La storia di un’ossessione – Vera.

La rada era ammutolita, sotto il sole latteo di una primavera qualsiasi. Ne ammiravo la libertà, spersa tra le onde brevissime e irritate. Io, insomma, io sì ero un po’ il soldato morto di Brecht. Avevo dismesso tutte le battaglie. Settaria e antiborghese, potevo dirmelo, piuttosto che dibattermi, nel range di quale contesa? Io contro cosa, contro chi?

Il soldato morto. E siccome non c’erano speranze/ di pace dopo cinque primavere/il soldato tirò le conseguenze: da eroe volle morire.

Le lettere bruciano sulla pagina del mio nuovo romanzo. Lo scrivo mentre riferisco. Similmente ai disegni di Grosz, acidi dentro cui bruciare velleità e ipocrisie da benpensanti. E nel carosello li vediamo sfilare tutti, l’epa villosa del giusto borghese, marrani che imprecano, le loro irreprensibili toilettes, un ciarlare risentito, il mormorio del nuovo tempo, prossimo al battibecco o al pettegolezzo. Spetta a disordini come il mio argomentare e biforcare tutte le certezze, inneggiare a parodie del genere umano, usando le parole come un’arma, così come i disegni di Grosz. E giudico con uguale sospetto, nella tribuna morale che oggi mi è confacente. Il disgusto morale, la nudità efferata dei vizi ottimamente confezionati, ipocrisie lampanti e smascherate alla fine della battaglia del soldato morto.

La rada mutevole vibrava nel vento breve, scandiva il tempo effimero. Il tempo taceva sulla cima della rupe, alle mie spalle faticavano i negletti, la miseria, la brutalità delle cose spente, prive di speranza. Il mezzogiorno terribile, luttuoso vicendevolmente a certe volte sterminate che da qualche parte chiamano cielo.

La libertà era il fenicottero rosa che sorvolava nella solennità algida delle creature concepite perché contagiassero una perfezione delle origini, sopra le nostre preoccupazioni banali, svettavano misurate, a quote imprecise, e giù distese sconfinate di blu profondissimo, verso il celeste cristallino di alcune secche d’intorno a rocce tonde come isole, affiorate improvvisamente, in mare aperto. Eppure era tutto scostante e inavvicinabile, il mistero e la quiete, può darsi perché dimorasse in me ancora e per sempre il lutto onnicomprensivo, un lutto biblico e perenne.

La rada taceva, la mia vita si era conficcata, mi pareva, nel punto esatto in cui il male confluiva in una pietà stolta e irragionevole.

L’esistenza aspra e urlata dei negletti nutriva mostruosità da accudire in fondo, perché il purgatorio sulla terra a scanso di equivoci evitasse l’inferno altrove a nature maldestre, come la mia. La disperazione che mi abitava non era altro che il rifiuto a un monito, un compito direi, mi era stato messo accanto qualcuno, questo qualcuno non doveva morire, alla fine sarei stata liberata, della stessa libertà che ammiravo nei fenicotteri rosa e nei fringuelli sui tralicci, dai timidi piumaggi.

Una mattina di marzo, tristissimo come nemmeno aprile potrebbe contendersi il primato, ho aperto la Bibbia sulle pagine del libro di Ruth. L’Eterno ti riscatterà, serva dei Moabiti. Sotto le cui ali sei andata a rifugiarti.

E così sia.

Ecco allora disciogliersi il segreto delle cose accadute, in una tela che sgrana i dettagli. La bambina sfuggita alla mano del padre, nascosta ai piedi di una vetrinetta girevole, sfoglia il diario di una ragazzina, chiamata Christiane. Christiane Vera Felscherinow.

Vera è il diminutivo del mio nome.

Non era un’angoscia metafisica, o forse anche, l’asprezza profetica che ha sorpreso gli artisti di ogni tempo, è venuta ad annunciarmi nel cerchio della ricorsività, il giogo del dolore, il parossismo dello spirito che non riesce ad abbandonarsi, nella trincea sfinita e decisa anzitempo. Bisogna abbandonarsi. E nella tensione morale e disperante, trovarvi infine una verità. Tutto scoscende o discende dalla medesima, persino nell’abbreviazione di un nome da cui procede il destino, o uno stormo di destini. La collettività di un dazio da trasformare nel chiavistello in procinto di eternità disposte nel ganglio di ogni errore.

L’eternità slitta, rapidamente come in una corrente fluviale, nell’esattezza dei nostri fallimenti. La tela si sgrana nei dettagli, vedete? Illustra il segreto delle cose che accadono. Nel patimento si allarga un miraggio, o la prospettiva precisa, che intravede il margine di quel che è dopo, posto lì a rivelare, piuttosto che spiegare; il piumaggio di un fringuello grato al sole pallido, nel silenzio della rupe, articola un linguaggio inudibile. Dove finisce il linguaggio inudibile, dove andrà a riposare, in quale inestinguibile risposta?

Quelli fatti di ero. Non era soltanto un destino, incontrarli. Calarmi nell’infame contingenza. Appartenervi. Dipingevo il mio quadro imperituro, aggiungendo particole, di volta in volta. Tradendo la realtà, nell’alito rovente della speranza. Non so definirla ancora la speranza, non meno che la realtà.

Ricordo le giostrine delle case popolari. La ruota con le seggiole a cui agganciarsi, il trofeo in alto, il bamboccio. Il palco. I cantanti neomelodici.

Era già un destino. Uno dei tanti.

La festa del rione. I compagnetti cresciuti subito, tutti quelli fatti di ero, quelli che ho rivisto al sert le mattine in cui dovevo frequentare il liceo, ed ero già il soldato morto di Brecht.

I compagnetti finiti dentro. Tutti.

Era già un destino.

Uno dei tanti.

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La storia di un’ossessione – Nonsense.

Torna il medesimo incubo. Non è Gropiusstadt. È una galera. C’è il tale eroinomane, trascina il suo involucro, l’ignoranza si maschera di dettagli miserevoli, il corpo incavato, le braccia nodose da operaio, le vene sollevate. Devo tenermelo, una specie di castigo da scontare nel purgatorio precipitato nel mondo. Io non so come liberarmi. Temo di procurare nuovi lutti. Se tu mi lasci, io mi faccio una spada. Sento tutto il peso dell’errore altrui sulle mie spalle, per ciò decido di assumermi la pena. Ho inteso da subito, da bambina, che il mio posto non era stabilito, felice, congruo. Una che passa da lì, una che non doveva restare, ma è lì.

Per meritarsi l’amore bisogna far qualcosa allora. Falso. Nell’incubo, riesco a liquidare il figuro. È sempre cupo, non rampolla la luce da una qualche tragicità, nel qual caso, come la fonte alla sorgente di un fiume, l’Arno non so sul monte Falterona. La mia coercizione finisce al confine dell’incubo, quando sopraggiunge l’alba e apro gli occhi e so che sono libera, sono fuori, ce l’ho fatta.

Il figuro aveva le palpebre pesanti, perché era fatto di ero, la roba, l’ero, si raggrumava agli angoli della bocca, sembrava saliva, ma era un gusto metallico addensato e filaccioso, era il veleno che schiumava.

