Monthly Archives: June 2023

La storia di un’ossessione – La via stretta

Sembrava che una spessa veste nera, luttuosa, mi ammantasse. Che tutto intorno la natura, il paesaggio mostratomi, come la libertà più morta, non fosse che la conseguenza di una tragicità remota, che adesso s’appressava a tornare, preceduta da un tonante gong, dalla gestazione di orrori spersi nella campagna arida della periferia e i tossici e quel che vedevo ne fossero i lacchè penosi, ingessati di zelo mortuario, mascheroni sfatti, liquidi bui fuoriusciti da una carcassa. Torme putrefatte. Capite. Non era un sogno.

Era la via stretta. La solitudine biblica. Ci sono cose che finiscono nella contiguità estrema di qualche altra consunzione. Non tornano allo start. Ma sono l’inizio di ogni fine. Allo start torna il medesimo lutto. Lo chiamo dolore.

Avevo diciotto anni. Chiudendo il pollice e l’indice delle mani sui miei fianchi, serravo per intero il mio vitino. Pesavo quarantadue chili. Sono alta centosettanta centimetri. Un paralume. Ero dimagrita in pochissimi mesi, uno due. Potevo riprenderli, e li avrei ripresi e poi persi di nuovo. E’ cominciata così la mia disperazione. Una disperazione biblica, anch’essa. Si spiegherebbero molte cose. Rifletto oggi con indolenza, è la stagione peggiore, un terrore che non riesco a tradurre del tutto, la mia scrittura lo impedisce, mi difende. Sono stata dentro la disperazione biblica, sette anni; sette è un numero biblico.

Le compagne di liceo erano le ragazze. Lo erano ancora. Le guardavo dall’altra riva. Erano lontane, spavalde. Non felici. Il mio pallore non era migliore del loro fondotinta giallognolo. Della bellezza fugace che mi aveva sorpreso a diciassette anni rimaneva poco, un guizzo negli occhi, l’armonia dell’ovale. Nient’altro. Il mio corpo scavato restava nascosto. Non lo conoscevo nemmeno, sepolto da strati di abiti. Uno sull’altro.

Le mie gambe erano tornite e forti. Diventarono la mia vergogna, una delle tante, assommate per salvare qualcuno.

Perché salvare qualcuno non è una questione poetica, esteticamente è ributtante, l’esito finale, dico. Ributtante. Non per questo sarei stata amata di più, al contrario.

Non era rimasto altro intorno a me. Le mie letture, e il divenire, non erano l’attesa eccitante. I giorni si immettevano nella sostanza pratica di una esistenza smorta. Non l’amore, non il desiderio.

Soltanto la morte di qualcuno, qualcuno da salvare a scanso di errori. E il tossico in effetti si era salvato. Era gagliardo, povero idiota, ma a suo modo poteva piacere. Non si faceva più, andava dicendo. Un legno marcio con qualche prerogativa.

Non sapevo come uscirne. Studiavo per la maturità. L’estate arrivava con suggestioni sempre più estranee. Spiavo alla finestra quel che poteva essere. Ero finita nell’irrimediabile. Ero il prigioniero che ha smesso di prefigurare una nuova libertà, fin troppo doloroso configurarne l’equivoco.

Le ragazze si scoprono. Non hanno vergogna. Io non potevo. Dovevo nascondere la ferita. E la ferita era il corpo scarnificato. Il tossico mi guardava, nuda, insicura. Il tossico rideva sulla mia faccia. Il suo riso beota, da analfabeta, il demente che non capiva le parole troppo lunghe. Dunque i suoi pensieri dovevano necessariamente adeguarsi, saranno stati pensieri minimi. Perché non è morto?

I pensieri minimi del tossico non erano sintetismo, non era una semplificazione della realtà. Non posso neanche riconvertire quel contenitore di carne in qualcosa di giustificabile. Sei venuto al mondo per…non so per destabilizzare. No, nemmeno. Sei venuto al mondo per crepare subito e senza rimpianto, legno marcio, cattiva brace.

La mia stagione peggiore. Ecco. Era la solitudine biblica. In superficie sembra non detenere alcuna fruttuosità. Esteticamente discutibile. Ciò che biblicamente ti arrota nel fuoco non è per forza un gran bel vedere. Dov’è l’eccezione? Dov’è la nobiltà?

