Mademoiselle scelse il tempio per ammirare la vita degli altri. Pratica che le piaceva moltissimo. Non era inedia, non era curiosità, era il suo metodo di ascolto. Gli altri sapevano come risolversi, in maniera rudimentale, pratica. A lei mancava tutto ciò. Era molto brava a compiangersi, per il resto poteva solo osservare o ascoltare. Non affaticarsi troppo. Segretamente, pensava che avrebbe incontrato ancora un grande amore, pensava fosse rapida la questione. Ma una domanda la assillava, sempre la stessa. Sei stata piantata, le urlava la voce del mondo. Un personaggio della Sagan, le avrebbe chiesto: mi dica, la prego, il motivo di tale fuga. Al tempio la pietra bianca rendeva il giorno insopportabile, sfolgorante. Con i giorni dell’abbandono si può costruire la trama di un libro, la sceneggiatura di un film. La luce però deve essere discreta, tenere un profilo basso. Non incedere così sontuosamente. Non aveva molti amici. Neanche nella sua giovinezza ne ebbe. Non era una disfatta tutto esattamente. Era la sua indole. Non era una responsabilità, una colpa, esser sole. Lo era essere state piantate. Quando conobbe l’ebreo aveva una serpe nel petto. L’ebreo la calmava. Era un amico. O forse l’amava di quell’amore che non avrebbe ricambiato mai. Si potesse scegliere. L’ebreo l’amava. Era vecchio come un patriarca. Non era geloso, era paziente. Lei era una ragazzina, con due o tre amanti per la testa. Sfuggiva, come avrebbe fatto monsieur. Sfuggiva all’amore paziente. “Cosa posso fare per te?” le chiedeva l’ebreo, era una supplica piuttosto.
Portami la vita di prima, rispondeva lei, asciutta, quasi cinica. Il cinismo non era per Mademoiselle, come il sesso. Il desiderio, sì. L’ebreo cercava così la vita di prima. Mademoiselle era crudele, come certi pettirossi, dalle tenere membra.
L’ebreo aveva perso autorevolezza, a mio avviso. Lo intercettavo attraversare la piazza dinanzi al tempio, pentendomi persino di averlo chiamato poeta, peccando così di leggerezza. Il poeta. Mica era uno che declamava a occhio e croce, due sestine, due quartine, no per carità. Eppure ogni cosa, ogni sciocchezza raccolta per via diventava funzionale alla rubrica. Che razza di carogna ero già diventata, forgiata dal mestiere come si dice, carogna senza viscere al limite. Il problema era diventato un vero assillo: hai mai incontrato un tizio che valesse veramente o piuttosto non sconfessasse con l’eloquenza del fatto in sé la propria ordinarietà? E cosa vuol dire essere ordinari? Io per prima lo sono (ammettilo e spala i fossati di superbia che circondano il tuo torrione pericolante, bella mia). E la questione era anche: dannazione, sono un’anaffettiva. Stentavo allora, come oggi, tant’è molto poco conturbava il mio spirito, nulla che attenesse alla concezione comune del dolore. Il mestiere mi costringeva a cercarlo, tradurlo in battute e in pezzi da spedire entro le quindici. Dunque crollavo insieme alla inetta spavalderia, sulla panca del tempio, fissando sgomenta la calza sfilata della vecchia di via Dione che riposava con la testa reclinata. Avevo in mente un titolo, storie al tempio, storie del tempio, e così via.
Mademoiselle scriveva piccole inutili storie. Un personaggio della Sagan le martellava in testa, con la sua voce rauca, seducente. Prendete il mio cuore, fatene quel che vi pare, in cambio promettetemi qualcosa, si ostinava nei suoi deliri. Era molto sciocca, così. “Siete geloso di Blassans-Lignières?” chiedeva il personaggio maschile della Sagan. Ditemi.
(continua)
Copyright © Veronica Tomassini. Tutti i diritti riservati trattati da Agenzia Stradescritte
You must be logged in to post a comment.