Da ragazza sedevo sotto i porticati della piazza, la piazza di quelli fatti di ero. I tossici davano di stomaco sui miei piedi. Una prassi nella quotidianità allucinata. Non farci caso. Era l’inferno.

Ma gli inferni, vecchi e nuovi, si somigliano tutti, basta tirar via l’anima, ogni eventuale sussulto metafisico sul senso dell’esistenza, et voilà. Domande che pretendevano un auditorio di consegnatari addotti. La conoscenza ad esempio poteva essere un piano abbordabile su cui salire, mollando l’acquitrino in cui piuttosto a marcire galleggiavano quesiti pragmatici. Come trovare i soldi per un quartino. Per dire.

La periferia bruciava pneumatici la mattina nei falò improvvisati. I ragazzini non frequentavano le scuole e frantumavano i vetri delle bacheche degli androni infiniti e neri. Il tanfo di cavolo rancido si spargeva tutto intorno, le urla, i litigi, le imprecazioni, sfuggivano da dietro le porte erose delle case popolari. La contiguità del cielo in certi giorni era grigia, fosse aprile o novembre. Del grigiore morale, quello che attiene al crollo e al disordine. Il grigiore pervadeva il paesaggio, lanciato oltre la ferrovia. Del domani, lanciato oltre la ferrovia, mi ero fatta un’idea, febbricitante, gagliarda. Non era possibile tuttavia credere che un qualsiasi domani potesse intromettersi nel mio, così poco propenso a emanciparsi, lattiginoso, perché fermo nell’identico ordito. Una ragnatela che intessevo in luogo dei miei sensi di colpa.

Ero nata, sapete, ma non era un gran fatto, non per chi avrebbe dovuto esultare, una gioia, un salmo.

Così sono venuta al mondo, nonostante non fossi esattamente un’attesa.

Scendeva sul mio piccolo universo concentrazionario una coltre di miseria e morte, pulviscolo sepolcrale, indagini sfuggenti che non intercettavano alcuna virtù, una intonazione adeguata all’animo sensibile, proteso e longanime.

Piuttosto risentito e crudele, come certi disegni di Grosz in punta di coltello. La rabbia dei writer nelle lapidi sgrammaticate: non erano altro che pugni alzati e rabbiosi o avversi. La rabbia di Grosz era una marcia funebre di obbrobri, soldati, assassini, uomini ubriachi. Un piano sequenza di orinatoi per far intendere cosa sia di fatto la vita se non che la crudeltà. O la volgarità di ogni nonsense.

Chi mi aveva condotto fin lì? Soltanto Christiane? Una suggestione celeste?

Il non amore primigenio? Tutto concorreva perché radunassi pinnacoli di stolidità. Perché erigessi il tempio di tutte le sventure e le tristezze. Oh la sconfinata tristezza del mondo. Chi meglio di me può argomentarla?

La sacerdotessa di tutti gli errori, e della tristezza sovrana del mondo, aggiungo.

L’epitome dell’inanità in fondo è una responsabilità che ho svuotato fino all’ultimo barbuglio. L’eroismo rovesciato degli eroi di Cechov o ancor meglio di Gogol. Lo preferisco, preferisco inquadrare il profilo del perdente, di colui che perde sovente, dalla prospettiva in tralice, e che non è sospetto, ma furbissima indulgenza. L’indulgenza è uno strumento, un metodo, uno come un altro, per sfaccendare sulle inesplicabilità o addentrarsi nell’irreprensibile partitura del nonsense.

Io può darsi non sappia in definitiva cosa sia l’esistenza, avendo capito molto delle soluzioni che questa mi ha proposto, prossime ad un anacoluto. Ma cosa ci fosse dentro, il mallo, la polpa, non saprei dirvi. Io non sono mai stata, allora ammetto una contiguità con l’impossibile.

Posso spiegarvi le ragioni organizzate di una contraddizione, alla fine della quale troverete la porta sbarrata, un vicolo cieco. E tuttavia oltre lo spiraglio udir lo stesso un mormorio rimestato di vita, ecco quella è la vita. Il profumo penetrante che può assalirci malgrado tutto, il sudiciume riposto e chiuso nel secchio. Un profumo penetrante, come certe essenze di patchouli.

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La storia di un’ossessione – Io ero l’infelicità.

La giovinezza è un atro. Un vicolo cieco. Un guato, triste, cupo. Possiate ognuno sentirvi traditi da una stagione della vita. Io lo sarò comunque, per molteplici ragioni. Ero una liceale. Promettente. Studiavo quel che tanto che bastava. Tacevo agli altri la mia insana curiosità su fatti appresi goffamente sui libri, niente di didattico si intenda, propriamente oscenità, segreti grigiastri e ben mantenuti di una borghesia perlopiù liberale. Preferivo i romanzi di Moravia. La borghesia è lo specchio untuoso in cui si rimirano le pochezze di una comunità, un pensiero collettivo, dicasi civile per inezia. Forse un po’ meno liberale e moraviana nella costrizione di ipocrisie sociali su cui disporre irreprensibilità distinte e da salotto e ottimi tavoli da burraco. Temi molto cari a intelligenze vivaci, su cui erigere manifesti, improperi, destinare uno sputo onnicomprensivo; ma le solitudini si svezzano all’ombra di codeste. Solitudini non dichiarate, nominate con ingiusti patronimici. Astrusità, o cose del genere. Io non provenivo da niente, il mio ceppo era interrotto, pregno di nostalgie. Frequentavo quel che non mi confaceva, un tratto della mia natura, il non confacente, una volgarità espressa sorprendentemente nella figurina delicata. Una vera truffa estetica. Frequentavo le periferie gremite di banchi di ambulanti, motorette sprezzanti, suk improvvisati. Ci sono i quadri di Ottone Rosai a ricordarmele per anacoluti e intrinsecità. Un discorso interrotto, il glicine che abbacina sulla cima di un maniero precipita nel canalone di fogna, sbeffeggiante il cielo e la sua portata di lamine sgargianti: sono anacoluti. Intersecava grigiori e paesaggi azzurrognoli, facce irrigidite, vizze, confini brevi. Ma pastosi, discreti, piccole chiacchiere a ridosso di laboriosità, foschie sull’Arno. Non era la periferia che detestavo, più prossima piuttosto al quartiere popolare dei miei nonni, amati, sommamente. La periferia che detestavo equivaleva al sud sbracato sulla propria ignavia, crudeltà da analfabetismo, superbia da ebetudine rinforzata a suon di orgoglio faccendiero, di solito nel malaffare.

Quando conobbi il figuro avevo diciassette anni. Il figuro usava l’eroina, forse per dimenticare quanto pietosa fosse la sua esistenza, concepita male. Un guitto, una testa spinosa di sciocchezze, gettata al mondo.

Perché di grazia?

L’eroina. Aveva bisogno di far morire qualchedun’altro, il figuro. Scelse me o viceversa. Non saprei. Invece che farsi l’ultima spada, gergo dell’eroinomane, obliterò la mia vivacità, la commovente, abbiate cura di credermi, dicevo la commovente adesione alla vita, all’armonia che vi sovrintendeva, che avevo adottato, fin da bambina, quando ho cominciato a capire che ero nata scomoda, manomessa, conficcata in un luogo approntato con indolenza, il cantuccio – to’, questo è tuo – che non mi si restituiva se non con disagio, infelicità.

