La lettera di Antonio Ricci

Gentile Veronica Tomassini,

Abbiamo letto il suo articolo pubblicato su Mowmag.it, in cui assegna alle Veline “una parte nella storia del sessismo italiano (da Lino Banfi e Striscia la notizia)”. Ci spiace, però, che alla fine sia proprio una donna a essere “sessista” nei confronti di altre donne. Ragazze che, quasi sempre ballerine professioniste, si impegnano ogni giorno in allenamenti, corsi di dizione e recitazione, facendo al meglio il loro lavoro. Certo, sono ballerine professioniste e mentre ballano non possono parlare, ma è un’impresa che non sarebbe riuscita nemmeno a Carla Fracci. Sul peso semiologico della loro presenza ha scritto pagine importanti anche Umberto Eco. Il saggio “Veline e silenzio” è contenuto nella raccolta “L’era della comunicazione”, uscita meno di un anno fa con La Nave di Teseo: una lettura che ci sentiamo di consigliarle.

Ci teniamo a ricordarle che le Veline di Striscia la notizia non sono mai state coinvolte in nessun tipo di scandalo. Quello della Velina è un ruolo. Le Veline di Striscia non usano il metodo Stanislavskij, ma sono più brechtianamente straniate e nella vita reale sono poco gne-gne, etere ed eteree. Le donne oggetto sono da cercare altrove: le consigliamo un ripasso della cinematografia degli anni ‘70. Ma anche solo di sfogliare una qualunque rivista di moda. Già nel 2011, per rispondere a “Il Corpo delle donne” di Lorella Zanardo, la redazione di Striscia realizzò “Il Corpo delle donne 2”, contro-documentario provocatorio che dimostrava l’uso strumentale del corpo delle donne da parte della stampa progressista (soprattutto del Gruppo Espresso) e ne provava la clamorosa ipocrisia. Qui il link: https://www.striscialanotizia.mediaset.it/video/il-corpo-delle-donne-2_28281.shtml

Inoltre, “Veline” non è affatto un “vezzeggiativo o diminutivo per indicare le ragazze sul bancone”. Per una maggiore comprensione dell’origine e del ruolo delle Veline di Striscia la notizia, riportiamo un passaggio del libro di Antonio Ricci “Striscia la tv” (Einaudi, 1988): «In gergo giornalistico le veline sono quei fogli di carta sottile e semitrasparente che i centri di potere inviavano ai giornali con tutte le indicazioni per tenere l’informazione sotto controllo. Lunghe ricerche etimologiche ci hanno rivelato che le prime veline non erano di carta, ma di carne: “velino” era la pergamena di vitello, nato prematuro. Così a Striscia, sia ben chiaro solo per un fatto culturale, le Veline le abbiamo ripristinate tutte in “vera pelle”, come parodia vivente dei settimanali Espresso e Panorama, che da sempre hanno utilizzato in copertina donne poco vestite o completamente nude. Per un’inchiesta su “La fame nel mondo” mettevano due modelle in costume adamitico che mangiavano una mela e per annunciare la Perestroika una donna nuda col colbacco sulla piazza Rossa. Quello del sesso in copertina è stato il primo gadget venefico, l’allegato mortifero dei settimanali italiani, il primo cedimento franoso nei riguardi della notizia».

Anche in “Me Tapiro” (Mondadori, 2017) il papà di Striscia la notizia, intervistato da Luigi Galella, aggiunge: «Striscia inizialmente durava pochi minuti. I dispacci che le vallette portavano ai conduttori furono chiamati “veline”. E le mani e il corpo che le porgevano divennero tutt’uno con quel nome. Le ragazze erano una sorta di cavallo di Troia, che introduceva la notizia seria dei pensosi commentatori della carta stampata. Il termine aveva più chiavi di lettura: ricordava le istruzioni consegnate ai giornali dal Regime, durante il fascismo, e creava un apparato danzante in un telegiornale, che fosse varietà. C’era la consapevolezza, inoltre, che con queste veline ci incartavano le notizie i più grossi settimanali d’opinione, come Espresso e Panorama. I conduttori le chiamavano proprio Espresso e Panorama, perché le copertine di quei magazine erano piene di ragazze discinte. Basta vedere i settimanali del tempo per rendersene conto (…). Forse tuttora è così. Be’, il termine non nasce certo encomiastico. Quand’ero bambino con le veline ci si incartavano i tarocchi (gli agrumi, non ancora i tarocchi dell’informazione). Decorate con immagini di donne procaci, servivano a proteggere e a non esibire gli eventuali danni alla buccia delle arance, a quei tempi molto delicate. Le veline di Regime danno invece l’idea dell’imposizione e di essere figlie della carta copiativa. Certo, le Veline hanno scatenato polemiche pretestuose… ma a noi, comunque, fa sempre comodo che si aprano i dibattiti».

Cordialmente,

L’ufficio stampa di Striscia la notizia

n.b. l’articolo contestato è questo: https://mowmag.com/attualita/e-se-le-influencer-avessero-una-parte-nella-storia-del-sessismo-italiano-da-lino-banfi-e-striscia-la-notizia

La storia di un’ossessione – L’ultima estate

Al sud, i giorni d’agosto sono l’intercolunnio tra la vita e la morte. Come se ad un certo punto il passaggio fosse la profezia ingenerata dal sole insolvente, madido di presagi e luci deliranti e lattiginose. Era la periferia. Fu la mia ultima estate da ragazza. Guardavo in tv una serie americana con Don Johnson, in piazza i tossici mi chiamavano “Gina”, la Gina di Miami Vice. Ascoltavo nelle cuffie la musica delle hit, Mina o i Roxette. Erano preludi di una giovinezza che si sarebbe interrotta o può darsi l’emancipazione di un’adolescente nella stagione gravida di promesse disattese. Le strade della periferia erano stancanti perché prive di orizzonte, e polverose; ai lati bruciavano le steppe, incostante si mostrava la campagna arida. Rovi bruni, cardi sul margine degli strapiombi, al di sotto rovesciava la gola, finiva nel mare compulsivo, denso di blu di Persia, quel blu febbricitante che non trova dimora nemmeno rifugiandosi nel più profondo, mutevole e ovattato degli abissi.

Strade senza ombra. I casermoni si impilavano nel bel mezzo della mestizia. La povertà erano gli stracci usurati che garrivano dagli abbaini con le gratelle ai lucernari. Mi chiamavano Gina perché somigliavo alla Gina di Miami Vice.

La principessa dagli occhi cerulei, diceva quel mio amico, Maurilio. E mi colpì quel cerulei, aggettivo che non avevo mai sentito pronunciare dai tossici, che non usavano parole nuove. Le parole nuove svelano mondi purpurei o virginali talvolta. Maurilio era un ragazzo distinto. Cerulei. Cercai nel dizionario. E lo disse nella sala del barbiere che era un ricovero di sbandati. Ma i professionisti lo frequentavano lo stesso, barba e capelli, grazie. Mentre le ragazze ridevano scompostamente strafatte di erba sedute sui divanetti. Il barbiere aveva l’atelier sotto i portici della piazza. Gli sbandati vomitavano bava di ero prima di entrarvi. Il tempo non aveva un utile da rimediare, non serviva a molto. Ad un’età possiamo consentire al tempo di non esercitare pressione sulle vite abbastanza urtate, lo saranno a rifletterci bene. Tirate da una parte e dall’altra.

Lessi il necrologio di Maurilio, molti anni dopo.

