Monthly Archives: November 2013

Masterpiece? Meglio la Santacroce

Avevamo davvero bisogno di un talent sugli scrittori? Se ne è già scritto, è vero, tant’è non raccogliamo un vero tripudio al momento. Oggi su Masterpiece torna – con la sua geniale irriverenza  – il critico rock Gian Paolo Serino (concedetemi la licenza), sopra le righe come è nel suo stile. Ho chiesto a lui che di libri ne scrive e ne parla da anni, nei maggiori quotidiani, lui che è anche direttore editoriale e fondatore di Satisfiction,  in radio (ogni giovedì dalle 14 su R101 con Flavia Cercato e la Gialappa’s band), nei salotti che contano, con un suo autorevole auditorium, peraltro seguitissimo ovunque, basti pensare che sui social network le sue opinioni diventano un must.

Gian Paolo Serino, direttore editoriale e fondatore di Satisfiction, critico, ha collaborato con i maggiori quotidiani e magazine dedicati alla letteratura. Ogni giovedì parla di libri su R101

Gian Paolo Serino, classe 1972, critico, direttore editoriale e fondatore di Satisfiction, ha collaborato con i maggiori quotidiani e magazine dedicati alla letteratura. Ogni giovedì parla di libri su R101

L’ho intervistato.

Gian Paolo secondo te quali connotati (talento, personalità, e così via) dovrebbe avere il vincitore di Masterpiece?
Essere un lettore. Fare poesia non con la vita, ma con la propria esistenza d’inchiostro, con le proprie parole. 
Di quel che hai visto fino adesso cosa ti ha convinto? O al contrario, cosa non ti ha convinto?
Il montaggio lo trovo televisivamente innovativo. Io avrei cambiato il titolo: Mistresspiece…
Perderà qualcosa la letteratura con questo precedente, cioè con un talent sulla scrittura?
Non credo che la letteratura italiana possa ormai perdere più di quel che ha già perso: non esiste più     letteratura, esiste la narrativa. 
Chi manderesti nell’arena di Masterpiece (ma non lo è un’arena)? 
Non credo sia un’arena, magari: credo sia un esperimento interessante, ma mal riuscito per tanti versi. Lasciamo ancora spazio alle prossime puntate. Credo molto negli autori del programma, come Edoardo Camurri o Giancarlo de Cataldo. Quel che mi dispiace è che stia diventando una succursale di RCS con tutti ospiti Bompiani e Rizzoli. E i medi e piccoli editori? Come al solito esclusi. Come sempre. Comunque una Isabella Santacroce che frusta i concorrenti che sbagliano la vedevo bene. Basta giochi dove si esaltano solo i vincitori. Bisogna buttare nel fossato chi perde. Se no, che senso ha? 
I giudici, li lasciamo così, ne aggiungiamo qualcuno?

Dove c’è un giudice esiste una ingiustizia.

Per la prossima edizione cosa consiglieresti al direttore di rete Andrea Vianello?
Un format nuovo: un talent show non per imparare a scrivere, ma per imparare l’italiano 

Masterpiece, tutta la tristezza in un flop (Il Fatto)

Masterpiece: quota meno 130 mila spettatori all’incirca. Ci sarà un motivo, no? L’immagine di Walter Siti e l’avvocato pariolino (lo chiama così la voce fuori campo) in ascensore, 59 terrificanti secondi, sarà un cammeo da conservare. E deve riguardare soprattutto gli aspiranti scrittori, o gli scrittori un po’ sfigati il che è uguale, alle prese col proprio delirio, il delirio si chiama romanzo di solito. Ecco come diventiamo, ecco cosa capita al nostro interlocutore (editor, impenetrabile autore del prestampato ove cortesemente ci mandano in quel paese lì, nel senso del “mi spiace ma”, consulente dell’editor e così via), ecco quale ridicola congiunzione confabula dietro ai no rimediati. Il silenzio paziente di Walter Siti sarà un must o un monito, smettiamola di torturare la gente, capiamolo prima, al quinto sesto rigo, basta, chiudiamola lì.

Walter Siti in ascensore ascoltava il finalista Alessandro Ligi, 49 anni, single di Roma di quella Roma bene – spiega la voce fuori campo – che fa le vacanze al Circeo. Un post yuppie che ispira al massimo il modello unico del Cud (non mi quereli, signor avvocato, la prego). Alessandro Ligi riassume in 59 secondi il suo romanzo, “la storia di Luca della Roma bene (rieccola, nda) che si innamora della moglie dell’amico” ( storia da pianerottolo, no no, va bene). E’ una delle ultime prove, c’è lui e il serbo Nikola Savic (36 anni nato a Belgrado), Savic però è il primo a partire, dice poco, autocontrollo balcanico, bravo. In ascensore, con Siti. Chi vince? Il pariolino si sentiva in una botte di ferro, lo ammette in confessionale: ero sicuro di vincere. Eh?

Ma vince Savic, nella sua seconda lingua, col suo romanzo di formazione, di iniziazione al sesso alla violenza alla vita, giovane di Belgrado che torna in patria, dopo la guerra, profugo di guerra, ma di quel profugo e di quel che attiene alla scrittura dell’esilio, dell’assenza, al senso che ne dovremmo guadagnare – dallo spaesamento a una nuova lingua meticcia, non soltanto da mittleuropa – non ne caviamo nulla. Peccato. Savic sembra un ragazzone di certi quartiere popolari, adepto rapper di una crew, uno abbastanza fuori con un timido genio, non riesco a spingermi oltre. Con il pariolino mi ero quasi convinta che la nuova password d’accesso per l’editoria non fosse una trave dentro la cruna d’un ago, ma una normalizzazione estesa. Una specie di medio man dal quale prendere un po’ tutti esempio. Vince Savic, tranquilli.

