Monthly Archives: December 2017

Romanzo – Amore 16

Mademoiselle scelse il tempio per ammirare la vita degli altri. Pratica che le piaceva moltissimo. Non era inedia, non era curiosità, era il suo metodo di ascolto. Gli altri sapevano come risolversi, in maniera rudimentale, pratica. A lei mancava tutto ciò. Era molto brava a compiangersi, per il resto poteva solo osservare o ascoltare. Non affaticarsi troppo. Segretamente, pensava che avrebbe incontrato ancora un grande amore, pensava fosse rapida la questione. Ma una domanda la assillava, sempre la stessa. Sei stata piantata, le urlava la voce del mondo. Un personaggio della Sagan, le avrebbe chiesto: mi dica, la prego, il motivo di tale fuga. Al tempio la pietra bianca rendeva il giorno insopportabile, sfolgorante. Con i giorni dell’abbandono si può costruire la trama di un libro, la sceneggiatura di un film. La luce però deve essere discreta, tenere un profilo basso. Non incedere così sontuosamente. Non aveva molti amici. Neanche nella sua giovinezza ne ebbe. Non era una disfatta tutto esattamente. Era la sua indole. Non era una responsabilità, una colpa, esser sole. Lo era essere state piantate. Quando conobbe l’ebreo aveva una serpe nel petto. L’ebreo la calmava. Era un amico. O forse l’amava di quell’amore che non avrebbe ricambiato mai. Si potesse scegliere. L’ebreo l’amava. Era vecchio come un patriarca. Non era geloso, era paziente. Lei era una ragazzina, con due o tre amanti per la testa. Sfuggiva, come avrebbe fatto monsieur. Sfuggiva all’amore paziente. “Cosa posso fare per te?” le chiedeva l’ebreo, era una supplica piuttosto.

Portami la vita di prima, rispondeva lei, asciutta, quasi cinica. Il cinismo non era per Mademoiselle, come il sesso. Il desiderio, sì. L’ebreo cercava così la vita di prima.  Mademoiselle era crudele, come certi pettirossi, dalle tenere membra.

L’ebreo aveva perso autorevolezza, a mio avviso. Lo intercettavo attraversare la piazza dinanzi al tempio, pentendomi persino di averlo chiamato poeta, peccando così di leggerezza. Il poeta. Mica era uno che declamava a occhio e croce, due sestine, due quartine, no per carità. Eppure ogni cosa, ogni sciocchezza raccolta per via diventava funzionale alla rubrica. Che razza di carogna ero già diventata, forgiata dal mestiere come si dice, carogna senza viscere al limite. Il problema era diventato un vero assillo: hai mai incontrato un tizio che valesse veramente o piuttosto non sconfessasse con l’eloquenza del fatto in sé la propria ordinarietà? E cosa vuol dire essere ordinari? Io per prima lo sono (ammettilo e spala i fossati di superbia che circondano il tuo torrione pericolante, bella mia). E la questione era anche: dannazione, sono un’anaffettiva. Stentavo allora, come oggi, tant’è molto poco conturbava il mio spirito, nulla che attenesse alla concezione comune del dolore. Il mestiere mi costringeva a cercarlo, tradurlo in battute e in pezzi da spedire entro le quindici. Dunque crollavo insieme alla inetta spavalderia, sulla panca del tempio, fissando sgomenta la calza sfilata della vecchia di via Dione che riposava con la testa reclinata. Avevo in mente un titolo, storie al tempio, storie del tempio, e così via.

Mademoiselle scriveva piccole inutili storie. Un personaggio della Sagan le martellava in testa, con la sua voce rauca, seducente. Prendete il mio cuore, fatene quel che vi pare, in cambio promettetemi qualcosa, si ostinava nei suoi deliri. Era molto sciocca, così. “Siete geloso di Blassans-Lignières?” chiedeva il personaggio maschile della Sagan. Ditemi.