Io ero l’infelicità.

Allora, non c’era altro da fare, ostinarmi a voler essere, a esser viva. Sorridere poco, dinanzi a chi mi aggradava un cencio a questo mondo con un recondito risentimento. Vorrei aggiungere un punto di domanda. Non sono così ottimista tuttavia.

Ho consumato gli anni. Il rovello mi tormenta ancora. Ma poi tornano le ragioni rapprese nella sola verità, scardinano le deduzioni umane, si rinnovano di miracoli a seguire. Miracoli, nello scempio di una stagione concessa, una e basta. E il mio corpo, la mia pelle, gli occhi lucidi di attese, quando le attese non erano ancora librate in esercizio di virtù, quali la pazienza, e nemmeno incavate nell’angusto torpore di una galera fine a se stessa: attendere e non aprire mai la porta, non dare il benvenuto, non spegnere le lucine e girarsi su un fianco, finalmente quieta. Aspettare, nell’estrema unzione impetrata alla speranza. Segnacoli di fallimenti, senz’altro. E intanto si configurava un nuovo destino, la replica dei sette anni, nel nuovo destino, fino all’abiura del dato iniziale: fecondatrice di speranze altrui.

Così ho fatto, ho distribuito quel che non conoscevo, la speranza. Affinché il figuro, l’eroinomane, non morisse. Vivere per entrambi, malgrado detestassi il figuro, la sua stupidità, malgrado non sapessi cosa fosse l’amore, o la passione, o il desiderio. Esser desiderata. Ma ero una creatura smarrita, scarnificata oramai. Nel visino pallido erano rimasti in memoria di una antecedenza soltanto gli occhi, grandi e cangianti, come quelli di mio padre.

Grandi occhi sbarrati sul mondo sempre più infingardo. Mi piacciono le parole. Potrei dire bugiardo, cialtrone, in luogo di infingardo. Ma scrivo infingardo per rivestire il rancore e la bassezza di distanze. Infinite. Irraggiungibili. Parole come infingardo sono vatussi della distanza. Inesistenti ambasce rispetto al telaio di una menzogna, dunque la vita stessa.

E mentre per le mie compagne di liceo la vita accadeva, per me il tempo si era fermato dinanzi alla scritta di un writer con qualche problema con le aspirate: “niente a senso”.

La stagione, l’unica concessa, digrignava fino a esaurirsi su se stessa. Digrignava la mancanza, l’omissione, qualcosa che il ristagno, in apparenza, sembrava sottrarmi. Una congrua evoluzione. Come l’evoluzione della specie. Fasi. Liceo. Università. Pub. Feste. E poi c’ero io. Una vedovella, giovane, per un inciampo, profetica. Una vedovella che rammendava gli errori degli altri. Impegno che ufficialmente non le era stato richiesto. Il tossico, figuro, nel frattempo non moriva. Ed è quel che conta. Anche se considero l’esistenza di taluni fatica buttata. Esequie per sempre. Idiozie non commentabili.

Il futuro mi avrebbe scagionato, ma solo in parte. E’ sufficiente?

È sufficiente oggi soffocata da nuove solitudini riscattarmi da me. Ce l’hai fatta a non sorridere, così poco, da non urtare te stessa, guardandoti sorpresa in un perdono mai ricevuto, dentro rapide conciliazioni o pietà rabbiose, riflettere sull’alone di uno specchio, abbastanza ipocrita da convenire con te.

Madame.

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La storia di un’ossessione – La risorsa.

Distesa sul letto, come in un feretro. Torno a ogni suggestione. Sono la ninfetta con i piccoli seni sollevati, i capelli sparsi sul tergo, una venere fragile e afflitta. L’immagine ascende, d’un tratto, quando ricordo cosa io sia stata davvero. La giovinetta, un termine lezioso o molto più educato in virtù del tempo, di quanto efferato e insieme pigro esso sia stato; tale e conforme al solito destino, a guardare dentro, nella faretra delle cose accadute, le frecce non più infiammate, ma pigre, con l’acume spuntato; non concedendomi altro che la medesima forma di disperazione non estinguibile, nel debito protratto lungo altri anni, con altre lusinghe, non si usasse che lo sguardo del mondo.

Ma lo sguardo del mondo non ha retrovie di salvezza. Mi trapassava, la spada da parte a parte, che includeva un certa nostalgia di un fatto non verificabile, senza futuro né passato, la mia compassione cioè. E non sono sicura che il diario di Christiane Felscherinow ne sia stato lo strumento, non meno di quanto lo sia io per ogni empietà, un riscatto da applicare nel misero vello, la mia pietà appunto, lo scalpo da offrire casomai un domani. Offrire in luogo di che cosa?

Cercavo l’errore nell’uomo, dimorante nell’uomo, l’uomo balbuziente dinanzi alla colpa eppure disposto ad arrendersi alla medesima nell’esecuzione di un dazio, il vincolo per una liberazione che nell’ultimo giorno avrebbe irrorato la caducità del sole immaginifico della misericordia.

Così leggevo libri adulti, libri che la censura e la morale avevano già condannato. Dunque leggevo per riparare, sorprendendo nell’abbandono di un vizio la risorsa sepolta. Leggevo i romanzi di Henry Miller, nascosti tra i tomi della libreria di mio padre. Oscenità da tenere a bada. Censurato. Dovevo leggerlo, perché ancora bambina, ascoltavo con precoce curiosità alcuni discorsi in merito argomentati da mio padre in occasioni diverse. O anche soltanto perché ne avevo intuito l’inaccessibilità sfogliando l’opuscolo mensile, sulle novità e le critiche librarie, spedito puntualmente dal Club degli editori. Imparai la continuità tra la trascuratezza, una compiaciuta deviazione e la più terribile delle solitudini, nei romanzi di Miller. L’uomo nella sua caduta puzzava di insetticida, graffiava i polpacci, tormentato dagli insetti; aveva incubi scoppiati, torme di vermi lo assalivano, mentre donne nude dalle natiche enormi agitavano volgarità erotiche dinanzi alle pudenda dello straccione avvizzito, ubriaco di pastis. L’uomo nella sua caduta. C’era una coerenza di intenti nella mia voracità precoce, una voracità che prefigurava avvenimenti invisibili, precipitata nel pozzo dei sentimenti che non si esplicano, nella vergogna sociale che si infligge alla compulsione. Da dove questa arriva se non dal male? Eppure, riflettendo, nell’esito esiziale, la condanna diventa l’espiazione, il bottino di un sacrificio.

Occorreva un Giuda Iscariota perché si compisse la profezia sul Figlio dell’Uomo? Era un concorrere alla salvezza un tale abominio? Previsto purché per la salvezza? Così come le creature degli slummies; Christiane, Babette, i guardoni della stazione di Berlino alle tre del pomeriggio.

Alle tre. Erano le tre? L’ora in cui si compie il destino per ogni uomo e il velo del tempio si squarcia e la verità scoperchia i sepolcri?

