mi sembra il racimolo di una qualche fede o speranza, coltivata o mormorata da un inginocchiatoio a un altro. A proposito di luci che assalgono pinnacoli, quel che vedo dalla mia promenade, o dallo scranno della vedetta disillusa, come certe ragazze belle e nauseate, per un talento senza merito, la bellezza, per un esubero di largizione profittata, perciò indispettita, o austera. Cosa ho fatto in questi anni, alla stregua del barlume che arrampica su morali o sembianze di tali moraleggianti intensità, irte come guglie?

Cosa ho fatto? Se non aspettare che tutto finisca, in attesa che nulla potesse accadere. Nell’ossimoro, nella contraddizione sciocca sembrerebbe, esiste la verità delle cose, così scarna, potremmo benissimo farne a meno. Non tutte le verità coincidono con l’Una.

Le preghiere diventano parossismi, prima di raggiungere una seppur vaga somiglianza con la quiete. Non mi abita la concessione degli asceti, la tendenza a una rigorosa e umile spoliazione.

Potrebbe essere un primo piano raffigurante Veronica Tomassini

Per anni ho intessuto fiori di lana, stole dai colori accecanti, circondandomi di gomitoli che immaginavo piovessero dal soffitto, o anche una nevicata di fiocchi fiammeggianti, perché mi raggiungesse la consolazione invocata in circostanze devote alla più sublime delle disperazioni.

La disperazione piuttosto persiste gagliarda a dimorarmi, una casa malmessa e cementizia, una casa la cui voce del padrone dentro vi risuona stridula, torcendo rabbia o altro, nelle quieti congetturate da un progettista ardimentoso perché in definitiva bussassero alla porta di tutte le stanze.

E non trovassero nessuno.

Nessuno è un avversario.

Devo abitare dunque questo tempo, il senso non è l’attesa, ma è: il tempo che non intratterrà oltre facezie degne di sproloqui. I miei, sicuro. I miei in collaborazione con viandanti rimediati distrattamente senza volere o piuttosto sapere che i medesimi fossero tutti i cirenei predisposti nell’ordine logico e anzitempo, predisposti per me.

Ci sono solitudini molteplici. Appartengono all’uomo, e chi scrive in effetti non può che parteciparvi, intestarsi il merito, la mostrina, propalatore di indefettibile efficacia, millantatore di solitudini migliori. Scriverne. Perché altrimenti bisognerebbe inventarsele. Infilarsi in mestizie miserevoli: non sarebbe peggio se fossero quelle di altri?

Le solitudini in treno. Ricordate qualcosa del genere?

Il treno lentissimo borbotta dodici ore di viaggio, io guardo le luci strane, al neon. Sono una bambina. Le luci: consegnano l’alone della sera, incupito a tratti vanesio, sperso nel deliquio di ombre brumose, in paesaggi su colli stralunati. Le luci impallidiscono i volti dei viaggiatori, che scolorano nelle sembianze spettrali di convitati a sconosciuti destini. Misteriosi come case cantoniere, vuote, eppur complici di risonanze belliche ancora deposte in cantucci freddi, negletti; antichi alari che tacciono un gergo domestico, trapassato; o il dialetto di vecchie contadine, balie dal seno cascante, e dita enormi su cui avvoltolare rotoli di pasta fresca da versare nella cuccuma e un sugo buono di cinghiale come certe cucine odorose e per questo povere.

Quella solitudine è un’altra storia. Mi piaceva. La sera raggiungeva la città dei nonni. E allora ecco che il treno barbogio farfugliava, circolarmente, fino al poggio, indovinato in lontananza, con un faro, svettante, una torre. Non sono sicura nemmeno che esistesse a preludio della città dei nonni.

Le voci dei viaggiatori si traducono in un ronzare metallico di sillabazioni incomprensibili. I viaggiatori potrebbero provenire da mondi sommersi, inesistenti, seppelliti da una coltre di lanugine.

Factotum di un oltretomba persino operoso.

Nel frattempo imparavo a memoria le scritte sui corridoi, di avvertenza, monito, ovvietà.

Ne pas se pencher au dehors.

Nicht hinauslehnen.

Ne jetez aucun objet par la fenêtre.

Il mio viso è un sospetto, riflesso sul vetro del finestrino di un treno, di una veranda, di una stanza dove bussano tutte le quieti concepite ad oltranza, anzitempo.