(continua)

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Romanzo – Amore 15

 

Mademoiselle non ricordava esattamente lo svolgimento dei fatti. Dal momento in cui il raggio di sole picchiava sul vetro della finestra a giorno e lei fissava se stessa, seduta sulla sedia di legno bruno, dentro l’immagine restituita dal balzo di luce che piombava sulla sua nuova vita, non ricordava altro se non una somma di gesti imprecisi ingenerati dall’oblio, dalla distrazione, dalla contrizione. Prima di lasciare del tutto la casa dell’abbandono – lo fu da allora – da quel giorno di dicembre, ogni mattina tornava a vistare i suoi morti. Attraversava le stanze, ancora arredate, ancora, nell’aria contagiata dalla vita domestica di un tempo, brevissimo. Odore di casa. Casa, casa, casa, ripeteva all’infinito. Sul vestibolo guardava allungarsi il corridoio buio, fino alla luce delle stanze che si lasciavano spiare da lì, dal piccolo andito. Nel vestibolo, immobile, guardava muta allungarsi il corridoio dove si era svolto qualcosa, un tempo, qualcosa di simile alla vita vera. Adesso lei era una vedova.

La vedova bianca di Isaia. Ma era ancora disorientata, veramente era abbattuta, come recitavano i versi biblici di Isaia, “sconquassata dalla tempesta”. Ricordava male, malissimo. Entrò nella grande sala, sotto l’arco, alla sinistra del vestibolo. Aprì le tende. Era tutto chiaro, così chiaro. Aprì gli scuri. Entrò la luce di nuovo, era una tale violenza di felicità possibili che spiravano tortuosamente tra le stoffe, da restarne persino traditi. Felicità depositate altrove, le sue, depositate altrove, sottratte, torturate. Era smarrita o finita. Il suo pianto inenarrabile era il cilicio indossato da allora. Toglilo, le urlavano dietro le voci dell’impazienza che poi erano il suono del mondo. Il mondo procedeva comunque. Il telefono trillò ancora, assurdamente. Alzò il ricevitore e una donna straniera farneticava, forse era ubriaca. E ogni cosa continuava a franare. Non la chiamavano per nome le voci del mondo. Molti anni dopo, le rimase solo un rimpianto, tornare a trovare la casa dell’abbandono e la giovinezza. O soltanto la giovinezza. Sarebbero tornati un giorno i ricordi con una promessa di onestà da mantenere? Avrebbe mai guadagnato le sue risposte? Perché? La domanda era una soltanto.v5

Lui, il primo, l’assente, lo avrebbe ritrovato invecchiato e estraneo. Dimagrito. E piuttosto avrebbe preferito discutere bene con l’assente durante la giovinezza, interrogarlo mentre la medesima sfumava, si incurvava, ingialliva come le foglie dei castagni in quel parco milanese in cui sognò – quando era già Mademoiselle – il suo amore francese, raggiungerla finalmente. Ricordava Mademoiselle i trenta secondi in cui incontrò quell’uomo francese. Era un giorno d’estate. Eppure anche quel giorno esitò a restituirsi netto nella memoria. E sono pochi, davvero pochi, trenta secondi. E tuttavia, potevano bastare, Mademoiselle, era fatta per i tormenti da governare in minimi spazi, per gli amori che devastavano come una razione quotidiana di astio educatamente servito. Per avere nulla, e chiamarlo attesa. Era fatta per mentire in luogo di violente felicità possibili.

Vorrei appartenervi, monsieur. Mi sfuggite. Ma voi, sì, voi siete già l’amore. E l’amore, sapete, è il grande assente. Dunque, è la mia specialità.

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini. 

 

 

 

 

 

Romanzo – Amore 14 (dice a me?)