L’uomo di Miller è l’empio biblico, potrebbe tradursi solo alla fine nel riscattato. L’uomo che disamina il male, nelle bettole, seduto al tavolo con altri pelandroni bevitori, seguono con il dito la varietà di pidocchi e tenie che percorono le loro viscere, come la tentazione la loro vita.

L’uomo di Miller, una corsa in taxi fino a un sobborgo parigino, o a Suresnes, in uno stanzino obitorio, con un materasso divorato dalle cimici; l’uomo di Miller è uno spirito provato, comunque la si voglia dire.

E lui dice: io non ce la faccio, non sono un pidocchio.

Capite, adesso. Nella sostanza, restiamo tutti alla stregua di un uomo, nell’identica misura. Tra le pieghe del linguaggio, che distilla, goccia su goccia, ogni residuo apparente di innocenza, troviamo minuscoli dettagli che designano con ostinazione il sentiero, la sponda, l’altra, il guado e la luce.

Ti aspetto all’altra riva, potrebbe promettere l’alter ego dell’empio, in un sogno accecato, alla fine del quale, potremmo persino destarci con un sollievo discreto, cauto a esultare.

I sogni dell’uomo di Miller vibrano nella luce virulenta, espansa, con personaggi mostruosi, deformabili, tipo la vecchia in berretta che percorre il corpo nudo dell’ubriaco, nell’estasi rovesciata. La vecchia, prima che il sogno finisca, rivela l’obbrobrio, un vaso di fiori sul capo; ed è la promessa disattesa senza la quale, ad esaudirla, non sia possibile far tornare la vecchia con un cappellino delicato e consono, rimettere a posto la luce, le ombre nelle ombre, ricollocare il bianco, uno spazio riverberale, la superficie di acque immote, il preludio celeste finanche, che smania oltre le cavicole – tale è la logorrea sonnambula dell’ubriaco che farfuglia – in giardini, con siepi e cespi adornate; delicati ciclamini in apposite giardiniere.

Quel che io ricordo oggi di quella giovinezza è la somma di figure precipitate in un tempo dove ogni minuto avrebbe scoccato l’uguale profezia, una mistura di alto e basso, di molto patimento, di privazione, di inanità, affinché riordinasse, la salvezza, le cose al loro posto, luce sulla luce, ombre nelle ombre.

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La storia di un’ossessione – Se è l’uomo.

Leggendo il diario di Christiane Felscherinow sprofondavo nel cielo convesso di Berlino sopra il quartiere dormitorio, nel presagio nordico, estraneo, mi sembrava che la vita paurosa dei figuri di Gropiusstadt si svolgesse allargandosi in terribili macchie di antracite sulla tela di un pittore sulle tracce di Nolde. Il senso drammatico della natura, direi, di un senso di esistere cresciuto faticosamente eppure nell’inevitabilità di un castigo, detto destino avverso. E già si articolava un primo anelito di quel che avrei incontrato, l’orizzonte bassissimo dei negletti, il mezzogiorno aurorale e apocalittico di certe rupi della periferia, remote come la fine del mondo. Le nubi minacciose dei pomeriggi nelle baracche dove i tossici compravano la robba, nel gergale, l’eroina. Ed era sempre una rivelazione la comparazione tra figuri e indigeni. L’epico grigiore della stazione del Bahnhof e le campagne arse del sud immiserito, privo di una ragione mitica, financo selvaggia. Il sud, esteso nelle agavi abbranchiate in verticale, una pretesa verso la preghiera, avviluppata nell’uguale disperazione di un fiore nel deserto, di un braccio carnoso, istupidito dalla luce violenta, urtata e acuminata. La terra bruna, dura, ispessiva sopra brevi dune irregolari. Gli spuntoni sullo strapiombo. Il mare infuriato gettato lungo la stria affannosa di un calanco o una petroliera. E gli orizzonti nascosti e sopra i cieli altissimi: splendevano paurosamente indicando vastità irraggiungibili che non scagionavano un dolore confinante con la terra, la proda. Il lutto degli umani, investiti di gravosità inesplicabili perché umani.

Ma ero una bambina, eppure non era troppo tardi anche allora? Aver capito, scoperchiato il tramite che del sacrificio ne rende alla stregua l’immondo. Le nervature nodose nell’avambraccio di una ragazzina, stesa su una pozza di urina, in un bagno pubblico. Saperne la morte avventata e frettolosa di sbrigare la faccenda che di un empio ne fa biblicamente l’agnello della purezza, lo scambio nella regione degli estinti, le ombre tese di un sottopassaggio mefistofelico. Nella contraddizione fiorivano, senza che ne intendessi la necessità, domande enormi, invocazioni grondanti la supplica al servizio della verità. Ed era per deduzione, o nella somma elevatissima, Dio, presente, nella domanda, e ancor meglio nell’assenza della domanda. Se è l’uomo, è codesto l’uomo, da dove giunge un tale concepimento, che non risparmia l’abominio e la caduta, nella perseveranza di qualcosa che era antecedente, immanente, di più, nel per sempre protratto, il tuono, il gong che esplode imprimendo tracce e suoni, disarmonici o diatonici, sorprenderne un preludio, indistinguibile e tormentato. Nella disarmonia, in ogni deduzione o sottrazione, persino. Non era forse una risposta da sola? Il grande quesito all’origine che ricopiava il dotto sincretismo e la balbuzie; lo stolto e l’innocente.

I tossici della mia giovinezza sono gli incubi che talvolta mi svegliano ancora la notte. Ho dimenticato l’antica pietà, non riesco a ricordarla. Tuttavia era la pietà ad avermi spinto violentemente, senza alcuna possibilità di retrocedere, dentro una curiosità ombrosa, così da indagare quel che non era opportuno, giusto, consigliato per una adolescente, una liceale.

Una liceale che avrebbe dovuto indossare cerchietti sui capelli, non rossetti gotici, una divisa da adulta, compromessa, in fondo una forma di devozione alla divisa di Christiane, i jeans cuciti addosso, le scarpe da donna.

Bisognava che tutto accadesse, in memoria di santissime stazioni, la strada lungo il calvario, altrui di solito, ma che contagiò anche me, ne dovetti assumere una parte. La cirenea.

O la replicazione del gesto della Veronica.

Fissavo nell’orrore attonito le poche fotografie riguardanti Christiane o Babette Doge, la più giovane vittima dell’eroina, urlavano i tabloid. Aveva tredici anni. Attonita. Riflettevo sull’età: tredici anni. Morire di overdose a tredici anni. Le vene spezzate dall’ago spuntato, l’epatite da eroina.

Esser morte.

Sembra il résumé di una poetica, della poetica del pittore Germanico, gli sprofondamenti di Nolde, la regione degli estinti, dove ogni gettito dell’esistenza era una contesa tra logica minuta e follia, senza un passaggio intermedio, piccole istanze o categorie borghesi. Urlava dai suoi colori lividi, dai gialli da ittero, i rossi ardenti, non credete a quel che avete sotto gli occhi, alla lusinga allusiva. Urlava: “Non credete a questa civiltà”.

La profezia antecedeva argomenti contemporanei e successivi. Ogni artista consegna un ravvedimento e una lungimiranza, nel talento stabilisce l’affinità con la preveggenza, con un’annunciazione. Nolde sembrava aver visto già ogni figuro, il cielo di Gropiusstadt, i neon nel regno delle ombre, gli slummies come estesi cimiteri.