Non risponde nessuno.

Nessuno è un avversario.

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Il senso di una vita. Qualcosa di impudico.

Da quando Johannes è morto, torno ad aspettare, stavolta di fronte la baia, che le ore si consumino altrove. Seduta sulla panca, davanti all’ancoraggio e al diportista con indosso un completo bianco e impeccabile da viaggiatore; di sbieco a una promenade su cui ripara il crepuscolo obliquo; mentre le luci si spargono più un là, simili a grandi ali che agitano impazienti e si fanno largo tra le nubi a sussiego di tristezze eventuali, un rispetto finanche cromatico, l’alternativa al fulgido; la luce avanza tra una nube e l’altra, similmente alle ali di una vanessa che rovista vezzosamente tra le ortaglie, sbattendo guaine di splendore ora su un pinnacolo ora su un altro.

Non che prima non aspettassi, però l’attesa era a volte compartecipata. Non so Johannes cosa aspettasse, forse una donna, l’amore. I miei pochi amici sono morti tutti con un desiderio tradito, nell’attesa tradita.

Anche Bibi, le si è fermato il cuore.

Aldo, il maestro poeta, sopravvissuto alla coercizione nelle casette amene, lo chiamavano manicomio. Aldo aspettava il suo momento, una donna.

L’incipit del suo romanzo recitava: un tempo avevo una donna, un amore, ero un uomo.

Così mi commuovevo, asciugavo le lacrime. Annuivo alla sostanza di una vita avara. E’ una vita completamente campata in aria, capite?

Mi circondo, io stessa lo sono, di una congrega di individui non sufficienti e necessari.

Ma erano eletti, a loro modo.

Aldo leggeva sorreggendo la pagina con la mano tremante. Seduti in una terrazza sul mare, io e lui. Innocenti e può darsi appena felici di gravare sul rimpianto meglio che sul rimorso. Beveva solo la notte. Poi cominciò a bere anche il giorno.

Mi hanno chiesto: ti è capitato mai di frequentare gente che non siano calamità?

Alla domanda non ho risposto.

Il tempio non sarà più il tempio. Non so come spiegare. E’ finita una stagione; in fondo non era che un trascinarsi ascoso; afferrare dai piedi l’oblio e condurlo oltre, fino a una dimenticanza affidabile. Non temporanea. Era una indegna commediola, far finta di contaminare la vita delle nostre stolidità. O chiudersi in una meditazione ostinata, che ruminasse rivendicazioni e spiegazioni non attingibili alla categoria esseri senzienti. Al tempio incontravo Moussa, un uomo del Senegal. Una gigante di ebano.

Vorrei evitare anche lui.

L’ho conosciuto alcuni anni fa.

Ogni tanto torna a scrivermi, vuole vedermi. So l’effetto che guadagno. Qualcosa di impudico e nella preminenza vorrei dire: puerile. Gli basta avvicinarsi, sentire il mio odore e la sua erezione è così evidente, in pieno giorno. Vorrei morire dalla vergogna, mi ha sfiorato soltanto. Mi stringe il viso, sorride, prova a baciarmi, poi smette di sorridere, il suo respiro è sul mio collo, ovunque, sono come divorata. In pieno giorno, ritti sulla banchina del porto, quest’uomo ha un’erezione e non si controlla.

Lo lascio così, vado. Lo lascio nella sua frustrazione, so che mi sta guardando, e lo farà finché non mi vedrà sparire oltre il giardino di magnolie secolari.

Mi scrive il suo desiderio, ogni notte. Io voglio toccarti, ogni momento, every time. Please. Please.

Non rispondo.

Lui continua a scrivere: i want you since six years.

Mi fa paura. Scoperà tutte le turiste con cui intrattiene amabili conversazioni, perché è galante, perché di solito vuole scopare. Bilingue, spesso usa il francese. Era un giocatore di basket.

Non posso scopare con te, gli dico. Mi fai male. Sono malata, non posso.

Lui insiste. Togli il vestito, fammi vedere, apri il vestito. Dai, fai la brava. Please.

Eviterò di rispondergli.

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Il desiderio di un uomo può guarirmi credo, da un’inenarrabile solitudine, respinta, caduta su un fianco, come l’Andreina di Moravia dinanzi al giovane amante.