In certi giorni, le sembrava di non aver mai amato nessuno, aver perduto il significato di ogni privazione, del sussulto, dello sgomento del dopo, il tedium che la coglieva dopo l’amore, dopo aver osservato lui concludere, alzarsi, infilare una maglia, accendere la sigaretta, fumare, guardando fuori. Il suo sguardo fisso, lontano, gli occhi obliqui, una fessura grigia in certi cieli d’inverno. Poi lui si voltava, come ridestato da una voce antica, da un richiamo da cui era esclusa, si voltava e i suoi occhi incontravano il pudore di mademoiselle, di nuovo. Fermi su di lei, come non l’avesse mai guardata prima, ritrovata. Soccombeva allo spazio che occupava quell’uomo.

E alla fine la sua testa arruffata, il sudore esagerato sulla fronte, la commuoveva. Si commuoveva, era molto stupido farlo. Niente avrebbe impedito al destino di compiersi. Il giorno in cui incontrò brevemente l’uomo francese – molti anni dopo – le parve di incontrare di nuovo uno sguardo. Questo è il miracolo. Ci si innamora di uno sguardo che cercavamo, che abbiamo già visto, pensava. Lo realizzò vedendo quell’uomo francese per pochissimi minuti. Riconobbe lo sguardo, ma poi lo aveva già perduto. Molti anni dopo, ritrovò lo sguardo che aveva amato in pochi minuti, perdendolo subito.

Non trovava consolazione, o anch’essa la perdeva subito. A volte era Lucile, il personaggio della Sagan, attesa alla sua medesima disfatta immonda e crudele. Era stata abbandonata, era uno stigma. Usciva di casa smarrita, camminava a lungo per calmarsi, trovare una ragione, in preda a propositi febbrili. Raggiungeva il tempio, sedeva sulla panca fino a che il sole riusciva a scaldarla prima del tramonto. Era inverno. Era sempre inverno, malgrado fosse luce ovunque, una estesa metafora sulle ragioni definitive del suo peregrinare.  Mademoseille scriveva perché era la somma dei suoi rimpianti.  Al tempio le anziane aspettavano la sua muta presenza. Era il personaggio bizzarro, non Lucille della Sagan.

“Ognuno di voi era capace di fare qualcosa di enorme, eravate vivi più degli altri. Conoscevate la violenza, usavate le armi, qualcuno di voi aveva fatto il carcere, e indossava lo stigma, tatuato all’angolo dell’occhio, inchiostro nero inciso sulla pelle. C’era sempre una tensione intorno, e non ero mai a parte di quel che accadeva veramente. Mi avevi parlato di certe frontiere, sapevi fregare i doganieri, gli espedienti erano per certi versi abominevoli. Le donne in corriera bevevano distillato di patate, commentando l’ultimo matrimonio in paese, le sbronze del marito, la raccolta di ribes, custodita in cantina. Si partiva con poca roba, in ridicole valigie di cuoio. Eravate così belli, lontani, persino nel vostro modo di fare a botte e durante il viaggio certe volte succedeva. Gli uomini, giovani timidi e intemperanti insieme, conoscevano l’amore nella rabbia, nella foga. Intemperanza commovente, ed è quel che mi sedusse allora. Ero troppo fragile fisicamente per reggere il peso di tanta veemenza, quando incontrai la diseducazione nelle cose dell’amore”. 

La nuova pagina del romanzo. Era pronta. Ed era sempre la stessa puntina, sul vinile rigato. Al tempio sapevano tutto di lei.

Jaromil il poeta disse all’incirca che il destino aveva smesso di costruire le sue stazioni. Ho raggiunto Jaromil, sto sotto la pensilina, non aspetto la corsa di un treno. Sono anni che non aspetto, pur pensando di non fare altro. Rifletto. Smetto di agitarmi tanto e per cosa? Solo per farmi amare. E poi dimentico il resto invece. Signori esiste il diritto inalienabile del lavoratore cioè dell’essere umano, blatero. E mentre blatero conto sulle dita le volte che mi è stato concesso un privilegio. Hei Malaussene! Mi volto di scatto: dice a me?

Ed ecco il tramonto, scendeva sopra il tempio, il leggio, imbruniva sui palazzi i colori del giorno. Ed era di nuovo sera.

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini. 