Io vedo soltanto il misero fuscello trascinarsi nei giorni. Una ragazzina ossessionata da fobie molteplici e improvvise. Una giovinetta denutrita con la speranza di una trapassata. Una finita. Una che era all’inizio di ogni fine.

Ogni tumulto, il mare imperioso, in certi giorni con il vento di terra; le nubi violacee frementi contro il cielo sabbioso, enfio di una luce intrisa di foga, concitata per il tanto precipitare, su volti foschi, tetti sbranati dalla salsedine, casermoni dalle infinite vischiose pareti, privi di lucernari; ogni tumulto urtava nella immobilità di quel che non accadeva. Non accadeva la vita stessa, così come avrebbe dovuto.

Scriveva Marc nel Manifesto dei Blaue Reiter che in fondo il mondo, tolto il mondo, non era questo granché. Non letteralmente, ma più o meno, il senso era: qualsiasi cosa sfiorisce. Qualsiasi cosa detiene la maschera e la verità. Non solo la bellezza. Nemmeno nell’incandescenza della natura, nulla resterà, oltre la brutalità di una fine. Comunque una fine.

Prima dell’eterno sfiorire, c’è l’immondo. Prima della fine, c’è l’immondo.

Perché un fiore sia per sempre, rinsecchito o in bella mostra, o simile a una creatura impagliata, non può esimersi dalla putrefazione.

Dall’immondo.

La salvezza potrebbe procedere da qui.

Non una perfezione che mondanamente lo sia, e il suo contrario. Se penso a Miller, i suoi sozzi vagabondaggi. Miller, il suo personaggio, con una terribile erezione davanti alla tazza del water. Le sue donne disumane eppure altrettanto commoventi, si dimenano luride, graffiano i polpacci, esalano odori felini.

Imperfezione che cela un tentativo di purificazione, talmente intrinseco e indicibile, da raschiarlo sulla pagina. Esausti, colpevoli. Sgomenti. Trovarlo infine.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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La storia di un’ossessione – Save a prayer.

Alle tre del pomeriggio, quelli fatti di ero erano sentinelle ferali, seduti sotto i portici, la testa penzoloni, sentinelle dormienti, ognuno nel rango della rota. Ti spaccava le reni. Ne sentivo parlare, in gergo la chiamavano “la scimmia”, la deformità che arrampicava sulle spalle. La curiosità mi assaliva, tornava l’antico adagio: spiegatemi, per favore, spiegatemi perché. L’eroinomane sopravvissuto al tentativo di suicidio sillabava le parole come se fosse in preda a una demenza precoce, una paresi mnemonica. Era lugubre, andato nel regno dei morti e tornato. Il viso cinereo, olivastro. Qualcuno tirava su col naso, era la rota. Qualcuno si era fatto. Qualcuno dava di stomaco la solita schiuma bianca.

Riuscivo a mantenermi integra, cominciavo a difendermi dalla sostanza della vita, ecco che mi si presentava in un anticipo di paranoia. La sera prima di addormentarmi cercavo i preludi del sogno di quando ero ancora ragazza, e lo ero, e invece ero già vecchissima. C’era un divenire ed era eccitante, tentavo di ricordare, convincendomi che non fosse troppo tardi. Le compagne di liceo avevano deciso la città universitaria dove perfezionare gli studi, era l’ultimo anno. Io non avevo deciso. Io mi ero fermata. Non c’era un bivio, non c’era molto da fare.

La roba falciava un campo di destituiti, non era ribellione, non era una caduta colta, non si leggevano i poeti della beat.

Dinanzi avevo il medesimo affresco cascante. La piazza con i rovi, le bacche di ginepro brucianti sull’asfalto nel turgore di una poltiglia. Gli oleandri irti, le siepi ingiallite. Figuri circospetti sembravano sbucati d’improvviso dalle segrete infernali. L’aria tumida, quasi alabastrina, confondeva i contorni, che vibravano nella prospettiva allucinata di certi pomeriggi caldi, opprimenti.

Mi sembrava del tutto inutile la mia vanità, la bellezza, dettagli smarriti, d’un tratto. Dovevo occuparmi che non crollasse l’universo, il suo intrinseco equilibro, che stringe destini su destini, scegliendo nel caso un capo carovaniere. Ero oppressa, senz’altro, condizione che imparai a governare negli anni.