La ripudiata.

Potrei usare il desiderio in quanto forma di passabile levità. O può bruciarmi addosso il suo stesso desiderio.

Mi fa paura. La prima volta che lo vidi era proprio rilassato, dentro una saggezza millenaria e africana. Vieni, siedi, mi disse. L’avevo appena conosciuto. Sedemmo al porto. Ed è quel che mi piace fare.

Ma era lui che bruciava già. Il gigante allunga la mano, mi sfiora la guancia, sono innocua. Si avvicina. Prova a baciarmi. Ancora una volta. E ancora.

Il sole illumina la rada, si stende un sentiero brillante dalla baia all’ultima vela. Il mio corpo vuole arrendersi, rispondere, perché ascolta un desiderio rabbioso, l’istinto di un animale che sprigiona, nel momento inopportuno. Lui carezza le mie gambe, cerca tra le mie gambe di esaudirsi.

Allora era disdicevole.

Ma la mia vita aveva smarrito l’ordine e il decoro da un pezzo.

Torna a scrivermi ogni notte.

I want you, please.

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Il senso di una vita. Strazianti sentieri.

Gli attracchi ciondolano, le acque si rovesciano sul fronte del porto, sfondano banchine con l’ottusità frenetica del gesto ripetuto, istigate dal venticello di ponente. I flutti. Sono sottratti a ogni forma di disperazione umana. Rintronano nel battito cangiante, un grigio ferrigno che cede ogni lusinga al bluette del giorno. E il giorno è andato. E io sono io. Io e basta.

Me. Guardandomi allo specchio, o fissando le ombre del profilo che si insinua nell’aureola quasi fiabesca, verdeggiante fino a sprofondare similmente a un grande occhio sgranato e poi offeso, ferito, giù negli abissi.

Di quale desiderio sei morto? Johannes. O penso ai morti del canale. Senza empatia, ne scrivevo un tempo, non riuscendo a dolermi di altro che di me. Non è spaventoso? Essere cieca al mondo e patirne ogni gemito?

Il panfilo batte bandiera britannica. George Town. Ci sono mozzi vestiti di scuro. Skipper con il corpo scattante di atleti, i muscoli in tensione, torniti dalla strana luce che par riaffiorare da una specie di imprevedibile dispensa proveniente dalla carena; sono acrobati, abituati alla morchia della sentina o allo sfolgorio di un cristallo, mentre sollevano le cime, lucidano gli ottoni. O gli uomini in livrea, che vigilano a prua e sembrano guardare nell’austera rassegnazione la fine del mondo visibile, una linea marcata che separa la disperazione dell’uomo dal resto del mistero. Ad appena qualche miglio da terra. Siedo sulla panca.

Posso aspettare, senza una ragione. Aspettare è un modo di esistere. Non c’è un destinatario. E’ semplicemente domenica, e la domenica è il giorno degli altri, delle famiglie, della consuetudine di una certa armonia, di legami e annoiati. Dobbiamo saperlo. L’amore.

Ne porto in seno la mancanza ossessiva, ripetitiva. La mia esistenza diventa la lugubre assonanza con biografie eccellenti. Mi lascio contagiare dal presagio. Ma è una tentazione. Ad esempio, la medesima ossessione che attagliava la vita di Marina Cvetaeva, riguarda me, ma riguarderà molte altre donne, sapete. Non bisogna abbandonarsi al presagio.

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Fisso la vela di un catamarano. Il presagio è una tentazione. Ogni dettaglio affidato al presagio rovina nelle tenebre. Nell’imo terrificante di tutte le compulsioni. Se forzi la tua vita che procede con passi pesanti talvolta, diseguali, significa senz’altro che sei precipitata non in un caso speciale ed eletto di un qualche sentimento, ma in una modesta spelonca, buia, e senza cespite.

La mia scrittura è l’unico cespite. La spelonca è la mia memoria. Non ingannevole, però didascalica, sprezzante. Non saprei cosa preferirvi tuttavia.

Alle mie spalle un suonatore di violino esegue un pezzo di Vivaldi. Nello stesso istante in cielo sorprendo il solito giro di perlustrazione; mi avverte che gli storni devono tornare a casa. Il sincretismo è il rintocco, lo scampanio, il pendolo alla precisa ora.

