Monthly Archives: April 2015

il vizio di tornare

Chi mi conosce più di voi? Nessuno. Vi ho raccontato tutto. Non riesco nemmeno a rileggere i post di questi mesi. Ma tanto non ricordo nulla, vi ho detto: di quel dolore è rimasta solo l’ombra. Non è tornata la felicità, sono tornata io però. Ho il vizio di tornare. Sono sempre più sola, ma certi messaggi privati mi si presentano come una specie di consolazione. Le adulazioni, gli improbabili innamoramenti, le vostre appassionate dichiarazioni (cioè di taluni) sono una finta compagnia, una lusinga che non mi serve se non all’istante. Giorni fa ho incontrato il mio primo capo servizio, un intellettuale sopra i ranghi, si chiama Gianni Bonina, mi ha detto: tu sei questa. Presumo si riferisse alla mia vita un pochino avventurosa, a tutti i guai in cui mi sono cacciata (ne è stato testimone anche lui, in fondo), la mia ingestibilità. Sergei non lo sogno mai, sembra che non sia mai esistito, invece è esistito. Lo ritengo un uomo crudele. Mi ha lasciato una gran paura nei confronti dell’amore che succede e non si cerca. Dopo di lui, mi sarà impossibile distinguere la menzogna dalla verità, niente di più sciocco. La mattina non ho difficoltà a mettere i piedi per terra, ricordo quando mia sorella mi esortava ad aprire la finestra subito, a guardare il cielo, e io pensavo che era troppo faticoso, io piangevo. Adesso sto meglio, non piango più, la distanza con le cose mi rende appena appena partecipe. Ho iniziato un ciclo di lezioni di danzaterapia nel centro che frequento e che mi segue (sono una da seguire io, e già). Nel giro di sedie iniziale che precede la lezione, mi è accanto una donna magra e ossuta molto simile a me (io sono più tonda tuttavia), lei dice: ho sempre un nodo in gola. Ecco allora ho pensato di colpo, guardando le altre ragazze sedute in cerchio: siamo quelle col nodo in gola.

Signor Salvini: lei è Maria

Prometto a Salvini che se dovesse capitare di incontrarlo, che se venisse per uno dei suoi articolati e ragionevoli comizi, in questo sporco terminal, lurido Sud abitato da terroni mafiosi, io e Maria, ascolteremo pazienti, fino alla fine, ogni veemenza, ogni anatema, e dopo andremo da lui, lavandoci le manine prima, certo. Non saboteremo il suo piano di travaso leghista, i neofiti rimarranno tali e fedeli nei secoli. Promesso.

Direi: signor Salvini, le presento Maria. Maria è rom. E’ la mia guida spirituale, non ha le scuole come si dice, però legge, in italiano in romeno. Studia le Sacre Scritture, non ho mai udito una tale profondità teologica. Non ci rastrelli la prego. Non ci deporti, a Maria e a me per biunivoca corrispondenza. Dovrebbe rastrellarmi signor Salvini, altrimenti, a onor del vero. Io e Maria siamo un po’ amiche, non so come spiegarle: Maria quando mi vede dice che mi ama. Ed è l’esatta verità. Io amo lei e i suoi bambini, il suo sacrificio, la sua pazienza. Vorrei amarla, come Dio vuole perlomeno. Maria non ha mai rubato un cent. Non vuole nemmeno i miei miseri spicci, non vuole niente da me. Mi consola tutto al più. Dovrebbe vedere i suoi bambini. Ha mai conosciuto la tenerezza in questa terra? Ha mai conosciuto l’innocenza? Quella che non sa del male, pure avendo già sopportato la privazione. I bambini di Maria sono bambini come tutti, forse addirittura un po’ più speciali, perché non piangono se hanno freddo o fame. E spesso hanno freddo e fame. E lei adesso dirà: sì vabbé, retorica sinistroide, buonismo criminale. Guadagnerà applausi nazionalisti o acceriti rutti o acclamazioni pregne di insulti verso i barbari. Vuole ripulire il mondo signor Salvini, il suo karma era forse quello di un operatore ecologico inteso in senso morale, non si offenda. In senso morale, ok? Ieri mentre passeggiavamo io e Maria, tenendo per mano i suoi bambini, sentivo la gioia del dono che viene da lassù. Lei conosce la gioia del dono? Si è mai rilassato, un solo secondo?