Anni biblici, di privazione, scolpiti dal tormento, da una desolazione umana, morale. Non trovo altro da accusare. La desolazione. La luce opalescente. Le bacche di ginepro, radunate in una poltiglia sull’asfalto. L’afrore di una carogna, ai piedi di un cassonetto. La siringa sporca di sangue conficcata tra le crepe del giardinetto della piazza. La tredicenne stesa di sbieco, all’ombra di un salice. Al centro della piazza. La piazza cimitero. Io.

Ecco, io ero la giovinetta con un rossetto color mirtillo sulle labbra.

Mi avrebbe consumato piano piano la mia ossessione prima di tutto. Semplicemente volevo capire, come si fa a morire con un quartino tagliato male. Cos’è il flash? Sale fino al cervello. Boom. E tu sei in pace con il mondo, dicono i tossici. Lo dicono. E sono talmente in pace che amano chiunque. Smettono di ribellarsi all’irrevocabilità che a certuni tocca più di altri; il senso malfatto che regola sentimenti inferiori.

Ero pudica ancora, stordita dalle fattezze di una volgarità indigena, la sceglievo, la frequentavo. La ragazzina con un rossetto color mirtillo, i jeans troppo larghi in vita. Il turibolo di insignificanza mi fumava accanto, un po’ come dire: cosa accidenti vuoi fare della tua vita?

Ed era il fumo di un narghilè.

Qualche anno dopo, ero l’ombra di me stessa. Disabituata oramai del tutto alla grazia, alla gentilezza. L’incapacità dell’altro era diventato un parametro sotto cui condurre discretamente una natura vivace. La mia natura doveva essere contenuta per rispettare il parametro. Il mondo apparteneva ai morti, a quelli fatti di ero, voglio dire. I vivi procedevano sull’altra riva, un affare da privilegiati essere vivi. E le ragazze? Figure leggendarie, al più. Frequentavano feste esclusive. Un tempo anche io, e non ricordavo, o ricordavo con sgomento, similmente al preludio del sogno che mi concedevo prima di dormire, un tempo. Allora nel preludio ero molto bella, vestita di bianco, ascoltavo una canzone di matrice pop britannico, Save a prayer.

Nel preludio passeggiavo in riva al mare, la spiaggia era bianca, perlacea.

Sapete, c’è l’inizio di ogni fine. Non torna più niente. E’ una salita che libera il piccolo peso ad ogni chilometro. In cima arrivi sguarnita, nuda. Non hai sherpa a sussiego, eccetto i tuoi rimpianti.

Il rimpianto è uno di quei sentimenti secondari che coltivano le anime nobili nelle intenzioni.

Ancora palpitavo, può darsi, al pensiero di ciò che poteva accadere, erano rapidissimi barbagli, in cui l’idea sottesa della morte, era quel che vedevo d’intorno, non soggiaceva a risorse migliori, ma non riusciva a dominare del tutto. Le impressioni modificate dall’idea sottesa di morte erano i colori di una tavolozza in cui sarebbero spariti giubili come il vermiglione o un verde veronese.

L’impressione della vita sulla vita scolorava, priva persino degli eccessi di una caricatura.

Nemmeno certi eccessi che leggevo nei romanzi di Miller, il deprecabile può sollevarsi a una speciosità aristocratica. Miller e i suoi orinatoi, le bettole, le sue puttane. Mai tanta letteratura innalzata si nutrì di sterco come in Miller. Le sue pietose puttane.

Leda. La magnifica africana. I sodali di bevute, di oscenità e ménage impronunciabili. Ma in fondo è già aver visto, concluso, il cattivo odore di cui si impregna la nostra formidabile capacità di fallire.

L’egregio disprezzo galleggiarvi sopra. Il mio lo era, fraintendibile, generosità, tendenza anomala allo stoicismo. Lo stoicismo è una forma di superbia, lo dice Pascal.

Chi volevo salvare Christiane?

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La storia di un’ossessione – La donna bambina.

Il tossico sembrava un animale disarmato, inerme, curvo. Lo incontrai un giorno di giugno. Fu l’inizio di ogni fine, per me. Avevo diciassette anni. Lo ripeto all’infinito, diciassette. Diciassette. Ero una liceale. Ed ero bella. Lo ero diventata d’improvviso. Sapete, una piccola stella, come in quella canzone degli Stadio, Acqua e sapone. Ero lei, la donna bambina.