 

 

 

 

Romanzo – Amore 13 (La disfatta)

Mademoiselle aveva conosciuto la passione. Per questo amava moltissimo i romanzi di Francois Sagan. Quando lesse La disfatta patì insensatamente per la leggerezza con cui Lucile, il personaggio femminile, consumava i suoi amori. Nonostante a lei necessitasse la medesima trascuratezza, nel considerarli, perché sopravvivere oltremodo era la sua provocazione, tutto sommato, la migliore, la più riuscita, sopravvivere al silenzio. Sopravvivere al silenzio e trovare una nuova misura dei sentimenti e della morale, così leggeva e rileggeva in quarta di copertina nel romanzo della Sagan. Il suo nitore, la sua spregiudicatezza, simile alla seducente arrendevolezza e finanche alla deregolamentazione avvertita nella Rochefort, le restituivano la certezza che vi fosse una prossimità, mademoiselle ne accusava tutta l’inquietudine. Lei come Lucile della Sagan, perduta nelle passioni sbagliate, lei come Genevieve abbandonata al suo uomo tormentato, nella medesima nube di tensioni e desideri. L’amore diseducato di Lucile e Genevieve l’avevano colta da ragazza, colpa delle sue letture. E poi, mademoiselle scriveva. Tutto sarebbe finito nella sua scrittura, l’ultima trincea da attraversare o dove farsi seppellire. Senza l’amore, mademoiselle, non desiderava che la morte.ve-blog

Non aveva cercato altro, fino alla fine. La fine era la casa dell’abbandono. Le tende erano chiare. Dalla porta finestra si vedeva il maniero. La casa aveva un buon profumo. Sedette sulla sedia davanti la porta finestra. Era la sua casa. La mattina, l’ultima mattina nella casa dell’abbandono, squillò il telefono, dall’altra parte la voce di una donna berciava oscenità. Era ubriaca, le parlava del marito. Chiuso. Finito. Accese la radio. Mise tutto in ordine, tirò su le coperte sul letto del figlio, sistemò il suo, rammendò una maglia. Diede l’acqua alle piantine in balcone. Lasciò la rosa sul vasetto di ceramica. Quella rosa non moriva mai, non voleva.

Lei sì, lei voleva morire.

Ma ecco l’ultimo giorno.

Una volta avevo una casa. Rieccolo, il solito piagnisteo.

Stiravo stamane, di colpo ho pensato a un giorno di dicembre, c’era il sole; quando stiro succede che scopro le cose vere, quando qualcuno mi ha abbandonato ed è partito per sempre. Ma ecco l’ultimo giorno, c’era il sole e lui sistemava i tubi in casa della vecchina, la nostra dirimpettaia. C’era un sole che sembrava aprile, e invece era dicembre, era quasi Natale. Quel giorno ho pensato “Dio, come sono fortunata”. Indossava un maglione azzurro di cachemire, lo stesso azzurro viola dei suoi occhi. Sorrideva come sempre, anche la vecchina sorrideva, in risposta ad una qualche battuta di lui, concentrato nel suo lavoro di idraulica. Lui sapeva fare tutto. Volevo spiegare il nitore della luce di quel giorno, era davvero speciale, niente lasciava intendere la sventura. D’abitudine aprivo tutte le finestre allora le tende chiare della camera da letto e della sala si sollevavano, gonfiandosi verso il mare che si intuiva oltre il leggero movimento delle stoffe. Il mare prominente verso est era il paesaggio che mi accoglieva la mattina appena sveglia, aprendo gli scuri. Volevo spiegarvi che vita avevo, non riesco mai abbastanza, era tutto diverso, ero pressappoco felice. Non è sufficiente detta così. Da allora furono giorni di lutto e anche oggi quando sorrido, parlo, cammino, agisco, mi rendo conto che vigilo dentro un lungo sonno tenebroso o stesa su un pagliericcio infestato di memoria, dopo ho seppellito le parole vere, le cose vere, la vita vera. E sono passati anni.