E pensai di nuovo a quel cerulei usato impropriamente nella sala di un barbiere, frequentato da eroinomani a rota. Si chiudeva un ciclo. La studentessa. La giovinetta. La bellezza inviolata. L’ebbrezza. Il desiderio. La vita. Tutto quel che doveva essere si arrestò di colpo. Il tossico che voleva ammazzarsi con un grammo di ero incontrò la sventurata. E oggi ancora mi dibatto. Dovevo fuggire, era un ricatto morale, un sacrificio senza virtù, non era un esercizio di pazienza, erano spire, il fuoco che non purifica. Eravamo alla fine della storia, l’ultima pagina del diario di Christiane avrebbe annunciato desolanti riproduzioni.

Non esisteva un destino colto che contemplava l’eroina. Non al sud. L’eroina li rendeva tutti uguali, volti demoniaci, mani deformate, dita gonfie, vene indurite e sollevate.

Le altre ragazze restavano ragazze, fedeli alla promessa. Esser belle e più o meno contente, un gaudio privo di attitudini, abbastanza idiota forse. Così doveva essere. Destituire l’amoralità di anni sciupati, celebrandone un rimpianto, in luogo di un conferimento: tradire la propria giovinezza sarà un debito inestinguibile. Il rimpianto perdura, è il singulto al centro dello sterno.

La mia cattività non guadagnò meriti. Fui accerchiata dalle paure o tradotte di ossessioni varie. Serragli in cui recintare spettri che di norma dovrebbero essere ritardati e nelle ere e con metodo. Spettri adunati tutti insieme, non erano requie, o una pioggia di consapevolezza; era il delta secco di improprietà e presunzione. Non mi hanno mai lasciato, fedeli meglio delle promesse disattese. Non c’è fedeltà più alta della promessa che disattende.

Non somigliava a Christiane la mia magrezza. Non era la magrezza distinta e retrospettiva di Christiane Felscherinow.

Procurava patetismo, persino ilarità. Indossavo il rossetto mirtillo, ma ero scavata di un male affatto glorioso. Il delta della solitudine. Dovevo salvare quel tale insulso, si era iniettato un grammo di robba. Poteva crepare.

L’ho fatto io, per lui. Moralmente. Spiritualmente piuttosto.

Chi te lo ha chiesto?

La mia magrezza era la forma latente dell’ostia. Non basta a confortare il rimpianto. Il rimpianto è la voragine. Il declivio che scivola tra le onde, il fiore carnoso, la stella del deserto, il fiore che non muore, ferendosi negli spuntoni e precipitando tra le rocce acuminate.

Lo chiamano fiore del deserto. Incastrato nelle edicole del terreno aspro e argilloso, o dentro le nicchie di speroni. Grotte. Ostilità.

Dimagrivo. Mentre perdevo, dimenticavo, il motivo della consolazione. Ed è il metodo nella mia vita. La vita che sottrae, che toglie, toglie ogni sorgente che somigli all’amore. O comunque alla felicità. Ma la felicità è l’amore, anche se lo patisci. Non è così?

Perdere, smarrirsi.

Al centro del dolore, all’incirca. spesso. E’ una condizione. Un metodo. Il dolore inconsutile. Un unico brano capace di rivestire per intero da parte a parte la lusinga. Ho aspettato. Ho aspetto ere. Le ere che servono per scomputare tutti gli spettri. Non volevo essere riscattata.

La trama ricucita era un brandello da trascinarsi d’appresso, la sola dote. E le gambe da stambecco, il vitino da chiudere tra pollice e police. L’irrisione dell’altro, sempre gagliardo, più forte. Il vincente che scaracchia sulle tue debolezze. Ma taluni le definiscono altezzosamente, con una certa inequivocabile noia: fragilità.

Il vuoto. Il diametro si allarga. La vita sparisce, le ragazze. La vita. La musica. I Roxette. Le sere al pub.

La liceale. I libri.

Il desiderio delle parole, un segreto che mi faceva vergognare, perché non trovava sodali. I tossici conoscevano la lingua dello sballo. Tutto qui. Non era migliore il dizionario degli zombie del Bahnhof. O della Haus der Mitte. C’è tutta una retorica che gira intorno ai poeti maledetti.

Ma a guastarsi l’esistenza, incepparla, basta molto meno. Non sono le parole. Non sono le parole che stendono un disegno, il sentiero deciso ai primordi.

Non sono le parole, malgrado lo dica, lo enunci nell’enfasi che non sa che farsene di una sconfitta. Aver letto il diario di Christiane non mi ha reso la malagrazia. Malagrazia, in dialetto.

La sventurata. C’è il ciclopico perché alla chiusa di un capitolo. Occorre emendare la risposta definitiva. Breve. Sì sì no no.

Un pomeriggio di Natale andai al cinema, la sala di proiezione nella città dei nonni, in Umbria, era alla fine del corso, appena d’appresso la libreria, la cui vetrina esponeva il caso letterario: Wir Kinder vom Bahnhof Zoo. Lo stesso anno in cui avevo letto il diario di Christiane. Andammo a vedere con i cugini un film sentimentale, adeguato all’età. La Boum. Seguiva il trailer del film tratto dal diario di Christiane, con la musica di David Bowie. Sense of Doubt. Heros.

Una teca frantumata. Sottopassaggi. Giovani dalle gambe magrissime, fatti di acido.

Iniziava così, una storia, un destino.

Destino destino. La bambina di pochi anni spalancava gli occhi, non credo si possa chiamare: meraviglia. Era un sentimento, non è stato ancora tradotto per bene, guastato, come le vite degli amici della piazza. Una deriva. Un ripiegamento verso la fallibilità. Pedante tornarvi e annuire. L’assunto ha ragione.

Il destino ha sempre ragione.

Non sono le parole che tormentano una vita, redigono un destino. La parola che lo configura, dire destino è: dettarlo. Non è farsi esperienza, sarebbe auspicabile.

Essere il pasto, l’ostia. Ma non potevo immaginare.

C’è bisogno che qualcuno te lo dica?

Come del colore dei tuoi occhi, la sfumatura?

Il verde brillante in certe ore del giorno.

Maurilio diceva: sei la principessa dagli occhi cerulei. Cerulei è un aggettivo che ho imparato ad usare. Cerulei. Da cielo.

Ma non era esattamente così. Però Maurilio mi aveva guardato sul serio. Ed è il nodo della questione.

Come l’amore o il coraggio. Nei libri leggevo che il coraggio attiene all’umano e compatibilmente a una mandria di bestie, una bestia all’infinito, che farà tutto, crederà a tutto, è l’uomo, lo dice un personaggio di un racconto di Marek Hlasko.

Il racconto si intitola: Cimiteri.

Ma è il vero punto della questione. Sì, dimmi, dunque. Quale?

C’è il ciclopico perché nella chiusa di un capitolo.

Il nodo si riferisce all’amore.

Dove tutto inizia e finisce.

L’alfa e l’omega.

Il cerchio.

L’amore.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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La storia di un’ossessione – Slang.

Conoscevi l’alfabeto dei tossici, già a nove anni. Avevi letto il diario di Christiane Felscherinow, eri stata svezzata. Bisognava da allora che si conformasse il terrore alla verità, ma la verità era di una razza diversa. Non era la verità immacolata.

Trip. Scimmia. Sbrego. Quartino. Robba. Con la doppia, detto alla maniera dei tossici del sud. Non ricordo come Christiane chiamasse l’eroina. Semplicemente, “ero”. Mi guardo allo specchio, quando vi riferisco. E devo usare la seconda persona, perché devo osservare. Devo devo devo.