Non sapevo che tutto ciò era già preparato, ogni dettaglio galleggiava nella medesima orbita, stretta dalla forza misteriosa a locuzioni non traducibili, una pulsione attrattiva, simile a un battito; dentro c’era la sostanza delle cose accadute e di quelle dopo; l’angoscia sprezzante di un artista; il lamento dell’umiltà; l’abnegazione dei prescelti; il coraggio nell’ordinarietà dei minimi.

Finiva tutto nel grande cerchio, che la sapienza indica come l’eternità.

L’inizio coincide con la fine.

E quella è l’eternità.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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La storia di un’ossessione – Litanie.

Quale forma di coscienza attiene alla pietà? O meglio alla compassione? Quale rigore morale può indurre una giovinetta a bruciare tutte le sue verdissime spoglie, già requie insomma, sì, direi nella sostanza o in previsione di nobilissime sconfitte, le chiamerei disillusioni; la giovinetta è nel disincanto, nella disposizione esequiale, esser in fondo e tuttavia esattamente trapassata o meglio defunta, morta. Morte le vigorie tipiche di una età, sul nascere, appena sbocciate, e pallide, sfiorite.

Eppure qualcosa mi spingeva verso l’altro, nella direzione del meschino. Un ragazzotto, scarno, ignorante. Funesto, ingrigito. Era un tale deprimente procedere. Dovevo salvare questo poveraccio, ecco tutto.

Perché? Cosa accidenti dovevo farci io di una salvezza che non ha mai incontrato reciprocità. E io? Ditemi! Io io!

Era magro, secco come un tronco marcio, incurvato, una vertebra aguzza alle pendici del collo sottile, alla stregua dell’estremità di un rapace, una calamità, una mediocre oscenità, una categoria bassa del creato, sotto dimensioni. Armature deteriori che non saprei dire davvero cosa il creato debba farsene. A recinzione di cosa? Una tale orribile empietà mi si mostrò davanti nella sua volgare insulsaggine, nel figuro molesto, erettile per inerzia.

Dovevo salvarlo. Avevo diciassette anni. Diciassette. Un numero che ripeto, sembra un mormorio, finisce nell’orazione, ritorna sprezzante all’origine del risentimento.

O dovrei accettarlo in luogo del rimpianto. Cosa cambia? Io ero una ragazza, ero forte. Ma ero anche la ragazza interrotta di Susanna Kaysen. Non lo sapevo, tuttavia. Non ero guardata. Non ero un soggetto degno di attenzione. Rifiorisce il mio piagnisteo, meglio di una giaculatoria, decido di aver fede in un piagnisteo, persino molesto, mi consolo da sola. Piacevo agli uomini, voglio dire, agli uomini adulti. Uno si faceva di cocaina. Era sempre su di giri. Somigliavo a Gina di Miami Vice, andavano certi pezzi musicali con quella potenza futile precisamente fine anni ’80. I Roxette. She’s got the look. L’uomo che si faceva di cocaina era alto, una prestanza decaduta, bello, di una bellezza marchiata, la pelle delle guance era segnata da un paio di cicatrici. Piaccio agli uomini che sono perduti, che sono finiti, compromessi da qualcosa. Un po’ virginea, un po’ austera. Il mio rapporto con il sesso è stato, di solito, colpevole, da educanda.

Si chiamava Renato.

Era un brutto film. Io c’ero dentro. La gente stava a rota, tutto il mondo era la gente che stava a rota.

Sentivo parlare solo di roba, di eroina.

La sera prima di dormire enumero le volte che sono caduta. Sono le stazioni della via crucis. La mia è mingherlina. La riproduco. Al momento sono otto stazioni. La Veronica la riconosco alla sesta.

La Veronica sono io?

L’emorroissa.

Oppure rimango stesa, tutto il mio corpo occupa lo spazio di una piccola isola, sono circondata da fiori, cespi rigogliosi, voglio dormire, riposare. La culla della neonata, un rimestio lontano mi ricorda le acque del blu barocco di alcune indimenticabili estati. Il dondolio blando scandisce un solfeggio antico, il tempo di una preghiera, confido in te confido in te.

A volte riesco a dormire. Dormo sempre, talvolta dormo come dormono i giusti. Le lacrime non scivolano sulle tempie. Si asciugano prima timorose, o ritirano nelle segrete di un tempio allocato dove consumano i nostri desideri.

I nostri desideri sono preghiere recitate male.

Ero una bambina. Ero libera. Le sarebbe cascato il destino sui piedi. Potevo mai immaginare accidenti, il destino rotolare giù, come dalla punta di una fragilissima rocca.

Allora replico i miei perché, sono convulsi, litanie stanchissime.

Il tronco fradicio aveva 23 anni. Fui deflorata dalla sua scarsissima virilità, di cui riuscii persino a godere, per un po’. Nella cecità di ogni senso, che tutto recepisce nella cecità, nella volgarità di un gemito. Non direi innocenza.

Fu il primo o il secondo sacrificio deposto sull’altare. L’eroinomane dall’incarnato infesto poteva essere malato. La peste. Il secolo della peste. Aids. Bruttissima parola allora. Terrificante inquisizione a latere.

Con chi hai scopato?

Potevo ammalarmi.

Non mi sono ammalata. Non di Aids. Di Tristezza, ma la conoscevo da prima.

Bonjour tristesse.

Lui era così insufficiente, nudo, impaurito. Ho pensato di amarlo. Lo guardavo con disprezzo e piano piano insinuava l’affetto della pietà e qualcos’altro. Il desiderio in fondo di riprovare il gemito. Godere senza altro che quello. Godere con meschinità.

Sempre tristissimo abbaglio. Godere senza amore.

L’assente. L’amore.

Volevo salvarli, nel mucchio, prenderne uno. Che valga per sempre.

E invece sono ancora all’ottava stazione.

Bonjour tristesse.

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La storia di un’ossessione – Cos’era la vita?

La pietà percorre sentieri nuovi, sempre nuovi, nella palingenesi dello spirito, come se giungesse a conclusione di una disputa, a metà tra eloquenza e disprezzo, quella che di solito avvinceva certi miei strettissimi pensieri, inesplicati e crudeli, simili a nodi scorsoi. Odiavo qualcosa di afferente al mondo pacifico, pacifico nel senso di un binario morto, tutto svuotato in comprensioni e consuetudini sguarnite di sussulto. Oggi con albagia sbadiglio su circostanze funeste, ad esempio aver dovuto subire la mestizia di un paraggio mediocre, piccolo borghese, senza combutta, senza un messianismo rivoluzionario dietro a galvanizzare impeti esosi. Eppure sopravveniva la pietà, lo sguardo che si piega nelle ombre, compartecipe. Lo sguardo come un cuore gettato, a raccogliere bende e turgori, conservarne una profezia insita. Conservarne il sacrificio immutato che replicherà. Il concetto imprendibile e intanto perenne del dolore che si schiude per ognuno, nel tempo fissato, il raggio esteso di una possibilità di remissione. Il sacrificio scelto nel disegno non rivelato, se non nell’ultimo giorno, affinchè il cosiddetto mondo ne intercettasse l’errore, nello stigma dell’empio.