(continua)

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Romanzo – Amore – 12 (L’assedio)

Certe mattine, mademoiselle si svegliava con il pianto. Ed era atterrita per questo. Come era possibile? Con gli occhi chiusi, si asciugava il viso umido afferrando un lembo del lenzuolo. E nel sonno, quando non la lasciava ancora, era convinta di essere sempre nello stesso luogo, nello stesso tempo. Era un frame. Non c’era più nessuno. Apriva gli occhi.

Sedeva sul letto, mademoiselle. Dove siete? La voce affiorava da una ragione ostinata irrevocabile della sua memoria. Quando tornavano, i suoi amati assenti, era il più dolce dei castighi, il castigo dell’assedio. Di quell’assedio si copriva, quando aveva freddo. L’assedio era una coperta. Aveva freddo spesso. Le voci. Il suo nome ripetuto, nell’imperfezione e nella gentilezza. La voce era roca. Sempre la stessa. Era imperfetta. Lui avanzava, aveva gambe lunghe e nodose, era insolente e straziante, riusciva a esserlo. Avete mai visto un uomo supplicare una donna? In ginocchio? Le ginocchia sull’asfalto? Le automobili suonano, lui ha le mani giunte come per una preghiera, i jeans consumati. I suoi occhi sono umidi. Avete mai visto tanto strazio tutto in una volta? No, no, scuoteva la testa, sul cuscino. No. Poi aprì gli occhi. Ed era domani, oggi. Cosa cambiava, cosa importava?

Oggi chi rimane? Poggiava i piedi sul pavimento freddo. Scostava le tende. Apriva la finestra.

I giorni scorrono, le distanze valgono per tutti. Tornava al tempio, lo sguardo fisso sulle medesime vecchie case, la desolazione di un leggìo di fronte che spiegava dettagli complicati a una torba di indifferenti. Il mondo attraversava la sua percezione franante,  piena di pregiudizio. Mademoiselle era la somma dei suoi rimpianti. 24232677_10212833855954290_2218283671220642491_n

Tornava al tempio.

Ho accompagnato la donna davanti la mensa. Quella donna è una madre. Davanti la mensa c’è una breve fila, aspettano anche alcuni giovani di colore, un indigeno dice che non li faranno entrare. Da un angolo emana un terribile olezzo, un orinatoio. La donna mi dice che era una madre, che aveva un figlio bello e bravo, lo dicono tutte le madri ma lui era speciale. E’ stato l’altro il più grande, gli ha dato due dosi. Ma lui si faceva, chiedo. Si drogava? Lui era speciale dice la donna, mi indica il porto, è andato via. Via per sempre certo, via per sempre.  L’indigeno non sopporta quei tizi di colore. Lui piuttosto non fa un buon odore no. Però teme i sudanesi. Sono sudanesi. Come? Scuote il testone di buzzurro. Vengono dal Sudan, hanno fame come lei, preciso. La donna ha una certa età, indossa scarpe col plantare. I figli sono pezzi di cuore, sì signora, dico. Uno le ha levato casa da sotto, non so come spiegare. Uno si è venduto casa, per pagarsi l’eroina. Potete indicarmi il senso di questa vita? Ravvivo i capelli, sono a posto. Da lontano seguo la fila in attesa. La donna si perde dentro la minima ressa. E’ tutto vero.

(continua)

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Romanzo – Amore 11 (esser belle era un dovere)