Avevo un caschetto di capelli lucidissimi, bruni, temevo i giostrai, ma raccontavo ai compagni del cortile del rione popolare che ero nata in una famiglia di zingari. Non esiste la parola: zingari. Non indica un’etnia, non per i rom che ho conosciuto da adulta. Credo di amarli. Apolidi per sempre. Ma questo è un altro discorso.

Dopo aver letto il diario di Christiane, giocavo a fare la drogata, usando le matite di scuola come una spada, la siringa di insulina. I tossici del sud la chiamano “pera”. Non era la premessa di una volontà pia, era la deriva, la curiosità malata che mi abitava, cosicché non volessi salvare, ma capire. O prima ancora: imitare.

Il musicista di jazz del romanzo di Evan Hunter, “Aria chiusa”, si faceva di eroina. Farsi: nel gergo. Mi sembrava impossibile che circolasse roba ad inizio secolo. Ingenuità. Anche Billie Holiday si faceva, per questo calzava i guanti lunghissimi dentro cui nascondeva le deliziose braccia d’ebano. Le braccia ferite dalle piste. Il gergo. Le piste sono il sentiero dei buchi sulla pelle. Questa forma di sapienza avrebbe concorso al disegno finale. Il disegno finale è il destino di una donna avvinto al destino dei molti o dei pochi, e non è poi una gran differenza, giacché c’è l’identico sottile abbaglio a condurci, riservandosi l’immane non detto, la locuzione suprema soltanto alle ultime battute, sul ciglio, vi annunciavo, della meraviglia o anche detto: impronunciabile disvelamento.

Leggevo Carlo Grimaldi, i suoi sbattimenti al Ticinese, al San Gottardo. I movimenti di fumo. Il nero da Kabul.

I viaggi lisergici. L’India. Le casacche di iuta. I poeti della beat.

Pose.

Parco Ravizza. I ricetta. Le borse intrecciate. Si formava un pensiero, così. Un’idea del mondo, il mondo faceva paura. La stessa paura si misurava con l’eccitazione, di una specie ancora sconosciuta; mi paralizzava dinanzi al carrozzone dei giostrai. Eppure la medesima paura non aveva potere sulla seduzione, tra la seduzione esercitata dai giostrai e la paura, vinceva la seduzione.

Ma questo dicevo è un altro discorso.

La curiosità turbata nel tempo assumeva le forme di sentimenti prossimi, il tentativo di comprensione, che nelle vette evangeliche si chiama Misericordia. La pietà, suo simile. La compassione.

La perfettibilità dei sentimenti nascenti non coincideva con il paesaggio sgrammaticato, il disordine, la malagrazia. Malagrazia nel dialetto del sud. Come era possibile? Eppure lo era, l’inconciliabilità era ancora una porta da aprire.

Leggendo il diario di Christiane le suggestioni erano profonde, attenevano a un cielo estremamente supplice, pesante, di grafite. Il pallore nei volti degli adolescenti erano terribili invocazioni, simili a preghiere rotte dal pianto. Ma tutto si compiva nel silenzio, si strutturava tacitamente la poetica che sbandava verso la sconfitta, una apparenza mai sostenuta da ragioni da cui non ne scaturisse l’impensabile. Un miracolo. Una conversione. La porta che si apre, come un velo fragilissimo e perlaceo sollevato dal vento.

Il vento dello Spirito.

Le letture guastano l’idea del mondo, non che sia fondamentale avere un’idea del mondo, come se contasse averne di certezze di solito blande, franano dinanzi all’eternità sapete. Le letture confondono. Perdi la lucidità rispetto a quel che vedi, i volti si sommano, i connotati si inseguono fino a fondersi, un magma stupefacente, diventano personaggi letterari. Mary che si faceva di ero sembrava l’Andreina di Moravia, bella e bianca e perduta sul lungofiume. Non riesco a trovare corrispondenze con i personaggi di Hlasko. L’ubriacone che si ammazza per un abbonamento mancato. Un taglio di rasoio. Kuba impiccato ad una corda perché non smette di bere. Il medico cinico e socialista degli anni di Gomulka si auspica che qualcuno almeno lo faccia per amore prima di squartare la vescica di un alcolizzato.

E poi ci sono gli angeli terrei del Bahnhof di Berlino.

Era la preghiera laconica a sovrintendere le suggestioni future.

Detta così, puoi persino perdonare.

Non sai chi devi perdonare, tuttavia.

Inciampando ad ogni passo, i ricordi non consolano mai, non disvelano. Hanno piuttosto l’odore acre della liscivia in un condominio popolare.

Come in un racconto di Hlasko, la memoria staglia una campitura tremolante, un tremore isterico che si inerpica nel crepuscolo. La provincia è mogia, viscida direbbe un personaggio di Hlasko. E tutto sembrerebbe morte, la fine di qualcosa.

E forse lo è.

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La storia di un’ossessione – Io, signorina, ti ho amato.

Alla fine dei giorni, raggiungerò la soglia del coraggio, che è in fondo una sola ammissione. Immaginate una tela enorme, spazi smarriti, sconfinati, chiazze di colori cupi, ecco la mia ammissione: sperimentavo la capacità d’amore. Altrui, non mia. Quanto siete capaci di amarmi? Urlavo idealmente al pubblico di maliziosi cavalieri. E non c’era una platea acclamante. Il vuoto in cui precipitavo non aveva timore di essere sconfessato quand’anche dalla platea si fosse sollevato, in un commovente slancio di reni, il timido cireneo.

Io. Signorina. Io signorina ti ho amato. Nella sconsiderata tela, le chiazze brune o opache sono gettate di pennello, anime sofferenti, trafitte kandiskianamente, l’urto epigonico di una separazione alle origini, la vita materiale con la delicatezza inalterabile dello spirito. Ed è una deflagrazione, per cui diventi – può darsi – la crocerossina, o la sventurata, la folle, che vuol salvare tutti, per non patire l’ebbrezza priva di consolazione, riparare nella desolazione dell’imo, prima del baleno, della luce fulminea e breve, e credi che lì, sulla soglia, ti sia svelato qualcosa, trovi riparo l’inquietudine incoercibile, l’attitudine alle cose oltre il limite consentite, dette cose celesti, l’insieme inattingibile.

La miseria morale mi sorprese precocemente, tutta concentrata nelle gesta sgraziate di una ghenga di tossici. Perfeziono le parole, oggi, una reazione sovversiva alla brutalità che è il regesto stesso di una vita. La superbia del romantico a una arroganza marcescente, non so la borghesia, il borghese. Era la mia l’identica militanza, arruolarsi nella miseria morale, indossarla, alla stregua della vergogna, tradurla nella risposta efferata al tedio, il tedio come il borghese, una sorta di potere occulto. Mi agitavo e dibattevo forse la contesa, era inutile. L’avrei persa. Perciò oggi perfeziono le parole.

Trovo alcuni responsabili. Il diario di Christiane Felscherinow. Slogan fuori misura per una natura del tutto molto meno. Lo sguardo deraglia nell’errore altrui.

E invece era commiserazione, insofferenza, lo spregio da trattenere, per non offendere, a esser indulgenti. Un po’ come tradì l’enfasi di Baudelaire, in compagnia della prostituta, turbata dalle oscenità esposte al Louvre. “Tutti gli imbecilli della borghesia”. La prostituta si chiamava Louise Villedieu.

