La rada era ammutolita, sotto il sole latteo di una primavera qualsiasi. Ne ammiravo la libertà, spersa tra le onde brevissime e irritate. Io, insomma, io sì ero un po’ il soldato morto di Brecht. Avevo dismesso tutte le battaglie. Settaria e antiborghese, potevo dirmelo, piuttosto che dibattermi, nel range di quale contesa? Io contro cosa, contro chi?
Il soldato morto. E siccome non c’erano speranze/ di pace dopo cinque primavere/il soldato tirò le conseguenze: da eroe volle morire.
Le lettere bruciano sulla pagina del mio nuovo romanzo. Lo scrivo mentre riferisco. Similmente ai disegni di Grosz, acidi dentro cui bruciare velleità e ipocrisie da benpensanti. E nel carosello li vediamo sfilare tutti, l’epa villosa del giusto borghese, marrani che imprecano, le loro irreprensibili toilettes, un ciarlare risentito, il mormorio del nuovo tempo, prossimo al battibecco o al pettegolezzo. Spetta a disordini come il mio argomentare e biforcare tutte le certezze, inneggiare a parodie del genere umano, usando le parole come un’arma, così come i disegni di Grosz. E giudico con uguale sospetto, nella tribuna morale che oggi mi è confacente. Il disgusto morale, la nudità efferata dei vizi ottimamente confezionati, ipocrisie lampanti e smascherate alla fine della battaglia del soldato morto.

La rada mutevole vibrava nel vento breve, scandiva il tempo effimero. Il tempo taceva sulla cima della rupe, alle mie spalle faticavano i negletti, la miseria, la brutalità delle cose spente, prive di speranza. Il mezzogiorno terribile, luttuoso vicendevolmente a certe volte sterminate che da qualche parte chiamano cielo.
La libertà era il fenicottero rosa che sorvolava nella solennità algida delle creature concepite perché contagiassero una perfezione delle origini, sopra le nostre preoccupazioni banali, svettavano misurate, a quote imprecise, e giù distese sconfinate di blu profondissimo, verso il celeste cristallino di alcune secche d’intorno a rocce tonde come isole, affiorate improvvisamente, in mare aperto. Eppure era tutto scostante e inavvicinabile, il mistero e la quiete, può darsi perché dimorasse in me ancora e per sempre il lutto onnicomprensivo, un lutto biblico e perenne.
La rada taceva, la mia vita si era conficcata, mi pareva, nel punto esatto in cui il male confluiva in una pietà stolta e irragionevole.
L’esistenza aspra e urlata dei negletti nutriva mostruosità da accudire in fondo, perché il purgatorio sulla terra a scanso di equivoci evitasse l’inferno altrove a nature maldestre, come la mia. La disperazione che mi abitava non era altro che il rifiuto a un monito, un compito direi, mi era stato messo accanto qualcuno, questo qualcuno non doveva morire, alla fine sarei stata liberata, della stessa libertà che ammiravo nei fenicotteri rosa e nei fringuelli sui tralicci, dai timidi piumaggi.
Una mattina di marzo, tristissimo come nemmeno aprile potrebbe contendersi il primato, ho aperto la Bibbia sulle pagine del libro di Ruth. L’Eterno ti riscatterà, serva dei Moabiti. Sotto le cui ali sei andata a rifugiarti.
E così sia.
Ecco allora disciogliersi il segreto delle cose accadute, in una tela che sgrana i dettagli. La bambina sfuggita alla mano del padre, nascosta ai piedi di una vetrinetta girevole, sfoglia il diario di una ragazzina, chiamata Christiane. Christiane Vera Felscherinow.
Vera è il diminutivo del mio nome.
Non era un’angoscia metafisica, o forse anche, l’asprezza profetica che ha sorpreso gli artisti di ogni tempo, è venuta ad annunciarmi nel cerchio della ricorsività, il giogo del dolore, il parossismo dello spirito che non riesce ad abbandonarsi, nella trincea sfinita e decisa anzitempo. Bisogna abbandonarsi. E nella tensione morale e disperante, trovarvi infine una verità. Tutto scoscende o discende dalla medesima, persino nell’abbreviazione di un nome da cui procede il destino, o uno stormo di destini. La collettività di un dazio da trasformare nel chiavistello in procinto di eternità disposte nel ganglio di ogni errore.
L’eternità slitta, rapidamente come in una corrente fluviale, nell’esattezza dei nostri fallimenti. La tela si sgrana nei dettagli, vedete? Illustra il segreto delle cose che accadono. Nel patimento si allarga un miraggio, o la prospettiva precisa, che intravede il margine di quel che è dopo, posto lì a rivelare, piuttosto che spiegare; il piumaggio di un fringuello grato al sole pallido, nel silenzio della rupe, articola un linguaggio inudibile. Dove finisce il linguaggio inudibile, dove andrà a riposare, in quale inestinguibile risposta?
Quelli fatti di ero. Non era soltanto un destino, incontrarli. Calarmi nell’infame contingenza. Appartenervi. Dipingevo il mio quadro imperituro, aggiungendo particole, di volta in volta. Tradendo la realtà, nell’alito rovente della speranza. Non so definirla ancora la speranza, non meno che la realtà.
Ricordo le giostrine delle case popolari. La ruota con le seggiole a cui agganciarsi, il trofeo in alto, il bamboccio. Il palco. I cantanti neomelodici.
Era già un destino. Uno dei tanti.
La festa del rione. I compagnetti cresciuti subito, tutti quelli fatti di ero, quelli che ho rivisto al sert le mattine in cui dovevo frequentare il liceo, ed ero già il soldato morto di Brecht.
I compagnetti finiti dentro. Tutti.
Era già un destino.
Uno dei tanti.
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