Mademoiselle guarda una finestra, appartiene a un palazzo nobiliare. E’ sera, sopra la città scende quella speciale luce che come una risacca torna dal porto e viceversa a illuminare di lampare lontanissime o lumini strani, smunti, i profili che si nascondono oltre la costa, dietro le case che seguono il litorale. Mademoiselle ama le prospettive che può solo immaginare, sono le più convincenti. Si tratta sempre di trovare le parole giuste. Pensa: dietro la finestra serrata ci sarà un gran bel patio. Un giardino secolare, chiuso da ampie vetrate, una cosa impossibile. Aspetta il momento in cui la vita le verrà in soccorso di nuovo, persino con i suoi cattivi odori. Ride come una sciocca. Non è un’avventura, siamo di passaggio – riflette – i pensieri si rincorrono, sanno già tutto, non devono spiegarsi; ci sono solitudini più misere delle altre, non sa dire se la solitudine degli altri sia migliore o peggiore. C’è un momento in cui realizza tutta la mestizia di un tale affannoso peregrinare, così ne sente forzatamente la responsabilità, l’oscuro rimescolamento. Non le impedisce la supplica: che la vita mi venga sempre in soccorso perché non debba dimenticare il dono della misericordia, di esercitarla, di nutrirla, simile a una spada conficcata nel fianco. Vorrebbe trovare le parole giuste, è una vittoria, non una sconfitta, raggiungere la perfezione della pazienza. Aspettava la luce dunque del pomeriggio presto, la luce che piombava alla fine dell’orizzonte e che seduta sulla panca del porto fissava fino a smarrire la concentrazione, fino ad addormentarsi, sfinita da se stessa, dai suoi stessi pensieri agonici da cui nessuno poteva recuperarla, trarla come il fiore pronto a morire per destino, nato per chiudersi il tempo di un giorno. I suoi pensieri infantili, seduta sulla panca del porto: quando morirò, mi spiacerà soltanto una cosa, non innamorarmi più, anche l’esser vecchia mi spiacerà per l’identica ragione. L’uomo brutale le rimescolava il sangue, nel qual caso non era oscurità, non era rabbia, era una follia, non le dava il modo di parlare, di reagire, ne era sopraffatta. Le bastava. Monsieur. Monsieur: sarebbe arrivato anni dopo, ma non avrebbe mantenuto le promesse forse o forse sì.

Mademoiselle aspettava ancora il grande amore.  Esser bella era un dovere, pensava. A vent’anni lavorava dietro il bancone di un pub. Il giovedì organizzavano certe orribili serate a tema, con la moda dei balli di gruppo che aveva contagiato la città, una specie di bubbone malefico, diceva ridendo agli amici di allora. Non aveva amici a dir bene, ne aveva tre anzi, Salvo (che leggeva i Ching), Sebastiano che oramai aveva perso il senno, Alfredo che si bucava. Indossava gonne a pieghe fuori moda, scarpette col tacco e maglioni color pastello aderenti in vita. Era sempre stata vanitosa, allo specchio sistemava i capelli, morbidi, sulle spalle, oppure li alzava sulla nuca, truccava le labbra e passava appena un po’ di cipria rosa sugli zigomi. Esser bella era un dovere, pensava, ma esserlo alla sua maniera. Il giovedì a volte i marinai russi facevano una gran caciara, uno di loro, che sembrava un capitano, alto, severo, la invitava con modi romantici offrendole il braccio, come  i signorotti di Mosca, nei salotti di Dostoevskij, dei romanzi di Dostoevskij. In quel momento il vecchio megafono suonava Edith Piaf. cropped-vvvvvv.jpg

Dopo il sole del pomeriggio, tornava al tempio.

Torno al tempio e mi sembrano secoli trascorsi, oggi, di traverso tra me e le pietre bianche che conducono al sentiero. Nel frattempo, credo di aver vissuto sempre meno. Al momento vigilo dalla torre, sono isolata signori, sì è così, bastioni e terrapieni ricolmi di superbia, la superbia tiene distanti gli altri, il mondo, le cose. Al tempio siedo sulla solita panca, le panche sono il talamo, letto d’ospedale, di morte, proscenio di indicibili conversazioni, come i soliloqui dell’ubriaco della Karlsgasse. In attesa della contentezza, l’ubriaco kafkiano mestamente ammetteva di non aver capito. Credo che smetterò di chiamarlo tempio, il tempio sono ruderi, hanno smesso di esercitare prestanza o vaghi richiami a qualcosa di cui ho smarrito il senso. Il mio problema si chiama noia, non sarà affatto facile trascinarmela dietro, una volta chiuso con la vanità e certe betise, che a superare un po’ di anni inducono alla pietà, la cagionano negli altri. Guardandomi intorno la gente mi par matta, perché vive, ho dimenticato la differenza della luce del cielo quando piove o tira vento o piove, la dice lunga sul mio stato di alienazione esclusiva. Ma a chi importa? Ogni post  tedierà chi lo incontrerà per caso: ma per chi scrivi? E’ una domanda questa? 