E di quella ipocrisia tuonante nei secoli intercettavo taluni strali. L’ipocrisia del pensiero perbene che serpeggia, millantando lucidità mirabili, in luogo di ben più abbordabili volgarità. Vi rivelo il segreto che soggiace a ogni azione, la realtà orizzontale, che non promette perfezione, ma la propone nei continui in certo qual modo abbagli, speculativi, da cui puoi rimediare un pensiero, accusando tutta la claque che ha ingenerato cultura, tradizione, persino l’arte, nel giro supremo, indagando fino a un passetto prima la cosiddetta verità.

E nelle pieghe, a tratti, si mostrano velocemente i dettagli, dettagli verso l’eternità. In partenza verso qualcosa. Lo spiraglio che indica con intermittenze sempre più brevi la via, ma non declina il nome della posta in gioco, né tantomeno della stazione d’arrivo.

Desumo questo procedimento, a distanza di molti anni, quando sei già nella condizione per archiviare il resoconto di varie molteplici lusinghe, divenute banalità, una volta scolorate dal tempo trascorso.

Fatti empirici, spesso insufficienze che concorrono a non modificare le intenzioni del disegno iniziale, perpetuo, il progetto misterioso. La salvezza.

Torno a scontrarmi con la parola, il chiavistello, all’inizio e alla fine, il cerchio.

L’alfa e l’omega.

I giorni grigi di un inverno. Allora trepidavo. Pensavo di esser libera, uno stato d’animo essenzialmente, ma che aveva urgenza di un paesaggio altrettanto scabro e affatto armonioso; aver gustato la libertà, la restituzione onesta di quanto patito benché anticipatamente, patire la trascuratezza per raggiungere l’ambizione, ovvero la libertà. La libertà aveva a che fare con la perdizione, con l’infrangimento delle regole o delle buone maniere. La posa trapassata, a guardare adesso con comprensione, il dissidio, l’ostilità con il confacente, come direbbe De André: l’ordine costituito. Ed era la libertà. Eppure seguente all’amore.

La tensione però mi avrebbe condotto all’errore. Ma era un passaggio. L’aspirante suicida. L’eroinomane. Un grammo di roba per passare all’altro mondo. Ma si è salvato. Non era epico. Era un miserabile. Un tronco marcio. Il progetto di salvezza avrebbe contemplato la noia usurante, la mortificazione. Dunque sentimenti o compulsioni frontaliere: l’alto e il basso insieme.

Ci fu un inverno però in cui fui libera, in cui realizzai appena il privilegio di una età. In cui fui una ragazza, in cui la leggerezza poteva permettersi struggimenti melò o immodesti come taluni fuochi, vacui.

Sembra il necrologio di una insensatezza, riepilogo la sola stagione che ha investito la mia vita, condizionandone il resto. Il resto ripassato a ammendare la vuotezza, l’insulsaggine, il disprezzo per la medietà che mi assale, il contraccolpo di una marea. L’onda prodiere che non avverte la spelonca del frangiflutto, delle insidie delle correnti a mulinello.

Siamo arrivati alla fine. Di già?

Era tutto questo?

Era soltanto questo?

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La storia di un’ossessione – Una mitezza sconosciuta.

Dicembre era incolore e freddo. Il freddo anomalo per una città del meridione. Ricordo un pallore indossato alla maniera di uno stile, persino una poetica. Vestivo di nero, ma ero all’incirca felice, prima di incontrare il tossico. Volevo che crepasse. Doveva crepare lui. La sua ignoranza indigesta al mondo. Ricordo, procedendo a tentoni, con in testa la musica di Tracy Chapman. Le strade erano grigie e una certa ebbrezza che sentivo agitarsi, con un battito accelerato, una baldanza, concorreva al picco di adrenalina guardando alle cose che potevano accadere.

Non sarebbero mai accadute. Il destino si conforma mentre opera la contraffazione di un sentimento, una passione, svolta abilmente, mi impedisce d’amare.

Amare così l’incanto sbagliato, quello che scolora, che si traduce in una camera di tortura, espiare nel nome di nessun singulto. Qual è il senso? Lo invoco oggi. Invoca il suo nome, dinanzi al quale si piega ogni ginocchio.

Il Nome al di sopra di ogni nome.

Le strade erano grigie. Era inverno. Uno in mezzo alla ripetizione di una stagione, replicata fintanto si chiami ancora giovinezza, prima della fine, dunque era l’ultimo inverno. A un’ora del pomeriggio, sostavo sotto l’arco della piazza, la penombra era già buio pesto, la sera quando è funesta, e le foglie turgide delle magnolie vibrano come tormentando capocchie di cristallo, sgretolarsi, vederle sgretolarsi, non è altro che una reiterazione, il vento di tramontana tra i rami. Una vedovanza che si annuncia, la mia, esatta, la solitudine reiterata e funerea.

L’amore mi sfuggiva, era la tentazione attraverso cui perfezionare le virtù, la pazienza, lo stoicismo. Camere di tortura.

Sotto l’arco della piazza, c’era un solo fanale ad illuminarmi, ero una piccola stella, possiamo definirle fantasie di una giovinetta. Un signore distinto passava da lì, sapendo di trovarmi. Ogni pomeriggio. Un signore facoltoso. Potevo avere qualsiasi cosa, davvero, essere una stella.

Saperci fare, come alcune coetanee, i sogni si adeguavano, le ambizioni, il futuro. Diventare un’entraîneuse. Far bere i clienti, in uno squallido locale aperto fino all’alba. Di una tale ambizione non sentirne nemmeno l’ambivalenza con una sottaciuta vocazione all’immacolatezza, si poteva esser contente di una tale piccolezza morale, una specie di controcanto al molto poco che mi aveva allattato, l’aborto.

L’amore era un giovane di nome Massimo, ma il destino doveva conformarsi con l’inetto, con l’idiota ancor meglio. Non c’è stato altro, tutto sommato, fino ad oggi, che uno stornare di passioni verso un lido discreto, con aspettative modiche, dove arrotare il retrogusto di un espediente, per vivere, in definitiva; non era altro la vita, in quella stagione perfetta, che la perfetta esecuzione della vita stessa? Vivere per vivere. O parteciparvi, come a una epifania, sulla soglia dell’altro, e l’altro detiene ancora la prerogativa dell’avvenire. Dell’altro non hai paura.

E nemmeno dell’amore. Non ti guardi le spalle. E quello è l’amore.

Ma non lo conoscevo. Può darsi che il diario di Christiane Felscherinow non fosse soltanto l’esecuzione a priori di un fatto, un modo deragliato di arrendersi al mondo. Sissignore, arrendersi, benché avessi soltanto pochi anni. Non mi fu annunciato l’estremo compito, tergere l’empio, ovunque e comunque, offrirsi a strali di ferocia e traghettarla verso una mitezza altrettanto sconosciuta e sempiterna. Forse era già il grande vuoto dentro cui abbandonarsi, inghiottita, la cuspide della stoltezza ibrida che vuole salvare tout compris; la mandibola abnorme del mondo la triturerà, il sacrificio ignaro.

Il sacrificio si connotava di pennellate indaco, o incolore. O grigie. Eccole le strade, alle tre del pomeriggio, è inverno, forse l’unico. Ho una strana contentezza, in realtà è l’ebbrezza rovesciata, intorno i compagni sono eroinomani, e muoiono di overdose, e morire sembra assumi uno spirito epocale o semplicemente epico.