Ho visto casa di Maria, Maria non vive in un campo. Ma vedendo quel basso orribile, con una montagna di spazzatura fuori la porta (regalo dei nostri, signor Salvini, italianissimi, razza pura), sarebbe meglio. I bambini giocavano, erano felici perché erano amati come si devono amare i bambini, tenevano la manina a me, a Maria, ed erano felici.

La tenerezza di un ubriaco

Sono tornata al tempio. Trovo Marek seduto sulla panca, voglio evitarlo, tiro dritto, ma Marek mi vede, mi chiama. Mi viene incontro, piange, credo che il suo sia un pianto di commozione vera, Slawek dice che è un pianto da ubriaco. Ed è vero, Marek è ubriaco. Mi guarda con gli occhi pieni di lacrime, dice che ogni volta che mi vede il suo cuore diventa piccolo per la nostalgia. Mi abbraccia. Stringe, cerco di liberarmi. Lui tiene la mia mano, lo lascio fare, parlo con disagio, sù smettila Marek, non bere ti prego, le stesse cose che dicevo a Slawek. Ripeto senza convinzione, il mio destino è implorare qualcuno di smetterla di fare qualcosa o di non lasciarmi o di mollarmi. Implorare. Marek mi guarda con una tenerezza inaudita: ma come sei bella. Mi commuove la tenerezza di un ubriaco. Per un momento perdo la strada. Dove vado, cosa faccio qui? Non so come spiegarvi. Cosa sono adesso, adesso che non devo salvare più nessuno? Non ho fatto altro negli ultimi vent’anni. Presunzione. Marek mi abbraccia di nuovo, riesco a liberarmi, prometto di tornare. Non torno.

nei pensieri di un uomo

Stanotte, per la prima volta, ho sognato Sergej. Di colpo, era un estraneo, nel sogno mi costringevo ad amarlo, come durante le nostre conversazioni epistolari. E non lo amavo. Al contrario, persino l’idea di un bacio, un castissimo bacio, mi procurava raccapriccio. Le verità sconclusionate dei sogni. Ma sono pur sempre verità, forse. Ieri riflettevo su un fatto: sono mesi che non sono nei pensieri di un uomo. Sapete in che modo, insomma, non ve lo devo spiegare. Non come una sorellina. Immagino che sia così. Sono in loop, ok. Però anche questo è vero. O comunque non sono il pensiero fisso di qualcuno.  Esercizio di vanità. La vanità brucia fuochi finti. E dovrei averlo capito ormai. Sono settimane che scrivo post sentimentali, tutti concentrati su amori finiti male, sussulti adolescenziali. Nutriti da film come Suite francese, dal suo affascinante protagonista maschile. Sono una che ha pianto sui tormenti di padre Ralph e Maggie di Uccelli di rovo.

Oggi è una giornata piena di luce. Sapete di cosa profuma la Sicilia? E’ così dolce questo profumo. I colori sono nitidi, azzurro e bianco su tutto, il cielo e il mare si estendono a raggiera sul mondo e confondono i confini. Mentre correvo, ieri, al campo, mi sono comparsa davanti, mi spiego: la ragazzina che gareggiava, promessa negli 80 metri ad ostacoli, i suoi desideri. Ero selvaggia un pochino, nel senso trascurata, abituata ai rifiuti. Ed ero fortissima e innocente.

 

Profughi per sempre (Il Fatto Quotid.)

(…)Pensai che il poeta Nikolaj Aleksandrovich Pankov era rom e aveva tradotto un poema di Puskin. “Ne oke jai; pala sperasa, pir felda gala sis maj” eccetera. Più o meno: “(…)Ma eccola, e dietro di lei, nella steppa, un giovane la segue”. E’ una storia d’amore. Storia d’amore epico tradotta da un rom. Qual è la verità, allora? Sono buoni, sono cattivi? C’è il padre di Oscar, macedone, che in galera  – si dice al campo – ha ingoiato un cucchiaino e non è morto. Caspita. Oscar ne ha prese di botte. Quando il padre è uscito di galera voleva arrotarlo, a marcia indietro, col Mercedes senza targa e senza bollo(…).

Il Fatto Quotidiano, venerdì 10 aprile 2015.