L’empio in luogo della pietra di scarto.

Ma è la pietra di scarto. Lo suggeriva un impulso, la tentazione all’indulgenza, la fissità ottusa, cieca nelle colpe altrui, sapendo bene di averne intestate parimenti. L’espiazione sottesa a un mistero, ditelo destino, l’espiazione uguale a un compito gravoso, un giogo da cui non doversi sottrarre, perché tutto fosse ancora una volta compiuto.

I miei diciassette anni. Inaugurai ufficialmente la stagione delle privazioni, delle rinunce a scalare, sempre più rigide, non disposte a trattare eventualmente su certi confini vulnerabili alla stregua dell’amore.

L’amore sembrava un fatto crudele, il colpo di coda della malasorte. Diventava il legno incrociato. La corona di spine. Il chiodo piantato. Lo doveva perlomeno ricordare. Non nella medesima sofferenza, inarrivabile, nella sua ombra, l’ombra ricavata dalla luce estrema, dalla congiunzione celestiale e efferata per una tale verità. La luce che inonda fino al buio. Siamo il cieco che non ha ancora incontrato il Nazareno.

Scivolavo lungo il pendio delle disfatte, non mie esattamente. I volti ignoti davanti la porta di un sert.

Mi sono incaricata del vello di quei carovanieri stolti, del loro procedere senza dimora. Cos’era la vita se già la osservavo sgomenta, quando ancora avrebbe dovuto mostrarmi il belletto migliore. Una terribile traslazione, come scriveva il fervente asceta, ex anticlericale, Léon Bloy, se non putridume, lutto, miseria, menzogna.

E la vedevo per intero la parabola inarcarsi allo stremo delle lusinghe, lenocini su cui poggiamo il capo, il guanciale delle sventure a venire.

I miei diciassette anni segnarono un paragrafo immondo. Non era una parentesi, un lasso dentro cui sbagliare, imparare, uscirsene egregi, e stop. No. Entrai nel vortice delle solitudini strazianti, un’orbita che pareva rincorrersi nel mulinello, rincorrersi e assottigliarsi in cerca della cima, una cima che non è dato sorprendere, non al momento. Non domani, forse alla fine del libro della vita, l’ultima chiosa. In calce, il nostro nome con la spunta della sua stessa irrevocabilità.

Gli eroinomani: non avevano una storia leggendaria per scabrosità. Non era quel che avevo intuito nel diario di Christiane Felscherinow?

I sotterranei della metropolitana erano gole di terrore, ferite dai bagliori demoniaci. I suoni soffocati erano enormi fauci digrignanti o irranciditi da un raglio abbaiante, il giorno sbatteva le sue ali sopra, nella tesissima combutta. E sotto era sempre notte, e nella notte sono precipitata con loro.

Loro. Gli empi, per il mondo. Non sono sicura che corrispondessero all’empio biblico o se non vi fosse in corso piuttosto l’immane malinteso, predestinato senz’altro. Il sacrificio rimpannucciato di devianza.

Quale razza di agnelli? Quale specie di obolo fossero, mi chiedo. Concepito perché ne ricavassimo smarrimento, incredulità. Non un sacrificio immacolato. Può mai esserlo un sacrificio? L’unico immacolato, l’unico che consideriamo sul legno della Croce: è immacolato.

E gli altri, di quale caricata e deformata specie siano, non saprei. Potrebbe essere una sequela recondita, non comprensibile al buonsenso e nemmeno alla maglia larga del filisteo borghese pronto ipocritamente a rispondere all’appello conforme del tutto comprendere per non capire nondimeno, al di sopra o al disotto della crosta delle cose.

C’è uno spirito provato, uno spirito che rovina nelle crepe del tempo, nelle forre di una crisi, così che ne venga stremato. Pensiamo ad artisti come Ensor, o Munch. Come si può sopravvivere nei canyon di una tale tragicità sopraffatta, riconosciuta da pochi, come può riscattarsi l’uno da uno stato di allarme perenne in cui agire, muoversi? Nella contesa, già detto, non c’è in palio la vittoria. Mai.

Spiriti consumati dalla ricerca sfinita, la ricerca della verità.

E la mia? La mia si arrestava davanti la porta di un calvario. Le palpebre pesanti dei suoi frequentatori. Indegni, irriconoscibili, disumani.

Davanti la porta di un calvario, l’inumano è un chiavistello, dischiude l’assenso a uno splendore. Lo splendore è fissato nell’ultimo giorno. Non sappiamo quanta pazienza sia necessaria, quante letture o lacrime versate, quanti gemiti nel mattatoio annunceranno la fine sfolgorante.

Non sappiamo quanti, rotti a ogni circostanza, potranno dirsi ancora vivi.

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La storia di un’ossessione – Sull’eterna contesa.

Cercavo la suggestione maestosa nel gesto mediocre di un tossico. Quelli che frequentavo erano sguarniti di altre risonanze, una qualche provenienza sofisticata che avrei desiderato verificare, la corrispondenza con i libri letti. L’eleganza discreta di un’abiezione di un suonatore di jazz, che si fa di eroina, ad esempio, ma sono gli anni Trenta, il personaggio non è un figuro anonimo e proletario, è la voce di un romanzo di Evan Hunter. O ancora, gli eroinomani degli anni ’80, con la fissa dei viaggi in India. I ricetta del Giambe a Milano. Le casacche di iuta. Gli scrittori lisergici, un dovere morale e deleterio, un codice di accesso, conoscere almeno un paio di versi di Ginsberg. Professare una certa devozione al guru di una oscurità interdetta e capovolta come Burroughs. Una sinistra propensione al pensiero, scuse, balle da cui attingere, mentre si rimedia il quartino, disposti a qualsiasi cosa, a vendersi la madre, il cuore di un amico. Qualsiasi cosa. La bambina che leggeva il diario di Christiane Felscherinow preparava i suoi purgatori. Radunava la moltiplicazione degli errori, altrui, enormi, in seno a una ragione inesplicabile, lavarli, fino alla remissione immacolata. Scoprire l’errore per consolarlo. Stanarlo. Quel che in fondo moveva la mia precoce vocazione era l’ostinazione a una verità, persino allora. Scoscendere nelle profondità di una malinconia, preferire chiamarla malinconia, piuttosto che liquidarla come una compulsione al vizio. Cosa poteva significare, l’oltre di quel che leggevo? Il flash che sale al cervello, boom. Le onde dell’oceano, ma sono calde e frementi, si sollevano. Il flash. Un’esplosione di silenzio e ardori mistici. Forse, chi lo sa. Quel desiderio lì, la trascendenza, il bisogno immanente di infinito, di un amore senza argini, di un silenzio riparatore. Mi sono procurata da me il dispiacere, ho allevato con dedizione un destino di disamore. Ho nutrito ogni mostro incontrato per via, erano solo mostri, traduzione di devianze, la somma di guasti al sistema, non sono che pezzi di carne inceppati nello svolgimento biologico di una natura altrimenti ordinata.