Non puoi che morire su una panchina, dentro un eschimo usurato. Riscatti la tua provincia di merda. Hai una spada conficcata sull’avambraccio.

Le vene si sollevano, poi franano, crepitano, sono dure, sono morte.

Avevo diciassette anni, i capelli lunghi, ricci, spessi. Tingevo le labbra con un rossetto color mirtillo, come Christiane negli slummy di Berlino. O nella Kurfustendamme. O forse stava battendo? Il resoconto di un quartino, da iniettarsi in un cesso pubblico del Bahnhof Zoo.

I capelli le si appiccicavano sulle guance.

Pioveva. A Berlino, piove sempre. Ma anche dicembre in una città del sud annuncia nuvole brevi, piogge malinconiche. Così cercavo Christiane. Cercavo la verità.

C’era qualcosa da sorprendere.

L’avrei trovata.

La verità.

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La storia di un’ossessione – Le ragazze.

Ci sono alcuni guizzi di luce sulla baia che rendono il fare del giorno vago, indeciso se pronunciarsi sul riassunto sbrigativo di quel che diventò il futuro, dopo i sette anni biblici. Il tossico, la periferia ingrigita e gonfia, che non avrebbe comparato mai, equamente, i tetti di Groupiusstadt con una brevità in certo qual senso capace di evocare suggestioni vere, la storia persino – mi riferisco al silenzio algido degli androni bui, infiniti,- e la violenza intorpidita dei luoghi in cui dimorava il mio destino. La sollecitudine delle agavi lanciate lungo la traiettoria di un vento di ponente, piegate con fatica, stanche, ansanti. La ferrovia interrompeva la bruma pesante, o il sole che talvolta scolorava e impigriva ogni buona intenzione, con il desiderio di un dopo, l’altrove galvanizzato, qualcosa di migliore.

Sedevo sull’orlo della disperazione, la postura dovuta. Disperarmi per il ribrezzo ingenerato dal mondo meschino, figuri elettrizzati sotto i raggi lisergici di mezzogiorno. Dovevo compiere un giro, chiuderlo, bordeggiare insulsità pensando lo fossero e non dettagli decisivi perché il disegno si realizzasse, molto alla fine. Era un disegno di salvezza. Ero arrivata alla fine, in fondo, così mi sembrava, alla fine di tutte le cose. Ed ero già morta. Avevo permesso che la mia fragilità si prestasse a essere consunta, oggi mi dico al pari di un’ostia. Era il progetto di salvezza. Lasciarmi attraversare dall’errore altrui, trovare un neologismo per definirlo. L’errore: è un luogo leggendario e inerpicante, ostile dapprincipio, ivi dimorano tutte le misericordie.

Guardavo le ragazze e le invidiavo, perché lo erano ancora e io no. Nella rupe del mai, del “sempre troppo tardi”. Come se avessi percorso mitologie, non soltanto ere. Di più, più stanca dell’agave tesa sotto la sferza gentile di un vento di ponente.

Quello stesso vento trasbordava nel cargo il profumo di ciclamino. Bianco e mansueto, nei cespi incontrati nella campagna crudele, nelle zolle sollevate incontrate da rocce, non c’era gentilezza, e non si tentava che quella, sedurne una qualche forma esemplare. Le ragazze erano sicure, le spalle diritte e lo sguardo distante, pose giuste per la stagione della vanità. Su di me rovesciava la penombra del rimpianto. Guadagnavo solitudini, le raccoglievo o le calpestavo, ma erano testarde come i fiori di campo, quando nascono e resistono nell’imprevedibilità che piuttosto chiamerei: inopportunità.

La gentilezza abita lo scosceso, l’incerto, l’ignobile. Provai una tale avventurosa contaminazione. E fu una sconfitta definitiva, rimediai scorte di disgusto. L’uomo negletto è disprezzabile, malgrado evangelicamente stia pronunciando un abominio.

Come amare lo storpio, l’infame? Il negletto ciancicante una brutalità priva di tentazione. Fine a se stessa, morta in se, orizzontale. Deprecabile.

Oggi mi raggiungono le medesime luci spaventose, l’artificio di una lamina che mi raggiunge dalla banalità, il neon di una cucina al primo piano, l’interno da sottoproletari, il bagliore fasullo di un lampione.

Sono terrori, ancora oggi. Il vociare risentito, dietro le porte erose dalle intemperie, rintronava la memoria dell’insipienza a un passo dalla villania. Il tossico era un perdente e lo sarebbe rimasto. In cuor suo, può darsi, credesse di avere una chance. Dov’era l’immensa pietà che avrebbe assolto il difforme senza pregi? Il difforme come un freak circense.

In quale sentiero tortuoso arrischiavo i giorni, quei giorni, che dovevano essere la grazia, il meglio che abbiamo stasera. Non ricordavo perché dovessi immolarmi ancora, a quale precipizio? Perché? Non fregava ad alcuno la mia vita, che la scampassi o meno, con lo stoicismo di un soldato che ha smarrito il coraggio per il fronte o peggio la strada verso la trincea, restando inane in una retrovia scognita.

Le solitudini molteplici sono rimaste fisse, pedanti. Non mi sono liberata da costoro, dai tossici, dal diario di Christiane, dalle molteplici solitudini. Se tornano ad interrogarmi non hanno voce, non sanno dirmi.

La domanda è fredda, vaga, con meticolosità, cosicché non possiamo esaudirla. Come una preghiera o forse una promessa.

Il perché tonante evoca inquietudini comuni (lo ammetto sì, non è uno strazio conoscibile eppure non è un privilegio per pochi, al contrario) e gira intorno simile al mulinello agitato da segreti ancestrali.

Talvolta gli incubi sono molto simili al delirio di un personaggio di Henry Miller, la sua stessa voce narrante. Stanze vuote che si chiudono nelle ombre di una pensione sul boulevard, la peggiore. Gli incubi rigettano meccanicamente gli spettri di un tempo, funesti nella stolidità. Individui dilavati da una coscienza terrea, mi sembra di vigilare stanchissima, come allora. Evito alcune strade. Evito semplicemente. Ogni cosa mi piomba addosso con le proiezioni di un barometro che non sbaglia mia, non muta, registra lo sconforto, ha un motivo, l’ho nutrito, ma è una volontà, un dolo compartecipato?

O non è invece il diario di Christiane Felscherinow ad aver montato una vita per intero, un destino, una coperta lacera, piena di buchi. Ogni buco è un inciampo.

L’inciampo è la salvezza.

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La storia di un’ossessione – Una verità.

Soltanto adesso la compagine riemerge, da un apparente caos, da avvenimenti che in un’origine intransigente scivolavano nel turbinio incomprensibile, acerrimo e stanco. Il profilo di un disegno, così in obbrobrio, eppure trasformato, dai fatti circostanti e postumi, diventa un ologramma delicatissimo, in cui più o meno si rischia di perdonare tutti. Malgrado fosse comunque una qualche specie di amore a muovere gli errori. Succede di solito che sia l’errore l’amore larvato di intenzioni fatali, destinate a fallire su se stesse. Non volevo salvare il mondo, non ero la sventurata, la crocerossina ignara della strategia adulta o smargiassa in dote a ogni volgarità. Ero afflitta piuttosto da consapevolezze ovviamente egoriferite, ruminavano identiche obiezioni. Rivendicavano la sola sostanza, l’io insufficiente.