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l’amore di tutti o quel che sia

Dopo mesi mi chiama la signora Lucia. La trovo in un letto d’ospedale. Un modo come un altro di essere accudita, di sentirsi a casa. Il fatto mi ha rassicurato. Bene, è tutto a posto. Come spesso accadeva con Slawek. Era un gran sollievo saperlo da qualche parte, qualsiasi feretro diventava casa. Se avete letto “Sangue di cane” non vi dico niente di nuovo. Slawek viveva per strada, così tutto era meglio per me, saperlo in ospedale, in galera, tutto fuorché le grotte, la retrovia in cui finiva puntualmente. Adesso sta bene, vive come tutti, ha una casa, una compagna. Per noi era invece tutto molto difficile, sempre. La normalità era il vezzo straordinario che fuggiva altrove, di solito. Non sono mai crollata con Slawek però. Quale forza sovrumana mi sosteneva, mi chiedo. Forza fisica intanto. Ne avevo, immagino. Ero giovane. Ma adesso non dimostro la mia età, la reazione che suscito di norma è la tenerezza, mi si parla come a una ragazzina, guadagno buffetti sulla guancia o sguardi gentili e di comprensione. Io ne approfitto, per prendermi l’amore di tutti o quel che sia.

La signora Lucia mi chiede del marito (il mio). Non dice mai ex. E io aggiungo: ex marito. Le spiego la cosa. Vive fuori eccetera. Ha una compagna. Eccetera. Lei strabuzza gli occhi. Sì sì, confermo. Non faccio una piega. Non sono addolorata. Il dolore è arrivato da un’altra parte. Devo capire veramente, se sia soltanto merito di Sergei. Quando lui è andato via, accusandomi di inutilità cioè di colpe innocenti (“mi sento manipolato“, nda), figurarsi, mi sembrò di colpo impossibile sopportare la vita che avevo condotto fino a prima di lui. Temevo la solitudine paziente dei mesi, degli anni, dopo la separazione. Avevo trovato il mio amore russo. Rifletto sul fatto che le più grandi gioie e i più grandi dispiaceri provengono dalla medesima area geografica. Il mio karma è spostato a Est. Continuava a chiamarmi Vera fino alla fine, era sicuro fossi la Vera del suo romanzo pluritradotto. Per questo mi amava follemente. Diceva. Qualcuno di voi mi ha chiesto tempo fa: racconti ogni cosa, perché?

Ma davvero credete che non sia funzionale, la vita? O pensate sul serio che io viva e basta? No, lo faccio soltanto perché ogni dettaglio diventi un periodo. Di quale pudore parliamo? Non me ne faccio nulla, al momento. Ho smesso di preoccuparmene da un pezzo.

La verità non è di questo mondo.

I giorni scorrono. Sono sempre più distante dal resto delle cose. E non dico, stavolta: merito dei farmaci. Non dico nemmeno, non adesso: sto guarendo. Non sono felice lo stesso. Però non piango. Non sono felice, eppur dimentico il dolore. Ricordo il suo passaggio, osservo le forme della sua ombra, sugli altri e sul resto appunto. Cos’è il resto. A cosa sia servito il resto. Il resto, quello che chiamiamo ognuno con le dovute premure: errori, esperienze, matrimoni, tradimenti. Il resto per me diventerà scrittura, come sempre. Non mi consola, non mi deprime. E’ una verità, anzi un’esattezza. La verità non è di questo mondo. La Pasqua trascorsa in famiglia non ha aggiunto, mio malgrado, un nuovo gaudio. Però ieri che Cristo è Risorto ho immaginato la Luce, ho sperato in un pianto liberatorio, anticipo di pace, un po’ è accaduto. Le preghiere mi salvano. Dio.

I farmaci mi hanno tolto il pianto. E’ un risultato. L’altro esiste ancora. Certe volte vorrei maledirlo. Scrivo. Con pedanteria. Con scrupolo mi preparo ogni mattina a raccontarvi le mie inezie. Piccole cose, piccoli fatti. Il mio rammarico è sempre uguale, dacché ho memoria: cerco l’amore di tutti. Sono un’egocentrica. L’ostinazione talvolta è già un castigo.