Il destino dell’infelicità si congratula. Una vita sospesa a indagare il quesito immane, orlato di appelli taciti, una grazia muta al fianco, quasi a voler suggerire una misericordia, tanto sconosciuta eppure così bruciante. E tutto questo si svolgeva perché non lo realizzassi del tutto. Gli anni in cui ho consumato la mia giovinezza, gli anni che furono sommamente tormento e solitudine, non annunciarono che l’esito prolisso e uguale dell’eterna contesa. Sul bene e il male non mi sono mai interrogata, credo però che la faccenda si concentrasse sulla perseveranza, sulla perseveranza aggiustata finanche agli ultimi giorni e contarli questi ultimi giorni, talvolta con un desiderio altissimo di paradiso. O al più di un sonno, riparatore quanto il silenzio. L’eco della Misericordia sarà il silenzio riparatore.

Il desiderio smaniato di arrivare al punto, un fulcro, il mallo tenero e reietto al fondo delle cose, le deformazioni deposte nel buio di tutti gli abissi, raggiungerle, memore di nulla e insieme seguita da circostanze eterne, un fatto prestabilito. Direi anzitempo. Anzitempo comunque. Anzitempo alla stregua del monito sopra cieli antichi, il tuono imperioso che sovrasta d’un tratto e illumina d’un tratto i profili, una luce improvvida che scatena sulla vita ignara.

Noi uomini lo chiamiamo destino.

Se fossimo uniti nella trascendenza ne sorprenderemmo qualcosa di più, il cardine della Pentecoste. Ma la mia giovinezza ha indagato nel destino dell’infelicità esistenze piccole e brutali. Nell’apparenza mai all’altezza di un segreto sublime, un patto non circostanziato con tutti i cieli da superare.

La sorte forniva campioni di miserabile debolezza. Negletti senza gloria. Scorrevano sul rullo, uguali e medesimi. L’Ecce Homo di Rouault.

Il mondo della mia giovinezza era un terrore. Potrei dire: tutta colpa di Christiane Felscherinow. È stata una lunga notte. L’estesa notte priva di consolazione. La notte che non finiva nell’albeggiare liberatorio. Confidenza e pazienza. Confidente abbandono.

O anche: non temere.

Quante volte nella Bibbia è contenuta l’esortazione evangelica: non temere. Quante volte? La bambina risorge quando il Cristo le apre gli occhi, come al cieco, come all’amico Lazzaro.

Talità Kum.

“Fanciulla, io ti dico: alzati”.

Talità kum.

Così è andata. E mi sono alzata, ma alla fine dei sette anni biblici, sette anni di carestia, la quaresima senza orizzonte, l’avvoltoio sulla rocca lontana, l’unica vedetta. La quaresima. Pensando non all’alba, non al giorno del Risorto che tutto riscatta.

Non chiedevo: Padre, quando riscatti me? Anche me.

E la colpa e la tristezza secolare, penso ad alcune tele di Soutine o di Segall, riassumevano una innocenza fragile che investiva ciascuno. Non era un vizio dolersi allora? Nei miserabili ingenerava la repulsione e nello stesso tempo consegnava brani di perdonanze, predisposte, non necessariamente comunicate. Al contrario, la loro recondita prestanza, la fermezza con cui avrebbero accompagnato ogni destino, può darsi, ne era il sovrappiù a suggello. Una convalida perché ogni fatto, accidenti, sia, sia stato, secondo la Sua Volontà.

L’equivalente appassionato in fondo dell’evangelico Talità Kum, siamo noi ancora desti, qualcuno degli scabri, come l’Ecce Homo di Rouault, fulgidi e risorti, l’avello scoperchiato.

Siamo ancora vivi, dopotutto.

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La storia di un’ossessione – L’improprio

I giorni della Quaresima finivano sempre in aprile. Ero una giovinetta. E sarei stata anche molto graziosa se non fossi finita in certi brutti giri. Io rimanevo intatta, era come se d’intorno non risuonasse il Creato nella bellezza e nella giustizia che il verde della mia età meritava, sissignore. Non conoscevo l’amore in alcuna forma. Conoscevo la dimenticanza, la restituzione di un fatto accidentale, la mia venuta al mondo, la mia ombra, fuggevole e incapace di procurare attenzione, motivarla. Quindi più che su Christiane, il mio sguardo declinava nel chiaroscuro di anfratti, rovine, baracche, stazioni, bassorilievi con profondità orrorifiche, dove a guardar bene incessante replicava la domanda, che era l’amore e solo l’amore a suscitare. Ed è esattamente nell’improprio che io dimoravo con altri, fuoriusciti.

Avevo diciassette anni. Il mio corpo non aveva rotondità, soltanto angoli. Ero involuta, nascosta in una penombra, un vivere smorto, dopo aver creduto di aver visto abbastanza. La mania di voler salvare. Ogni mattina al Sert. Non era un posto per me. Era il pellegrinaggio forzato dell’eroinomane, mancato suicida. Gli incubi tornano ancora. Lo stanzone poco illuminato. Individui dall’età indefinibile, segnati nel volto butterato. Cicatrici su una guancia, mani deformate da operai, le vene sollevate, dure, spezzate. Le piste, le chiamano. Aspettavano il metadone. Anche il mancato suicida. Scuro in volto. Un legno marcio. Non era meglio che crepasse con il suo grammo di eroina? Non era meglio?

E invece dovevo rimediarvi. E la mia innocenza e la mia vita accidenti. Non è una sventura aver letto il diario di una ragazzina che batteva negli slummy di una stazione? Potevo chiudere sull’ultima pagina la questione con un sussurro: è già tutto finito. La mia Quaresima dura una manciata di anni. Si esplica terribilmente in aprile. Avevo sempre freddo. Aprile è un mese gelido. Le mie gambe magrissime erano una ragione della vergogna, una delle tante. Qualcosa di malato mi abitava, il tedio di quei morti. Cioè di questa morte morale non vibrava alcuna risonanza, alcuna nobiltà. Era una visione statica, senza retrospezione, non nutriva la desolazione di speranze sovrumane, compassione, sentimenti buoni un dì da ricondurre nel recinto da cui erano fuggiti. Le altre ragazze erano vive, più o meno, di quelle vivide gaiezze intorpidite dalla sciocca mondanità o vanità. Bisognava esser belle. Io non lo ero più. E forti. Esser forti era una fantasticheria ormai, un piano sbalzato, la cronologia rovesciata, io vecchissima o mai nata. Non riuscivo a tornare.

Anche per salvare il mondo, bisognava esser belle. Il suicida mancato ad aprile mi abbandonava ai miei pianti, alle crisi rabbiose, attraverso cui si lamentava la bambina, la neonata deposta nella culla, all’angolo di una stanza. Il vagito solitario incontrando la luce di una sala di ospedale. Una luce fasulla, come la luce di un obitorio. Una camera mortuaria accecata da neon brillanti.

E’ il termine delle cose che mi accadono. La disperazione delle antinomie. E non capire mai veramente. Non capire.