L’eroinomane sopravvissuto al tentato suicidio sarà sempre il parametro della condizione umana: l’infelicità. La crudeltà finanche nei confronti del debole, del pusillanime che detesterà, l’ultima vertebra aguzza è l’uncino sul collo, è il rimpallo denudato di reciprocità filistee. Pare una questione, la domanda che interroga: quanto pusillanime può esserlo un pusillanime? Non riesce a crepare, con un grammo di ero.

La sventura e la sventurata che decide di sollevarlo dalla sua mente intirizzita, poco incline al ragionamento, alla generosità, alla contemplazione, la bellezza oggettiva traduce l’inconciliabilità con il resto, l’umano vituperato da una viltà congenita, il poveraccio senza enfasi retorica a consolarlo. Mai come in quel tempo di esodo biblico, ho evitato di sostare nel nembo metafisico che attiene a noi prima di tutto: lo dicono anima. Anima. Nei romanzi di certi scrittori bohemien ne senti l’orticaria infondere d’intorno, incapace di trattenere bestialità in sua sostituzione. Tipo l’esclamazione di un personaggio di Henry Miller ad esempio. Ed è Miller stesso ad affrontare la promessa, sembrerebbe che già solo pronunciarla, l’anima, sia destinata a far tacere, o costringere a evidenze inadeguate, sghignazzare, come Miller nelle sue oscenità letterarie, sublimi e tragiche, sublimi come un enteroclisma, consapevoli alla stessa maniera.

L’anima. Ogni artista ne avrebbe cercata una con cui conciare il proprio smarrimento. Non so, penso a Paul Klee chino su un tavolo di lavoro Biedermeier a orlare un disegno gentile da fanciulla, decorazioni ad uncinetto. L’anima inappropriata. O non lo è, possiamo convenire.

Allora cercavo la verità. Infilarsi in una questione. L’eroina. Cercare la verità. Per questo ho aperto le pagine di quel diario. Era il diario di Christiane Felscherinow. Avevo nove anni. Wir Kinder vom Bahnhof Zoo. La verità palpitante, un fuoco. Bruciava tra le mie piccole mani che non esitavano. Non avevano paura di schiuderla. La verità accecava ma si nascondeva ancora in fatti empirici, ciechi, deprimenti. La verità tremava dietro il grigiore metallico dei quartieri dormitorio, sotto il cielo di Berlino. Non articolava gli angeli di Wenders. Non ne ho mai sorpresi. Come se conoscessi Berlino, o la porta di Brandeburgo.

Non la conoscevo. Eppure avevo già visto. Christiane battere in stazione. Il pederasta, l’attesa, le sue brache slabbrate, il segno fallico umiliante. I capelli umidi sul volto. I jeans stretti alle gambe sottili. Le scarpe da donna. O il muffin una mattina di pioggia, Babsy dentro la vasca, nuda e muliebre. Il cliente. Le braccia sottili. L’ero che scorre, nasce da lapilli tonanti, il flash incandescente, il silenzio desiderato. L’acqua caldissima. La pioggia oltre i vetri del misero interno. Linoleum sul pavimento. Una verità. Ho trascorso molti anni a inseguirla, perché si dichiarasse finalmente. Il colore dei capelli di Christiane che batteva in stazione.

Il succo di ciliegia.

Il trip.

Christiane che dà di stomaco, dopo la notte al Sound, con l’amica Stella.

Stella poi la rividi, in un documentario, quando ero già adulta e sarebbe stato giusto smettere di cercare ancora, una verità. Stella era viva. Orribilmente. E c’era Groupiusstadt sullo sfondo.

A me sembrava di tornare al mezzogiorno di una periferia del sud e avrei voluto solo morire, non come il tossico che ha tentato di ammazzarsi e non c’è riuscito, il pusillanime. Sarebbe morto e basta senza finire in complicate disquisizioni di ordine etico- filosofico.

La fortuna di crepare privo dell’addobbo di uno straccio di anima o detenerne una alla stregua di un pagliericcio.

Non mi abbandona. Quel tipo di morte. Non è una morte sostenuta dall’esito esiziale di una vita. E’ una forma di silenzio, aggiungo ignorante. Ignorante sia la coroncina ad ogni capoverso, perché indichi le soste del tragitto, la stanchezza del carovaniere. E’ ancora silenzio. Tace nelle urla del rione, che esiste, è lì a ricordarmi che nessun fenicottero rosa sulla cima della rupe sarà il mio conforto, il tratto di acquerello lieve sopra acqueforti acide. L’inutile incedere dell’armonia sulla brutalità dell’evidenza. Come puoi perdonare tutti?

Tutti, persino le tende grezze dell’ultimo piano del casermone, l’abbaino pencolante, i cani che latrano nel box di metallo.

Desiderare la morte, e invece vivere. O come il Mafarka futurista, ordire una fine, una qualsiasi, il corpo di Magal, sognare di sparire come un uccello in cielo, il mostro notturno, o una lumaca gigantesca sprofondare nell’oblio architettato anzitempo ad una resa. Sparire.

Giacché la memoria, sappiatelo, è un movimento paranoico di sottrazione. A chiamarla sopravvivenza, se ne inverte la stoffa robusta e dalle ali palmate. Il terrore e la confidenza che ivi si mostra, rinchiusa dentro stanze, sono camere della tortura.

E li chiamate ricordi. Con quale coraggio.

C’era l’identico fenicottero rosa sopra la rocca. Il mare fremeva di una fretta ipnotica e azzurra. Avrei dovuto perdonare tutti.

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La storia di un’ossessione – Una stagione.

Il tempo della giovinezza. Una stagione. Doveva essere un rifiorire di speranze per l’appunto. Fiori che dormono sotto la neve, che non aspettano altro che il disgelo, le estese praterie o i colli o le radure tremanti di qualche fremito appena adunco su un risveglio. Così devono mostrarsi le ragazze. Non sciupate sulla vita o quel che appare, tanto grossolana, spersa nei chiassi di una periferia, ignobile per magrezza di prospettiva e un abuso di volgarità non necessariamente conciliabili con il parametro della miseria morale. Le ragazze della periferia erano precoci, come le compagne di scuola nel rione delle case popolari. Poi avvizzivano subito. Ma intanto esplodevano, nel mentre che occorreva, splendide corolle turgide, al cui confronto sarei apparsa come un crisantemo, pallida e smagrita, non guardata.

La periferia allora era l’orizzonte bassissimo a cui aspirare. Negli anni a seguire, non era eccitante averlo superato in delusione e frettolosità, da scoprirlo scagionato da ogni illusione. Non c’era nulla di eccitante nemmeno nel riconoscersi finalmente una ragazza, una che d’un tratto aveva rivelato un volto, una distinzione, una grazia. E non se ne faceva un granché, eppure. La grazia era supina o si nutriva, non saprei dire, al mistero di una oppressione che doveva essere, nel segreto di una salvezza, rivelata più avanti. Bisognava che si offrisse l’agnello, il piccolo, l’emaciato. Ma si offrisse.

Non è un fatto peculiare, vorrei aggiungere. E’ possibile che ad ognuno sia dato il medesimo destino, che chiameremo di volta in volta con il patronimico di un accidenti, l’abiura della sostanza definitiva della nostra vita. Che sia chiaro, la scelta e il libero arbitrio, non so in quale preponderanza possa pesare l’una sull’altra.

Ero una liceale. Il fiore sotto la neve sembrava fosse molto bello, dunque ero il fiore dopo il disgelo. Ma è durato davvero poco. Ero ancora una liceale quando si preparava la via verso l’altare e il piccolo sacrificio.