La scrittura è condivisione. O esibizionismo. O entrambe le cose. In questo Lunedì dell’Angelo aggiorno il blog, immaginando con invidia le risa degli altri, la vita che fluisce fuori, scivolando da me, incapace di realizzarla. Il destino mi ha voluto sola, senza compiacersene, lasciando a me la responsabilità di farlo. Compiacersi è la mia soluzione finale. Quando le cose si mettono male, so compiacermi, perfezionando il talento.

non si può raccontare tutto

Lo scrittore di Grudno non potrebbe essere il mio Limonov. Rispondo così a Demetrio Paolin, lo scrittore torinese che mi ha suggerito la possibilità. Lo scrittore di Grudno dovrebbe ispirarmi qualcosa di simile al magistrale romanzo di Carrère. Io non sono Carrère. Nel qual caso però, darei una ragione in più a questa parentesi, esattamente, al momento incomprensibile e dolorosa, parentesi che faccio fatica davvero a cancellare. Lo scrittore di Grudno potevo anche non conoscerlo, avrei voluto evitarmi l’ennesima afflizione. Non sopportava che fosse la causa del mio dolore. Chissà perché poi, giocavo d’anticipo. Delle sue tragedie non devo raccontare, sicché Limonov è ancora una volta il mio ex marito, più prossimo al personaggio gonfio e barcollante tra le vie di New York, smarrito nei suoi deliri alcolici, o l’avventuriero assoldato tra i combattenti mercenari, su una collina balcanica con un kalashnikov in mano. Racconterei meglio, se fosse così. Malgrado fossi io la miliziana bardata di coraggio e ostinazione.

Lo scrittore di Grudno nel suo romanzo pluritradotto racconta la vicenda di una donna (che porta il mio nome) vessata da un marito alcolizzato. Lo scrittore di Grudno racconta della volta in cui lei tenta di salvarlo, vendendosi all’incirca (moralmente perlomeno) all’uomo che avrebbe potuto esaudirla. Una sera di tanti anni fa, è accaduto qualcosa di simile. Allora racconterò un giorno anch’io, in quel romanzo mai finito veramente: “L’uomo che avrebbe potuto salvarlo, conosceva il suo nome. Non sarebbe tornato al suo paese in una bara? Le fu concessa la promessa, a condizione che un alcolizzato non desse problemi ancora, non desse di matto. Sono promesse da mantenere?”.

Condizioni ambientali un tempo hanno deciso sulla fine di una storia, persino sentimentale. Cioè la mia. Perché non si può raccontare tutto in un romanzo (Sangue di cane, nda), non quando la vita ti propone soluzioni imprevedibili, di solito sul filo. E non quando si sceglie di tradurre la verità. E questo accade soltanto mentendo. Così non posso raccontare tutto. La donna nel romanzo dello scrittore di Grudno forse ha salvato il marito. Anch’io. Entrambe alla fine soccombono. Vera muore sul serio.

lo scrittore di Grudno

Quando qualche volta parlo ancora di lui, non lo chiamo mai per nome. Dico solo lo scrittore e aggiungo “russo”, quasi con timore e solo successivamente. Sono passati alcuni mesi, non so se ho dimenticato. Cosa ho dimenticato poi? Le Parole? Una voce? Certe volte, può bastare. E come spesso accade, alla fine di qualcosa, si fa fatica a capire la ragione.

La domanda è un assillo per le insicure, per quelle amate poco: quanto contavo per lui? Non uso più il verbo amare. Era di Grudno. Da questo momento in poi devo imparare a usare l’imperfetto. Era di Grudno. Una vita tormentata, tragedie inenarrabili, molte mogli. Qualche anno in più di me, una decina all’incirca. My little girl, scriveva nelle sue lettere appassionate.

Spero che non mi legga più. Perché non credo possa meritare le mie parole, figuriamoci il mio amore. Tempo sprecato. Per entrambi. Sono stufa marcia della fatalità. Degli incontri che producono disperazione, nell’istante in cui si realizzano. Sono stanca degli abissi degli altri, il fatto è che mi incontrano, in una tragica ineluttabilità. Incontrano me. Mi amano perdutamente. Fintanto non spariscono nello spazio d’un mattino. L’errore è chiedersi le cose. Le domande sbagliate, vi dicevo. Ne occorre solo una per aprire una breccia pericolosa, nei nostri omissis, finirci con i sensi di inadeguatezza, la nostra misura, l’unica rimediata, per raggiungere il mondo, le sue inesattezze. E sulla verità del mondo (Marguerite Yourcenar, cit.): chiamiamola esattezza, severissima adesione al fatto, alla contingenza. Chiamiamola crudeltà. La verità del mondo. Non la verità di Dio. L’unica capace di guarirci. Il destino può confonderci. Incontrare un uomo, un artista, scoprire che ha dedicato buona parte della sua scrittura a raccontare la mia vita, senza conoscermi. Chiamandomi per nome, ancor prima di conoscermi.