Sembrava che una spessa veste nera, luttuosa, mi ammantasse. Che tutto intorno la natura, il paesaggio mostratomi, come la libertà più morta, non fosse che la conseguenza di una tragicità remota, che adesso s’appressava a tornare, preceduta da un tonante gong, dalla gestazione di orrori spersi nella campagna arida della periferia e i tossici e quel che vedevo ne fossero i lacchè penosi, ingessati di zelo mortuario, mascheroni sfatti, liquidi bui fuoriusciti da una carcassa. Torme putrefatte. Capite. Non era un sogno.
Era la via stretta. La solitudine biblica. Ci sono cose che finiscono nella contiguità estrema di qualche altra consunzione. Non tornano allo start. Ma sono l’inizio di ogni fine. Allo start torna il medesimo lutto. Lo chiamo dolore.
Avevo diciotto anni. Chiudendo il pollice e l’indice delle mani sui miei fianchi, serravo per intero il mio vitino. Pesavo quarantadue chili. Sono alta centosettanta centimetri. Un paralume. Ero dimagrita in pochissimi mesi, uno due. Potevo riprenderli, e li avrei ripresi e poi persi di nuovo. E’ cominciata così la mia disperazione. Una disperazione biblica, anch’essa. Si spiegherebbero molte cose. Rifletto oggi con indolenza, è la stagione peggiore, un terrore che non riesco a tradurre del tutto, la mia scrittura lo impedisce, mi difende. Sono stata dentro la disperazione biblica, sette anni; sette è un numero biblico.
Le compagne di liceo erano le ragazze. Lo erano ancora. Le guardavo dall’altra riva. Erano lontane, spavalde. Non felici. Il mio pallore non era migliore del loro fondotinta giallognolo. Della bellezza fugace che mi aveva sorpreso a diciassette anni rimaneva poco, un guizzo negli occhi, l’armonia dell’ovale. Nient’altro. Il mio corpo scavato restava nascosto. Non lo conoscevo nemmeno, sepolto da strati di abiti. Uno sull’altro.
Le mie gambe erano tornite e forti. Diventarono la mia vergogna, una delle tante, assommate per salvare qualcuno.
Perché salvare qualcuno non è una questione poetica, esteticamente è ributtante, l’esito finale, dico. Ributtante. Non per questo sarei stata amata di più, al contrario.
Non era rimasto altro intorno a me. Le mie letture, e il divenire, non erano l’attesa eccitante. I giorni si immettevano nella sostanza pratica di una esistenza smorta. Non l’amore, non il desiderio.
Soltanto la morte di qualcuno, qualcuno da salvare a scanso di errori. E il tossico in effetti si era salvato. Era gagliardo, povero idiota, ma a suo modo poteva piacere. Non si faceva più, andava dicendo. Un legno marcio con qualche prerogativa.
Non sapevo come uscirne. Studiavo per la maturità. L’estate arrivava con suggestioni sempre più estranee. Spiavo alla finestra quel che poteva essere. Ero finita nell’irrimediabile. Ero il prigioniero che ha smesso di prefigurare una nuova libertà, fin troppo doloroso configurarne l’equivoco.
Le ragazze si scoprono. Non hanno vergogna. Io non potevo. Dovevo nascondere la ferita. E la ferita era il corpo scarnificato. Il tossico mi guardava, nuda, insicura. Il tossico rideva sulla mia faccia. Il suo riso beota, da analfabeta, il demente che non capiva le parole troppo lunghe. Dunque i suoi pensieri dovevano necessariamente adeguarsi, saranno stati pensieri minimi. Perché non è morto?
I pensieri minimi del tossico non erano sintetismo, non era una semplificazione della realtà. Non posso neanche riconvertire quel contenitore di carne in qualcosa di giustificabile. Sei venuto al mondo per…non so per destabilizzare. No, nemmeno. Sei venuto al mondo per crepare subito e senza rimpianto, legno marcio, cattiva brace.
La mia stagione peggiore. Ecco. Era la solitudine biblica. In superficie sembra non detenere alcuna fruttuosità. Esteticamente discutibile. Ciò che biblicamente ti arrota nel fuoco non è per forza un gran bel vedere. Dov’è l’eccezione? Dov’è la nobiltà?
Io vedo soltanto il misero fuscello trascinarsi nei giorni. Una ragazzina ossessionata da fobie molteplici e improvvise. Una giovinetta denutrita con la speranza di una trapassata. Una finita. Una che era all’inizio di ogni fine.
Ogni tumulto, il mare imperioso, in certi giorni con il vento di terra; le nubi violacee frementi contro il cielo sabbioso, enfio di una luce intrisa di foga, concitata per il tanto precipitare, su volti foschi, tetti sbranati dalla salsedine, casermoni dalle infinite vischiose pareti, privi di lucernari; ogni tumulto urtava nella immobilità di quel che non accadeva. Non accadeva la vita stessa, così come avrebbe dovuto.
Scriveva Marc nel Manifesto dei Blaue Reiter che in fondo il mondo, tolto il mondo, non era questo granché. Non letteralmente, ma più o meno, il senso era: qualsiasi cosa sfiorisce. Qualsiasi cosa detiene la maschera e la verità. Non solo la bellezza. Nemmeno nell’incandescenza della natura, nulla resterà, oltre la brutalità di una fine. Comunque una fine.
Prima dell’eterno sfiorire, c’è l’immondo. Prima della fine, c’è l’immondo.
Perché un fiore sia per sempre, rinsecchito o in bella mostra, o simile a una creatura impagliata, non può esimersi dalla putrefazione.
Dall’immondo.
La salvezza potrebbe procedere da qui.
Non una perfezione che mondanamente lo sia, e il suo contrario. Se penso a Miller, i suoi sozzi vagabondaggi. Miller, il suo personaggio, con una terribile erezione davanti alla tazza del water. Le sue donne disumane eppure altrettanto commoventi, si dimenano luride, graffiano i polpacci, esalano odori felini.
Imperfezione che cela un tentativo di purificazione, talmente intrinseco e indicibile, da raschiarlo sulla pagina. Esausti, colpevoli. Sgomenti. Trovarlo infine.
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