Le ragazze erano ragazze. Occupate da futilità. Levigate da ceroni color fogna che andavano tanto di moda. La domenica sera bisognava andare in pizzeria, il protocollo provinciale della mondanità. Pizze gommose con un orribile impasto e il biancore ingrigito di un formaggio di terz’ordine sopra a rendere ogni dettaglio abbastanza deprimente. Nel parterre di farse indossate male, io ero quella con la marsina fuori posto. Ero già la Bess de Le onde del destino, ma il miracolo si sarebbe aperto simile alla corolla che esplode dimenticando le buone maniere di un virgulto solo successivamente.

Tuttavia con il tossico, l’eroinomane, non sarebbe accaduto. Era un senso di colpa da trascinare. Privo di ebbrezza, quel genere di morte dovevo necessariamente geometrizzarla: cos’era questa morte?

Esiste davvero il desiderio?

Esiste l’amore? Come lo avevo sognato. Come lo sognano le ragazze. La mia tela impoveriva, smagriva nei colori che un tempo erano una celebrazione ridondante dell’azzurro, per tradurre uno sguardo intimo sul mondo, lasciarlo parlare nelle variegate possibilità di seduzioni, ancorché innocentissime. Ma la stagione della giovinezza era quella del sacrificio. Il mondo. Dovevo scoperchiarlo, invece che soverchiarlo nell’entusiasmo mite della creatura incredula o neofita, smessa nell’acquerello sgranato. Finché il mondo diventa non il vaso di Pandora, piuttosto l’estesa impurità, l’uomo un affare grottesco e malmesso, equiparabile alla replica del miserabile eroinomane. Incapace di ispirarmi pietà, se non nella coniugazione avvilita di un tizio con una vertebra aguzza, incurvato e bestiale. La bestialità senza chance, difficile da perdonare.

Dovrei perdonarla, in un salto ascetico che a volerlo adesso significherebbe peccare di superbia, tirare troppo la fune, ma dalla parte sbagliata.

Le liceali, la domenica sera, frequentavano la pizzeria, era l’ultimo anno. Le invidiavo perché erano libere, secondo i canoni adottati perlomeno. La mia cattività era crudele, non ne ricordavo la ragione. Detestavo tutto quel che era diventata la mia vita, un lungo sonno, un terrore protratto e obnubilato, da cui non riuscivo a venir fuori.

La pizzeria era un dammuso. Pochi tavoli, frequentatori eletti, animaletti della notte, giovinette con ceroni color fogna spalmato sul viso.

Le liceali un tempo erano le mie amiche.

Il sacrificio avrebbe previsto la dispensa con fine pena mai dalla socialità, dall’allegria, dalla vita stessa, nel registro più frivolo che ci si possa augurare; e l’abbandono corale. Non potevo rientrare nel giro, come al gioco dell’oca, tornavo a uno start sconosciuto, diventò in fondo l’unico interlocutore da allora: lo start sconosciuto. Ferma a un lento girare d’occhi, il tempo medesimo finiva in monotone orbite di perlustrazione il cui diametro di azione non superava il mio rimpianto.

L’estranea. Disincarnata. Troppo pallida e smagrita per essere parte di qualcosa, benché lo desiderassi, come si può desiderare l’impenetrabile, con aspettative elevate, nondimeno allo stato delle cose verosimile: molto meno, di gran lunga molto meno.

Il cielo sprofondava nella vertigine delle acque agitate, ed è questo a rendermi generosamente il compitare di una solitudine lontanissima, vedete.

Le acque, il sud. I pescatori. O contadini dalla faccia greve appena srotolati da un quadro pittorico sintattico del Pitré; o saranno può darsi i briganti al soldo del bandito Giuliano oppure autoctoni coevi, privi di connotati, alle prese con rozzi congiuntivi da piazzare in volgarissimi monosillabi, in un eccesso di alterigia normanna o borbottamenti da ereditarietà meticce. Siamo molto arabi. Recitavo strazianti oratorie all’unico interlocutore, lo start sconosciuto. Il Sud dell’airone sulla roccia, nella trazzera sul mare impervio, suggeriva profondità e confondimento. Se pioveva baluginava nero, lampi di nero, sul bianco. O era una sfarfallio, un blu marino che sprofondava nel verde crudele delle acque di una rada. La bellezza violenta strozzava la mia noia o il solito dolore sordo di opportunità, quali il riscatto della compassione altrui.

Contemplare il mulinello dell’identico tempo, lento e febbrile insieme.

Esiste l’amore come il solo riscatto.

Esiste?

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La storia di un’ossessione – Tutto è compiuto

Gropiusstdat era il magistero da cui procedevo, attraverso cui – sbarra opaca e di sbieco su cui sbattevano tutte le possibilità di sperare – avrei applicato la mia vita. Sotto il grigiore avverso sui tetti dei palazzi tirati su come una riga alla fine o nel bel mezzo di un destino, si sarebbe compiuta la mia stessa esistenza, lacerata, brani sfilacciati che non avrei avuto cura di acconciare per rivederne affranta il disegno malvezzo. Il sintetismo, in fondo le mie vicende, tolta una rilettura densa di ardore e di un qualche segreto superiore alla amalgama dei giorni, si adunava al cospetto di sventure, succedute, una sopra l’altra. Avrei dovuto rincorrere per sempre l’identico ozioso coacervo di disfatte, per articolare la risposta inesatta intorno al traguardo piuttosto vago: la felicità o l’amore. La felicità o l’amore a patto di fendere la cruna dell’ago con una baldanza circense: ce la faremo, ce la faremo. O raggiungere l’una o l’altro. E nel balzellare tra i vari smisurati errori, pencolare come automi al servizio della casualità, nella consapevolezza che la precisa caduta morale dell’uomo non avrebbe risolto il quesito, al massimo avrebbe consegnato il bagliore su un dopo ulteriore quindi ultraterreno, nell’alveo di una salvezza, celata dalla criptografia umana, architettata dalle cosiddette cose del mondo.

Dovevo uscirne dai sette anni biblici, avvinta alla miseria del tossico e degli altri, negletti, ignoranti. Mi competevano nelle stanze decise anzitempo per me.

Perché chiedersi ancora la severità dello stesso tramato? Era ed è.

La sventurata o la vittoriosa?

Erano sette anni biblici, la cattività e il deserto. Le acque che si aprono come il costato di una bestia ferita, nella agonia inudibile. Cerco di consolarmi da me. Or che mi sembra che tutti i piani combacino per consumarsi, o meglio dissolversi vicinissimi alla fine.

E alla fine, affiorano le parole della santissima pietà: tutto è compiuto.

Ricordo un capodanno, i vent’anni così gravosi, mi lasciarono presto. Ero stanca, sempre, sfinita, magrissima, invisibile. Come se avessi mille anni e tutti i secoli di guerre e sconfitte da computare in olocausti, vari ed eventuali, una caparra sulle virtù future, che comunque non avrei acquisito. Non una medaglia al petto che mi facesse compiacere. Ero l’estinta. Non ero una principessa appena qualche abbaglio prima? La più stronza e la più graziosa, quella che snobbava i coetanei liceali, imbranati, senza calamità da proporle?

Senza un vizio. Senza che capissero la differenza tra un quartino di sugar e uno tagliato con la stricnina. Io ero preparata allo slang dei perduti. Perduti balbuzienti incapaci di usare un congiuntivo.