Ormai si parla solo di lei/della bambina che stupisce.

Un tipo di bellezza che piaceva agli uomini maturi. Ma ero innocente. Il mio modo virgineo mi proteggeva dalle ombre del mondo, dilaceranti, in grado di sbranare il giorno medio e borghese, di solito degli altri. Lo rifuggivo, in cerca dello stato di grazia, piuttosto di un fatto preciso e simile a quel che sconoscevo: l’amore. Malgrado frequentassi già le ombre del mondo e gli eroinomani alle tre del pomeriggio davano di stomaco sui miei piedi. E io già sapessi. Oramai: l’avverbio scandiva il mio tempo che appariva esausto, sfinito. Oggi ne aggiungerei altri, avverbi e congiunzioni: purtroppo, nonostante tutto, e così sia.

Ero una piccola stella. Il ronzino scarmigliato entrava nell’allettante intrico delle relazioni, dei privilegi guadagnati senza alcun merito, eccetto la bellezza: feste private, regali costosi. Una ninfetta pudica che avrebbe radunato tutti gli errori, da lì a un battito di ciglia. Cominciai la mia carriera con il tossico. La carriera dell’aruspice che sorprende il fallimento, e di ogni cattiva azione ne erige un tempietto votivo. Ho aspettato che tornasse la medesima estate prima che incontrassi la sfiga, il tossico. Non è più tornata da allora. E aspetto quella liceale, e anche lei non è più tornata.

Era formalmente gradevole nel suo decadimento. Il tossico era appena sopravvissuto a un tentativo di suicidio. Un grammo di ero basta per ammazzarsi. E invece poi se n’è pentito, e mentre schiumava dalla bocca, componeva il numero dell’emergenza. E lo hanno salvato. Qualche linea di Narcan. Non crepi. Cioè puoi fregare l’overdose. Non sempre. Ma lui era un morto vivente. Gradevole, nero, un tronco marcio. Era pietoso, incurvato, una vertebra aguzza sporgeva in cima alla colonna. Gli chiesi una sigaretta. Erano le tre del pomeriggio.

E le tre del pomeriggio sono state la mia ora, per tutta la mia giovinezza, non sapevo che erano l’ora della tristezza inenarrabile, ma lo erano. Ogni volta lo erano. Ed erano le tre. Sedevo sotto i portici, accanto alla bottega di un barbiere, dove gli eroinomani acquistavano i quartini della roba migliore, Brown sugar, stagnola da scambiarsi di palmo in palmo. Le ragazze frequentavano il barbiere come un salottino, le più belle, quelle perdute. La luce del fondaco era giallognola, ibrida.

Il mio amore si chiamava Massimo. Non era il tossico che sopravvissuto al suicidio avrebbe incontrato l’aruspice con la stolta mania di salvare qualcuno. Allora me lo sono preso, perché tutto si conformasse al solito destino della privazione, sacrificio e non piacere. L’immolazione al gesto esoso, dare se stessi. Perdere se stessi. Perdere.

Massimo si faceva di eroina. Ma era un’altra storia. Era bello come Jeremy Irons. Indossava foulard di seta al collo e camicie bianche abbottonate ai polsi, anche d’estate. Nascondeva le piste, in gergo il segno dei buchi. Le vene fragili, sollevate.

E alle tre del pomeriggio il velo del tempio si squarciò, il cielo precipitava nelle tenebre, d’un tratto, una scure terrificante lanciava il monito evangelico come strali, saette dello Spirito, il sovvertimento dell’ordine, il brillio cosmico, la pace delle origini, l’eco tenace, allungata nei millenni, dentro la sola profezia. E pareva che tutto finisse. Alle tre del pomeriggio.

Il tossico fumava Marlboro, ne prese una e mi diede da accendere. Aveva mani enormi da operaio. Quelle stesse mani che avrebbero accarezzato le mie gambe, ruvide, insolenti. Mani da operaio.