Io devo tornare a casa. E faccio il sunto dei sette anni biblici a Mazzarrona, e dopo gli altri, strazianti sentieri in procinto del Golgota della salvezza, perché dovessi infilzarmi di piccole spine nel frattempo. Inchiodarmi ad ogni felicità negata; la negazione concepita benevola perché ne fossi inchiodata nel segno di una devozione. Ma io non ho scelto.

Così è, guardando oltre la cima del panfilo, la prua, le acque, il libeccio sui capelli, la vela, e oltre le lontananze turchine, la schiarita sopra l’inedito orizzonte, che solo al sud, su una panca, seduti, accecati, nel giorno del giorno degli altri, possiamo indovinare.

Cosa ti aspetta? Mi domando.

Oh, nulla, nulla. Tutto il mio tempo fissato è chiuso nel palmo.

Tutto è stato compiuto.

Dovrei tornare a casa.

Dove?

Qoelet mi ha detto, aprendo le pagine della Bibbia, che l’amore e l’odio sono nelle mani di Dio.

Allora forse sono perdonata, giustificata, saldata nel destino eterno senza che io vi possa fuggire.

Perché anzitempo, non fosse altro che la predestinazione ad avermi avvinta. Niente altro.

A volte dimentico. Spero, nell’inganno trasognato. Rimetto a posto le cose. Mi sembra che ci sia una possibilità, mi difendo come posso. La domenica è il giorno degli altri.

Siedo sulla panca. Devo riposare o tornare a casa. Smetterla di agitarmi. Chiedere perdono e prima ancora chiedere una tregua, che la buriana la smetta di devastare la mia piccola vigna.

Perché Signore?

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Il senso di una vita. Amata verità.

Dovevo essere stata in una certa misura persino una donna avveduta o vorrei dire intelligente. Del mio mestiere, al tempio non potevano certo immaginare, cioè che fossi una che scrivesse. Un soggetto strampalato, lunatico, qualcosa del genere, in una disposizione gerarchica e antropologica, al tempio, si assumevano ruoli rinnovati, per un verso fantasmagorici. Ad esempio io potevo piazzarmi a metà della scala, non proprio come un reietto portoricano nell’ordine classista d’oltreoceano (mi ha sempre colpito la rigidità negli States delle classi e di un ordine sociale immodificabile, ma solo per i portoricani). Ed era una grande opportunità vivere nell’anonimato, ascoltare senza dover dimostrare altro che la propria inedia nella forma della sconfitta.

Le vecchie erano interessate piuttosto al mio stato civile.

Maritata? Non lo so, rispondevo.

Il cantante neomelodico col furgoncino per i traslochi posteggiato di sbieco era dell’idea che fossi un agente segreto, un’assistente sociale, una donna da postribolo. Non sapeva scegliere, avrebbe senz’altro preferito l’ultima opzione, ma poi imparando a parlarmi, fino ad arrivare a vere e proprie confessioni di vita coniugale normale, pedestre come tutte, riteneva superfluo domandarsi oltre; a una con una voce talmente infantile e con pensieri talmente interrotti non era possibile dedicare una qualsivoglia equivalenza di subbuglio o tormento o chessò coinvolgimento, desiderio, sesso.

Eccola la creatura astrusa, sentivo il mormorio inavvertibile eppure tonante, modesto, noioso. La creatura balzana. Quale tristezza avvertirne la verità, balzana come estranea, inospitale; l’altro che bussa alla porta senza essere atteso. Lo sgradito.

Johannes rideva delle illazioni sul mio conto. Rideva ancor più quando la vecchia mezzadra – che fumava sigarette al mentolo ed era per la gente del tempio una sorta di gattara malandrina – aveva annunciato al rione, da una beghina all’altra, la sua presenza in quanto l’aggiustaossa. Un neologismo formulato in dialetto, con il colore dell’oracolo superstizioso della megera.

Ridevamo, insomma sì. Ridevamo certo. Io scrivevo, gli anni del giornalismo erano già da allora un ricordo quasi epico, leggendario.