Ricordo un capodanno. Il tossico misurava la propria socialità con il gruppo di sodali, eroinomani dal viso butterato. Uomini o donne da non poter distinguere, l’età, la provenienza. Belli, brutti. Vecchi, bambini, giovani. Piuttosto lemuri, spiriti malauguranti. Sedevano al tavolo di una casa popolare. Un cucinotto illuminato da una luce bianca, spettrale. Ogni tanto qualcuno si alzava e spariva in bagno. Tornava dal suo lenocinio, il sangue ancora fresco sul bordo del polsino della camicia, la camicia appena rivoltata sulle maniche, da una parte.

Farsi. Farsi di eroina. Il mio sguardo inchiodava il lenocinio, un tormento che risultava inesplicabile, malgrado avessi visto. L’eroina. La lusinga. Malgrado avessi letto il diario di Christiane Felscherinow e fossi entrata nel destino, nel mio, una latebra dalle cavità molteplici e ardite, caleidoscopi terrei, a cui consegnare bandoli di innocenza o di curiosità. Sapete distinguere l’una dall’altra? Come la felicità dall’amore? Come la caduta dal rosario di un riscattato?

Il tossico in quel capodanno era il figuro sinistro che ritrovava una ciurma di trapassati con cui condividere il rito antico. Il passaggio, la condivisione di una morte fasulla. Il lungo flash, come il titolo di un romanzo che lessi subito dopo aver letto il diario di Christiane.

Il capodanno era una notte buia, fuori i petardi di quella miseria nera accendevano ilarità slabbrate, volgarità talmente feroci da desiderare la morte vera e non un qualsiasi sinonimo rimediato in sua vece. Non l’eroina, non il sesso acerbo, non il mio vagabondaggio, una fuga mai confessata, una fuga dal nido che non ricordavo, una tana, una placenta. Tornarvi, senza pagarne il pedaggio, l’esclusa.

O ancora: l’estinta.

Ma io cercavo l’amore. Si nascondeva, dietro nuvole gravose, sotto i cieli di un quartiere berlinese dove non ero mai stata, al riparo dalla sferza della mia terra, sotto il tremore del piumaggio del fenicottero rosa, placido sull’isolotto al centro dei flutti sulla linea dei calanchi; si nascondeva sotto l’ombra di un’agave gigantesca.

Nel mio cimitero, la chiamavo piazza. Consumavo la grazia ricevuta, la giovinezza, la bellezza, l’audacia perché io riuscissi a guardare oltre l’orizzonte striminzito, come fanno tutte le ragazze.

Cercavo l’amore.

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La storia di un’ossessione – Una solitudine.

C’è un monte di cenere. E’ una immagine di desolazione efferata per quanto rappresenti essa soltanto la solitudine in cui era necessario dimorassi. Lo spirito negletto, o tacito, che reprime il singhiozzo, sprofondato nelle tenebre di una qualche vicenda temporale e per ciò transeunte. Era necessario. Era necessario il monte di cenere. Sapete come certe disfatte, la fine di un mondo, un lasso. Ogni cosa predestinata a consumarsi. Io sulla cima, un colle di lapislazzuli fragilissimi, effimeri, guardo infastidita svolgersi la trama e non so ancora dare un nome all’attimo sovrapposto all’altro, una china sopra l’altra, per assommare destini, destini svuotati, abitati da mancanze, terrori giusti perché l’uomo sia raffinato nell’oro, provato, bruciato. La vita degli altri mi fendeva e feriva persino nella precisione noiosa, era la vita borghese e irreprensibile, non concedeva ristoro, similmente alla luce scoppiata del mezzogiorno sbattuto contro i palazzoni popolari. La violenza del cielo terso fino alla cecità. Rondinelle ondeggianti, finanche loro esitavano in talune ore del giorno, par così di assistervi, il requiem sopra la vita. La vita, gettata, arrotata da istinti maldestri, volgari amenità da raccogliere e tenersi come un pegno, un dazio irriconoscente.

La solitudine in cui dimorare era un anello del destino. Il più tenace. Da subito, annunciato. Quando? Mi chiedo. Quando il mio vagito soffocava dentro una culletta, in una stanza bianchissima di una casa in stile patrizio, con un lungo viale polveroso. Ramingo. Io nella culletta. E un canto. Era mio padre? Ricordo le parole: canne al vento. E malgrado fossi un’infante, vedevo molto chiaramente il canneto piegarsi alle spire che provenivano dal mare, la luce era blanda e ingrigita. Una solitudine necessaria, in cui dimorare. Poi lessi il diario di Christiane Felscherinow. La solitudine erano le rotaie gelide, dentro cui urlava l’eco di un treno, arrivava da estraneità irrigidite, da quale sconosciuta esistenza su cui gravare pulsioni e attese ignote? La solitudine in cui Christiane mi trascinava, oscurità mutilata da possibilità invertite, come la speranza, a mezzo di ineluttabilità argomentate dal dramma eterno di esistere per inciampare, inciampare per sollevarsi, sollevarsi e tendere alla luce. La luce desunta da ombre cattivissime, negli slummies, dove smarrivano i suoni, intronati e confusi, smarrivano alla stregua degli aloni opachi impressi sui volti. Smarrivano i colori. Individui sottili, disegni senza profondità, un quadro di Bonnard, Denis, Vuillard.

Una tela enorme di paurosa laconicità, di errori moltiplicati nella caricatura, dicono i fauves, traduzione appassionata di un gesto, una qualche vita. Christiane negli slummies, il suo chiodo nero, i jeans cuciti sulle gambe sempre più magre, le scarpe da donna. Dietro di lei si allungava il leviatano, smisurato e nero, la galleria dove l’umanità spariva, inghiottita da velocità bestiali, prive di un orecchio spirituale, secondo l’assunto degli artisti del primo dopoguerra. L’uomo dell’età borghese allora aveva una discreta ed elegante ragione per cui osteggiarlo, rigettava il suono del mondo, non pronunciandosi. Filisteismo con una edotta capacità di determinarsi. Ma non era il mio terrore, contemporaneo e acerbo insieme perché riguardava me, una giovinetta.

La solitudine necessaria avrebbe marciato lungo gli anni, come lungo il sentiero bianco e polveroso della villa patrizia un rapace introverso. Un piccione d’allevamento, il gabbiano lungo i fili, il tacchino domestico preparato a marce inverosimili per la sua natura.

E c’erano distruzioni necessarie, non ricapitolo i versetti del profeta Qohelet. Eppure il senso è inevitabile. Il bisogno della stagione del raccolto divelto, la gramigna, i covoni magri.

E c’erano sogni di redenzione per ogni visionario, da appaiare alla necessaria solitudine. Non ho mai udito lamento più stanco dell’uomo giusto che non riesce più a pregare, che non raggiunge la tregua disperante, la requia nella giaculatoria, dopo il pane dell’afflizione, l’acqua della tribolazione.

Così è cominciata, capite, senza sapere che ogni parola appresa, amata, ogni pagina sfogliata, non era altro che il termine svuotante, il termine svuotante è la solitudine necessaria. La solitudine necessaria è la medesima pagina de La livella di Totò, che leggevo e rileggevo, confortata alla scheggia tremebonda di un lumino. Pinnacoli di mestizia ad ogni capoverso. Una mestizia non riconosciuta, che non avrebbe rischiarato mano mano, fino a rivelarsi, l’antipodo di qualcosa a venire. Il preludio. L’inizio o la fine?

E invece il significato è nella circolarità, non l’inizio, non la fine, ma la circolarità, in cui l’inizio coincide con la fine.

E quella è l’eternità.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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