Ero minorenne, lui no. Era molto più grande di me. Un ignorante. Un poveraccio, non capiva. Non capiva le parole troppo lunghe. E la mia pena aumentava, con il disprezzo. Un disprezzo segreto, che nutriva da qualche parte la mia nausea classista. Tento di raccontare un incubo. Non era la liberazione nel sogno di qualcun’altro, era una cattività protratta, che sarebbe diventata terrore, l’edera nella regione degli estinti, i mutilati di qualsiasi visione. Trattenuti alla terra, conficcati nel minuto esatto dimenticato nell’oblio. Sfumato nel flash, eppure dentro un tempo depresso, precisamente reale.

Christiane hai capito dove sono finita? Ti ho scritto una lettera, Christiane, l’hai letta?

L’eroina era la vera musa. Allora, non potendo restituire una icona di pari intensità. Era la terribile Salomé di Huysmans, la Bestia che tutto divora, avvelena, insensibile, indifferente. la Salomè con i seni frementi, decorati da lapislazzuli, il ventre vibrante, le gambe turgide e nervose. Era la Bestia. Diventava una musa. L’eroina lo era per allitterazione.

Ne ripeteva il maleficio, il canto screziato dall’inganno delle sirene malvage. Una devozione rovesciata, l’eretismo che anticipa il requiem, appena allucinato, alla fine di una realtà modificata, per un poco.

I miei incubi sono dipinti di Redon. Montagne sovvertite da piogge laviche, arbusti divoranti, paurosi, umanità deformate, brancolanti in lande lunari. Terrori misteriosi dove imparai a perfezionare l’intelligenza dell’assurdo. I dipinti di Redon. La donna velata di Redon, pastello e grafite mescolano una luce scoppiata, confonde la prospettiva, la occlude, in fondo, alla nostra viva certezza che una speranza sussista in definitiva e nel margine di un confine, oltre il quale poter procedere. Redon è il suo presente misterioso inchiodava il mio.

Il mio di allora, oggi potrei dire conciliato in un acquerello piuttosto, arreso, mentitore e arreso.

Purché si sopravviva.

Davvero? Si sopravviva?

È un’opportunità. O è una disgrazia.

Christiane tu sei sopravvissuta.

Forse è finita davvero, Christiane.

Era un diario maledetto.

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La storia di un’ossessione – de profundis

Le mattine grigie di giugno si configuravano simili a enormi Gorgone distese sul mare immobile, di bonaccia. Spalancava l’enorme antro, la fauce di una disgrazia, la medesima luce obliata, ispessita, quasi a voler confondere la silhouette di accozzaglie, ciottoli, scampoli di desideri lugubri e sovrumani. Le case popolari erano loculi, angiporti senza lumini, occhietti bui e sprofondati in luogo dei lucernari. Ogni sentore di vita era un requiem, poemetti di intenzioni sgrammaticate e bellicose, urla straziate, ed era un vociare, il mercato; il gabbiano solitario e lontanissimo, planando sulle varie possibilità di orizzonte, nascosto dalle nubi gonfie di sale, diatonico parimenti. Il tossico che volevo salvare aveva in testa una donna, non ero io. Non potevo nemmeno somigliarle. La femme fatale. Invidiavo certe esuberanze o esotismi erotici, io ero ossuta, estranea. Non sarei stata mai la femme fatale, la donna di una manciata di versi decadenti, come il Destruction di Marinetti. Quella donna lì.

Chi verrà a morsicar fino al sangue, in un rantolo di morte, le tue mammelle dalle punte di fuoco (…)

Roba così. Era un simbolo, un manifesto, una provocazione. C’è tuttavia quel punto di frattura in cui l’irreprensibile diffida l’innocente e l’umano, diventa materia per orda di pensieri, condannabili senza rimorso, ed è lì che dimora la musa. La musa del tossico era una donna, era l’eroina. Doveva ammazzarsi sul serio. Non ritrattare. Due linee di Narcan e sei fottutamente salvo. Poi toccava a me, prenderselo, la soma. Il basto sorretto con impazienza, il basto detestabile.

Detestavo quella razza di umani.

Quando la vita ha smesso di profondere lusinghe sgargianti, quando è diventata l’immane lutto? Di chi è questo lutto? Quale morto sto piangendo, battendomi il petto, inginocchiata ai piedi della volta, sulla cima della rupe, mentre il gabbiano geme, straziando l’aere, il suo personalissimo de profundis. Avrei imparato a guarire dal tedio degli estinti, qualche anno dopo, in corsa verso altri errori. Errori encomiabili, perché sarei tornata libera dal giogo borghese e tapino, ancor meno, bovaro, volgarissimo, superbo. Perché c’è una cattiveria che giace nell’insidia mutevole di una qualità precisa della povertà, intesa morale naturalmente, ma anche tangibile.