Ad aprile avevo sempre freddo. Indossavo straccetti primaverili, mai all’altezza dei capi indossati dalle coetanee, erano molto presenti a se stesse, imbrattate di fondo tinta opaco e di orribili profumi del noto stilista, così simili ad un effluvio di tombino. Una vita di cose tangibili è una vita disperata. Ma le giovanette coetanee procedevano ottusamente in un bassissimo viatico e ogni cosa aggradava. Non urgeva in loro l’assenza, non il lamento che pareva raggiungermi da gravità tristissime e inesplorate, nella forma di uno spirito contrito perennemente. E tuttavia non riuscivo perciò a scorgerne la natura, imprendibile, ricevendo soltanto l’esito del sospetto. Il sospetto che ci fosse altro, oggi la chiamerei visione.

Il mondo fitto di costumanze borghesi e ipocrisie civili, non so spiegarmi meglio, condannava all’isolamento qualsiasi elemento sfalsato dalla bolla empirica. Ero fin troppo magra, intristita nel pallore insano. Ero dispiaciuta. Ero delusa. Dall’ignoranza, in special modo.

In fondo, una volontà atipica e snob. Puoi mai salvare il mondo, detestandolo?

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La storia di un’ossessione – L’avello.

Christiane nel suo avello di Gropiusstadt mi insegnava nuove forme di estraniazione. Forme di gelido nichilismo, con ragioni ancestrali, e tuttavia acerbe. La periferia di Christiane era il mio medesimo accesso remoto alle cose, alle definizioni ultime e al loro destino. Cos’era il destino di una povertà, una borgata, se non un esergo illividito su cui piazzare ognuno personalissime lagnanze? Uomini dilaniati a mezzo di un contrappasso, rileggiamo la sostanza del vivere, badili di letteratura al macero, non hanno spiegato abbastanza. La separazione immonda tra una moltitudine di qua e di là. La moltitudine dei perduti, dei minimi, dei balordi, stanno al di qua. Crudelissimo espressionismo, dentro un unguento fetido detto lotta di classe, rimarginiamo disaffezioni, o altrimenti diversità. Ecco tutto. La funzione è tale di codesti uomini e donne e imberbi, avvinti al cappio di una condanna morale. Da quali anfratti sopraggiunge e perché mai? E perché mai in una tale moltitudine mi sia trovata, piuttosto di traverso, e non sapere scegliere, ed aver già scelto.

Poi, con l’età adulta, li condanni tutti, deprechi e inveisci su chi ti ha impedito le stagioni migliori, la stagione, l’unica, la giovinezza. La rivuoi indietro. Mentre durante la stessa decoravi abiezioni con splendidi merletti.

Restavi la rifiutata, sembrava che ogni circostanza ne rinverdisse la qualità. La qualità di un destino.

La parola destino è funzionale allo scrittore come le moltitudini di reietti a una periferia.

La mia memoria non ha pietà per l’eroinomane che dovevo salvare, in alternativa all’altro, quello che avrei voluto davvero. Sembrava Jeremy Irons. Indossava foulard di seta al collo. Invece l’eroinomane che dovevo salvare era proprio un tronco fradicio, intagliato nell’ignoranza. Dovevo salvare l’inguardabile, tra i due.

Sopravvissuto a un suicidio. Tra i compagni di Christiane non mi pare vi fosse un morto per suicidio. E l’overdose allora?

Ti fai un quartino, è tagliato male, o te ne fai una dose superiore, la vetta che lambisci con presunzione, non è un suicidio? Il cuore ti scoppia nel petto, il sangue sale al cervello, e un’onda caldissima inonda le vene dove scorre il veleno veloce, fremente, una pagoda nelle correnti del fiume della stoltezza.

L’eroinomane che dovevo salvare era un poveraccio, sopravvissuto a un suicidio. Scambiava il mio nome con quello della donna che aveva amato. Quando si faceva di ero gli sembrava di amarla di più.

Non credo esista spietatezza maggiore nello svolgimento di una severa ineluttabilità, non solo nel non essere amata, nel non esserlo in luogo di. Potresti avere davanti chiunque, non conta più nulla l’interlocutore, il destinatario, la tua disperazione prescinde l’individuo, si corrobora in sé. Il non amore sovraimprime desolazione. Una tempesta che imparerò a temere, e si ripresenterà. Ed è il medesimo inghippo, il parossismo, le nocche rosse strusciate sul vestito, la compulsione, l’inaccettabile conformazione di un siffatto odiosissimo lemma, destino.

Il nostro sepolcro. Dico nostro, intendendo il termine finito di una umanità che potrebbe infrangersi in egual misura in talune imperscrutabili negazioni. Nella via della negazione, ho condotto gli anni della mia vita. Vita e destino sono aberrazioni quando smettono di riguardare noi. Quando diventano spettri su cui radunare i nostri fallimenti. Parole buone per un romanzo di appendice, nemmeno intimistico.

Fu un incubo il tempo della mia stagione migliore. Dovevo sbrigarmi. Mi sembrava che fosse sempre troppo tardi.

Così l’eroinomane più o meno tornò al mondo. Mentre io piano piano mi assottigliavo, sparivo, incorporea o semplicemente ossuta. O semplicemente malata. Ragazzina con disturbo della personalità, nonché sul bordo di una inappetenza esiziale.

Avevo assunto la morte degli altri, una casacchina sgualcita, un onere modestissimo sul tergo. Nei miei pochi anni di vita avevo già visto l’errore e il giudizio assommarsi ai miei piedi.

Io non so dove andare a riposare i ricordi. Perciò.

L’eroinomane non deteneva il pallore aristocratico di una creatura del Bahnhof Zoo. Era un proletario, volgarissimo sottoborghese con presunzioni analfabete.

La periferia, i muri franati, i crepacci impervi, i cieli torvi e antichi, le malinconie delle rupi sullo strapiombo, scivolavano immote, similmente a opere incise nelle illusioni spaziali di un quadro cubista, sorprendendo il mondo di una malinconia segreta, che non doveva rivelarsi. Solo sottendere al gesto, alla pesantezza di certa luce, ai profumi violenti del mezzogiorno che rintocca ed è l’ora perpetua dell’agonia.

Ero stanchissima, e avevo pochi anni, sedici diciassette, non sono molti. Dovevo studiare Dante, indossare fiori tra i capelli, togliermi dalle labbra il rossetto gotico, il cerone dalle guance.

E studiare, come una brava bambina. Davanti a me c’era il residuo delle circostanze adeguate, davanti a me c’era un tizio che vomitava bava, perché era fatto di ero.

Dovevo studiare Dante. Mi piaceva la storia di Paolo e Francesca. Ero una sentimentale, come tutte le ragazzine. Il residuo del mondo era impregnato di solitudine, silenzi ignoranti, e un sole di metallo, malato come lo ero io allora.

Malata per il poco amore, allora volevo salvare gli altri.

Non mi sono mai vergognata tanto di un verbo.

Scoperta e dilaniata, la mia figurina oggi riscuote quanto dovuto. E non riceve che creste. Molto banalmente. L’errore dal tono elegiaco in cui si era compiaciuta per assolversi, un po’ meglio, aggiustando il buco che è sempre più discreto della toppa, meno borioso e patetico.

Non sono mai stata il nome, per qualcuno. Eppure ho osteggiato la prepotente sovranità del no, diffuso, esteso fino a oggi.

La negazione è l’eloquenza icastica. Vorrei non chiamarla memoria.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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