Anche il mio mestiere doveva restare un segreto al tempio. Usare parole complicate suggeriva sospetto; al tempio c’è un codice a cui attenersi, un dogma sottile, financo inavvertibile, ma a cui attenersi; la circospezione o la mimetizzazione, il dire non è così eloquente e significativo come il non dire; e le parole troppo lunghe, secondo alcuni idioti, consegnavano l’infingimento, la diffidenza, un pericolo; fuori dal codice, la comunicazione inciampa, diventa sovversione, ma la parola sovversione al tempio non si usa, i frequentatori del tempio non saprebbero che farsene di una parola di cui sconoscono la responsabilità, il destino, semplicemente la collocazione in un dizionario; mi viene in mente un poveraccio che si faceva di eroina, testa di zucca, mi capiva appena, perché per l’appunto usavo parole troppo lunghe.

La gente del tempio non era condannabile, non giudicavo e perché mai avrei dovuto un tipo di ignoranza, umile e buona. La mia esacerbazione ha altre ragioni. Ne scriverò più avanti, non sono sicura tuttavia.

Negli anni del giornalismo ero una donna avveduta, vi dicevo. Furono anni cedevoli, la felicità era il picco di adrenalina, una sigaretta fumata sotto la pioggia, al riparo di un abitacolo. Il mare grigio del porto. La felicità era il cosiddetto incipit del pezzo, quando riusciva, in gergo l’articolo; lo diciamo: attacco. Quando riusciva, le tre parole al primo rigo, era fatta. La felicità era il caposervizio con il carattere intrattabile, che ti affidava le pagine da coordinare, dopo averti stracciato sulle mani il testo riscritto quattro volte. Il menabò.

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La felicità era il solito amore impossibile, ma vicendevole.

Era la bellezza, la forza del corpo, l’agilità.

Erano gli anni che mi attraversavano con l’inganno ma non toglievano, mi pareva allora. Consolidavano, stringevano al petto una manciata di futuro, erano illusioni; sospiri. La vita che si svolgeva nella carne e non solo nello spirito. E bisognava che incorressi in tutti gli errori, nell’enormità della colpa; nella correità; bisognava che ne uscissi integra, cesellata, affinata come l’uomo giusto nel crogiolo del dolore, secondo Siracide.

Non ero il giusto. Potevo diventarlo. Se non offri la sofferenza, hai patito invano. Quale stoltezza, quale mingherlina superbia è patire senza pazienza, senza la devota sottomissione davanti all’altare. Nel sacrificio, sussiste la gloria, del reo che offre (e soffre) ogni errore.

La felicità non era una parola frequente, quando vivi non hai interesse e cura nell’enumerarla. Subentra nel movimento delle cose, la trasformazione dei giorni dentro gli avvenimenti. La felicità, capisco all’istante, adesso proprio adesso, è la determina di una vita; la vita che succede. La vita. Tu e l’altro. L’altro ha un profumo; un corpo; un vigore. Ognuno è davanti a te, fatale, può darsi.

Al tempio, i suoi abitatori non avevano la più pallida idea dunque di chi fossi. Le persone educate e gentili non siedono al tempio, altrimenti sono degli esatti beoti.

Era molto divertente, esserlo.

La sconsolatezza al tempio piombava di colpo, nel mio anonimato che non sollevava sui picchi di sommità albina immacolata, non mi difendeva dall’assalto del cosiddetto inghippo del tempo perduto. Con voce adirata e sommessa insieme accusavo Johannes e il mondo intero di ingiustizie universali, di insopportabile invadenza; di affezioni meschine; di un barbaro complotto, come se non bastasse da solo l’emisfero di omiciattoli che calpestano la piana bianca e metafisica su cui si ergeva la casbah; il rione; il mondo impoverito, senza uno smacco di gentilezza. Obbrobri del risentimento. Io ne sono la sintesi.

Johannes sorrideva, al suo Dio. L’Eterno.

I suoi vezzeggiativi. Tesoruccio mio, stai calma. Dio ti ama.

Ma io, io sono come invasata; corrotta dal male; dal male altrui. Non è mio. Devo chiedere perdono.

Ma il male è l’altro.

Il male precipita sul giusto, il male è l’assedio con un mosaico di specchi, specchi deformanti, disonesti. Il ghigno sepolcrale, destinato a soccombere al di sotto della creatura, vuole pervadere nelle feritoie che il giusto mostra, stimmate al contrario.

E’ una trappola, sapete.

Nondimeno soggiaciamo.

Nondimeno, apro le pagine de Le Confessioni e leggo:

“Oh eterna verità, oh amore vero, oh amata eternità!”.

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Il senso di una vita. E’ stato un piacere.