(continua)

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Romanzo – Amore 10 (qualcosa di sconsiderato)

I giorni di dicembre per Mademoiselle erano i più difficili, malgrado fosse proprio dicembre il mese del suo compleanno e fosse l’avvenimento che aspettava impaziente, la brava bambina, desiderando un gesto inatteso tutte le volte. Qualcosa di sconsiderato. La sconsideratezza è il coraggio degli amanti. Una lettera, monsieur, o rivedere quell’uomo brutale al quale non riusciva a sottrarsi. Era molto più giovane, era quasi perfetto, la sua pelle nera era lucida e tenera come il velluto. Quel suo perdere la testa era una prassi. Perdere la testa nel momento sbagliato. Sentimenti diversi, anomali. Quanti uomini puoi amare, mademoiselle?v8

L’incertezza non faceva parte del suo mondo sentimentale. Dove c’erano solo due possibilità, sì o no. E invece adesso le possibilità si aprivano ingovernabili consigliandone altre ancora. Quanti uomini puoi amare mademoiselle?

Mademoiselle era impregnata del suo passato, era la somma dei suoi rimpianti. Indossava un vestito lungo, retrò, annodava i capelli sulla nuca, il rossetto mirtillo, andava al tempio. Sedeva con le anziane, con le quali amava tacere spesso.

Tornai al tempio. Oramai evitavo l’ebreo, tutti quei discorsi, la sua conversione a posteriori, forse per accidia o non so cosa, consideravo ogni dettaglio una posa, una balla anzi. E comunque doveva smetterla di seguirmi. Odiavo certe ostinazioni. Ero sola oramai, capace come al solito di disintegrare tutte le consuetudini praticate fino al giorno prima. Tutti quei discorsi, magari per portarmi a letto, come seconda recondita possibilità, o sperarci soltanto, andate al diavolo. Era davvero così ridicolo l’essere umano nelle sue maldestre congetture. Andate via. Liberatemi dall’assedio. Da parte mia, ero sempre più sicura di non essere capita, cioè le mie 180 righe di rubrica quotidiana non interessavano a nessuno, posto che la voce dell’uomo della strada è un idiomatismo. Ma chi è costui? L’uomo della strada. E quando chiedo a qualcuno: ma dove sta andando la ragione, dove la bellezza, la gentilezza? Non rimedio risposta, un’alzata di spalle, non vengo capita. Allora dico alla vecchia di via Dione: dovresti leggere Gadda. Lei mi guarda zitta e tira fuori dalla sporta una mela, io rifiuto allora, no no, grazie. Preferisco no. Seppur tutti.

Mademoiselle scriveva ancora, mademoiselle era la somma dei suoi rimpianti.

Il nostro Natale in centro commerciale: odorava di pollo arrosto, di disinfettante, di bucato, di una pratica domestica così nuova tutte le volte, eppure, niente mi spostava dal mondo, dal suo equo distendersi da una parte all’altra. Ho vinto la guerra, l’ho vinta sì. Sapevo che saremmo tornati a casa. Ecco, troverei un assillo, l’ennesimo: si chiama casa. Cos’era il Natale in centro? Non ne avevo paura, anche se gli amplificatori emanavano la voce della Winehouse. Era lo stoccafisso decapitato. Ero affranta. Passava presto, però, giravamo per reparti. Il bambino frugava negli scomparti delle merendine. Tu fischiavi.

Chiuse le virgolette. Ho premuto il tasto canc.

(continua)

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