La casa del tossico era una modesta abitazione, con pretese villane. Bisogna badare che la pietà da protocollo, l’induzione demagogica e catechistica in definitiva, non lasci presto il posto a un disgusto classista, insopprimibile. La compassione per una povertà indegna fino alla fine è parecchio più praticabile. Davanti a un parvenu, o a un piccolo borghese, o a un capraio al di sotto ancora, provare un sentimento di compartecipazione è già una mostrina al petto. Che siano perlomeno estinti con una qualche forma di epicità intrinseca con cui orlettare la scelleratezza. Che sia una scelleratezza scaltra, sublime aggiungerei, una nefandezza che scavi nell’impronunciabile. Lo avrei preferito, invece che una bassezza domestica, ordinaria. Come certi personaggi di Henry Miller, nella Parigi post qualcosa.

Debosciati. Termine che appresi da bambina, dopo aver letto Miller. Cioè avevo dodici anni. Debosciati, con i polpacci erosi dalla rogna. Rinsaviti quasi mai da obblighi morali, ma da supreme cadute, appetiti sessuali di solito conformi alle più nauseanti parafilie. Il grigiore naturale del mondo, scrive Miller. Lo detesta. Detestare è un termine classista. Non c’è classista più severo di un debosciato, un antiborghese, qualcuno preferirà per una posa disdicevole presentarsi marxista, proletario, comunista. Perlomeno c’è un che di significante e concreto nella disfatta, che sia colta. Che lo sia.

E che il mondo vada pure in pezzi.

Ecco dov’ero finita dopo aver letto il diario di Christiane. La vita non era sovrapponibile alle altezze ambite, alle parole lette, parole di cui innamorarsi perché avrebbero mentito spudoratamente sulla vastità dell’esperienza umana. Parole che sommavano splendidi abbagli, incoronavano i diseredati con endecasillabi superiori, o salmi cantati, come le novelle di De André.

E invece il tossico non sapeva scopare se non secondo prestazioni ordinarie. La sua vita ordinaria, da tossico, straordinariamente ordinario. Voglio dire, finisci con il muso nella merda, e resti ordinario. Un vero spreco.

Sedere al desco del modico. In gran segreto e prematuramente rimpiangevo altro. Battigie mai calpestate, a Montparnasse, il disordine immorale non scevro di sorprendenti rivelazioni. Certe albe peste, i noccioli penduli ai fusti di un viale lunghissimo e demodé. Scadente, sfinito. Era il mio mondo, volevo quel mondo, con orinatoi ai quattro canti, battone sui margini di un precipizio, un perdono esteso, nella profezia lungimirante, nell’indulgenza sottesa e invisibile.

Il miracolo nella circostanza che lo ripudia. E’ un miracolo.

Aspettavo che mi venisse in soccorso un canto impazzito, il medesimo che il personaggio di Miller incontra nelle sale di una galleria d’arte, celebrazioni di inni e metastasi di geni perduti, spatole di colore lanciate verso il tradimento mondano, incapaci di altro manierismo, salvo sporadici guizzi di intuizione.

L’intuizione è una ferita. In essa dimorano le verità, superato il serraglio delle quisquilie. Arrivarci alla fine di molte orbite, la cordigliera che precipita nell’oceano, stessa proporzione, una gran fatica restare fissi al nodo della questione, la vita così com’è, non come il sogno l’avrebbe rivoltata, alla stregua di un bolo.

Bisogna arrivare alla fine della questione. E da allora, dalle mattine grigie di giugno in cima alla rupe, non ho atteso altro.

Non so argomentare ancora, non so nemmeno rispondere alla domanda regina di tutte le altre.

Quanti anni hai?

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La storia di un’ossessione – La non voluta.

Forse il fulcro è nel gesto maldestro che ha accompagnato la mia vita, un gesto che attiene a una funzione in qualche modo morale, quel tendere la mano all’uomo derelitto, una compartecipazione stolta e precoce. Sarei finita in un mare di guai. Prima ancora che nella regione indifferenziata, un paesaggio di estinti che vaneggia una porta di uscita, disperata, verso la salvezza.