Risalgo brevi tornanti, fin sopra la cima di un colle. Al di là dei costoni, la campagna intona il giallo delle margherite e delle ginestre a piovere dai garbugli nascosti in meandri pietrosi, tra le zolle rivoltate, nel brusio delle ore cieche o nelle ombre solitarie. Come quando da ragazzina, nella canicola del giorno, guardavo ai carrubi sulla roccia, sopra la baietta, in eguale misura, guardo ad essi, il barbaglio di fronde, ed è allora che il sentimento della gratitudine mi sorprende, le ombre foriere di ristoro; così alla campagna, alle ombre dei viluppi di ginestre o nella cava consolante di un tronco, contrito nella rugosità, ad esempio gli ulivi; li amavo più dei carrubi. Gli ulivi contengono un segreto, una conversazione in grembo, simile a una locuzione; ispirano la pazienza di una madre. C’è una indefinitezza custodita nel grembo, una seppur non deducibile ineffabilità. Ecco perché li amo sommamente, fino a commuovermi. Nel giardino di ulivi ho immaginato il peccatore o il giusto e il giusto e il peccatore hanno patito ancora una volta, replicando la sola rivelazione, l’unica di cui abbisogna il nostro procedere, altrimenti ancor meno che inutile. Ultimamente penso al grande incontro. Il giorno in cui sarà l’alba per sempre. Quel per sempre ci tortura nel nostro schizofrenico peregrinare. A volte immagino conversazioni audaci o forse sciocche, come se al Cristo, il più bello delle creature, potessi davvero dire: finalmente, ho sentito molto parlare di Te.

Al più bello delle creature, capite? In quale Volto lo abbiamo cercato, e lo era in tutti.

Ho di questi pensieri. A volte mormoro qualcosa del tipo: è stato un piacere, signora. E quella signora è una madre, che mi ha consegnato il figlio, l’orfano. Avrei dovuto condurlo, per un lasso. Fino a.

L’ho fatto.

E’ stato un piacere, signora.

Potrebbe essere un primo piano raffigurante una o più persone

Risalgo i tornanti e mi avvalgo della preziosa prerogativa dell’agiografa del tempo perduto. Vado a trovare qualcuno. Percorro l’elegia degli assenti, il coro sommesso, labiali che frusciano (cosa?), salutano festosi (sì?), sorridono discreti, delicati.

Certi profumi come di giglio o l’erica, i ciclamini e la viola del pensiero in vasetti votivi. Nulla mi fa paura adesso, le vecchie foto, stemperate dalla pioggia, da una infinità di ore, giorni, anni, su cui il tempo rovina, e le icone sopra le tombe e i cipressi, e il senso di aver attraversato e visto, già, di già, non sai spiegare. Non mi fa paura, l’elegia delle assenze adesso ha un altro fervore. Un fervore introverso, poco propenso a slanci immotivati, inspiegabili, quella tensione promulgata verso su, un Cielo, l’intuizione che ha smarrito il verbo.

Risalgo i tornanti e raggiungo il centro commerciale. Sono la vedova bianca di Isaia.

Eccomi. Siedo. E’ il mio segreto. Quanti ne hai?

Siedo e fisso le porte, la sincronicità, l’automatismo, la vera metafora del forte, solido nella accettazione del minuto che riproduce sé stesso. Dentro potrebbe succedere qualsiasi cosa, ma è l’opinione di un ottimista al limite. L’ordinarietà che forse è persino saldezza. In qualche maniera mi incuriosisce. Dove va a finire tanta meticolosità dei giorni, uno dietro l’altro. Mi è rimasta la commozione su uno spiedo che rotola un pollo ruspante, la coccarda sul copricapo del rabdomante che sventra il pescespada per la zuppa di Natale.

Vorresti tornare anche tu. Per anni non hai fatto altro che immaginare di tornare.

Ma dove?

Johannes restava. Quando tutti sono andati via. Era un dono. Poi sulle maldicenze. Non lo so.

E’ morto.

Sono rimasta sola. Ma lo siamo tutti, giusto?

Adesso trascino pontoni con alzaie irte di borchie, trascino per ripide e mari uno spirito provato; non sa decidere se fare la guerra e lasciare che crolli il fortino nei giorni di fine impero.

Lasciare che sia l’apocalisse. Lasciare.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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