Torna l’assillo, fastidioso e stucchevole. Cosa dovevo salvare? L’uomo derelitto era l’attraversamento, inforcava la luce suprema, la luce lo trapassava, il riverbero sarebbe stato uno degli antipodi. Il gusto esegetico di indagare oltre la misura umana, l’anfratto in cui celava il confine palpitante tra bene e male.

L’eroinomane che voleva ammazzarsi con un grammo di eroina fu la soma che caricai nella mia carovana, presuntuosa dimostrazione di longanimità. Aiutare un poveraccio, un idiota, un analfabeta, perché voleva ammazzarsi. Ed era giusto che a celebrare il sommo olocausto fosse la mia personcina. Distratta, mai svezzata. Il parto ingrato. La non voluta.

La non voluta doveva salvare torme di miserabili, lo avrebbe fatto, potendo, per cancellare l’immane vergogna, un aborto per sempre. Indossarlo. Chiamiamolo destino. Al fondo delle cose, reclamava la ragione di dover esistere, un destino qualunque, nella partitura faccendiera e transeunte di una ordinarietà borghese. Si conficcava il mio, a parte delle noie del mondo e insieme sfilacciato, ritrattile, appeso alle medesime con la foga di chi avrebbe comunque abbandonato la presa, per rincorrere la natura speciale dei fatti che non accadono o accadono male, della ruota che non gira, il carillon che gracchia, il vinile rigato.

Avevo diciotto anni. Studiavo per gli esami di maturità. Ed ero ancora convinta che esistesse un segreto latente della vita, tale da sgorgare, come latte impuro, dalle pieghe degli errori, balzelli di una strana gloria. Ma ci credevo. L’eroinomane nel frattempo mi aveva estorto ogni curiosità, sottratto questioni che avrebbero potuto somigliare a concetti come: felicità, allegria, giovinezza. La mia figura era sottile, rappresa dentro una sofferenza esausta, ben nascosta, sgusciava dal cieco empirismo, per nettare ciò che occorreva, istanze che fremevano perché davvero un giorno si fosse detto tutto il bene di tutto il male, in quanto l’ultimo finisse per diventare strumentale all’esaltazione del primo.

Nutrivo le mostruosità. L’ignoranza, la bassezza morale. Ero sfinita. Magrissima. Smarrita la bellezza. Non un connotato che ricordasse di me la stagione fiorita, la fanciullezza, la giovinezza. E intanto studiavo, con un futuro corto similmente a finestre finte, una verniciatura ingannevole sulla parete. Un verde che sprofondava in prospettiva e restituiva il senso delle quiete, oltre il dondolio di un ruscello e i profili di vastità mistiche. Una riproduzione non verificabile, immaginaria. La mia visione.

Era il futuro che sorprendevo a tratti. Ed ero stanca. E studiavo, senza risorse, nella solitudine esatta che non mi avrebbe deluso. Mi ha aspettato, pedissequa. Oggi, ieri.

Avevo dato tutto di me per la causa sublime. La salvezza. Non avevo potuto salvare Babsi, tredici anni, di Berlino, la più giovane vittima di eroina, titolavano i tabloid.

Il diario di Christiane. Così didascalico ad enumerare gli inciampi, mausoleo di obbrobri, ed era questo vivere, saper vivere? Contemplarne le discese forsennate, furiose, nell’imo della brutalità.

Non ero preparata, ma pensavo di esserlo. I passi affondavano nella terra rugosa di una città del sud, nella trincea maleodorante di un rione, isolati della periferia, disturbati dal solito trambusto, disdicevole, ugualmente ignorante. E i volti della miseria non erano mai concilianti o forme di indulgenza tradotte nella fatica. Erano ostili, segni geroglifici, impietose campiture, un quadro di Kirchner, una spatola secca, fremente, una scarica nervosa sopra perimetri di inanità.

Studiavo, avevo diciotto anni, ero una ragazza. Non ricordavo più chi fossi. Il tempo sordo era restio a concedermi la buona stagione, il raccolto di chi ha seminato nel pianto. Ma non era fin troppo presto?

Restituiva soltanto colori acidi e soli d’albume. La mia insofferenza all’altro era la tradotta utile a spiegare la vocazione allucinata al gesto pietoso.

Odiare l’altro. Non capirlo. Salvarlo.

Avevo diciotto anni e non mi sono salvata.

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