 

L’articolo originale nell’edizione cartacea de Il Fatto Quotidiano di martedì 26 novembre 2013

nel giardino di aranci con Janek

Nel sogno di stanotte c’era Janek. C’era un giardino di aranci, somigliava al podere di un amico, io ero là. Janek teneva un assurdo cappello di lana calato sulla nuca, aveva gli occhi verdi, mi sorrideva. Era un omone. Pensavo: oh adesso arriva lui e mi fa una di quelle scenate spaventose. Janek nel sogno diceva che ero molto bella, allora mi vedevo in uno specchio, avevo i capelli legati, indossavo dei grandi orecchini a cerchio. Ero giovane. Lui non si arrabbiava, anche se Janek apprezzava la mia bellezza, ma non lo sono così come nello specchio in cui mi fissavo, nel sogno di stanotte. Allora sono andata verso l’uscita, intercettavo una porta, era verde, di legno, aprivo ed era la casa prima. Perché l’hai lasciata, mi affliggevo, perché non sei rimasta, anche se lui è andato. Era casa tua, lo sarebbe ancora adesso, e invece l’hai lasciata.

questo mio mondo

Prima di dormire, sono tornati a trovarmi, con certi sorrisi, la loro indulgenza, il loro amore. C’era lui, sparito chissà dove, poi l’amico ebreo, il professore. E’ stato terribile, vorrei non pensarci più. Questo mio mondo è finito. Mi mancano le parole. Posso soltanto tradurre quel che tutte le volte dico in un sussurro, pensando a loro, era un patrimonio umano, uso proprio la parola patrimonio, la ripeto patrimonio. Niente mi era dovuto, ed era moltissimo, avevo moltissimo. Continuano a mancarmi le parole, mi trascino alla fine del post. Così attraverso il tempio, guardando a terra, temendo il solito paesaggio, i passanti anonimi, e realizzo il mio privilegio. Visto quanto hai vissuto, dico tra me e me; visto quanto amore hai avuto, quanti giorni speciali. Altri pensieri non li traduco, sono ingiusta, vorrei metterci un punto e salutare tutti.

gastarbeiter

Quando torno al tempio, evito le vecchie, ormai. Loro mi osservano sedute più in là. Faccio finta di non vederle. La signora V. è un’immigrata di Germania, proprio come noi terroni dicevamo una volta, è una gastarbeiter, cortesemente accolta, nella ruota efficiente del sistema produttivo teutonico. Evito la signora V. perché è piena di amarezza, il suo pragmatismo è diventato cinismo da un pezzo, il suo sguardo nell’insieme è una smorfia di disgusto, soltanto perché non è stata amata e glielo dico, l’ho fatto: lei non conosce l’amore. La signora V. mi ha riso in faccia. La storia è sempre la stessa, gli uomini sono tutti uguali, ma il suo è stato un matrimonio combinato da famiglie di un entroterra primitivo, esistono certi accordi tribali, sono crimini. La signora V. non prova tenerezza, mai.  E’ andata a Colonia attraversando le montagne, a piedi o in ducati rumorosi e puzzolenti. Suo marito sembra un marrano, pover’uomo, e invece è stato un uomo terribile, beveva e giocava d’azzardo e imprecava sulla moglie che faceva la serva per i tedeschi, pulendo cessi e strofinando pavimenti. Lui è piegato che sembra un uncino, lavorava in fabbrica e quando usciva si infilava in un caffè fino a tarda notte, bevendo fino a morire. Ma non moriva. Perché vi racconto questo? Perché la signora V. mi incontra per consegnarmi i suoi impazienti anatemi, per raccomandarmi di aspettare il mio destino di sconfitta, soltanto perché sono una donna, una moglie lasciata sola sul talamo della vergogna. Non è la stessa cosa, ma la signora V. non capisce, nemmeno quando accorata le spiego che sono la vedova bianca di Isaia. Le sue labbra sono una piega crudele allora, per questo lascio perdere.

La narrazione di una Sicilia che non esiste (Il Fatto Q.)

C’è una Sicilia che non sta da nessuna parte, delle Marianna Ucrìa, delle trazzere, degli interni di montalbana memoria; credetemi  – allo stato dei fatti – questa Sicilia non esiste. E’ degli scrittori che non la conoscono o che la ricordano altrove e la verità esotica degli scrittori che parlano di una Sicilia che non esiste è abbastanza irritante.

Ci pensavo di recente, guardando per la milionesima volta lo stesso episodio del commissario Montalbano che a un certo punto (lì però l’autore magari non c’entra, semmai lo sceneggiatore) usa la parola “prescia”, ovvero fretta,  quasi un regionalismo, passato a miglior vita (più da centro Italia), di innesto nell’altro (dialetto) ancor più strano che non parla nessuno (non è siciliano, eppure dovrebbe),  ma che almeno non è l’absolute de La Piovra, innalzato nella sua autorevole “posticcità” con ameno stupore in ogni angolo della terra, e tuttavia sconfessato da Palermo a Calascibetta (siamo onesti). Montalbano parla un dialetto oriundo, nella fiction in special modo, o da senza patria, che aggiunge gadget su gadget, è una deriva inenarrabile. Sono espedienti letterari, giusto. Bisognerebbe avvertire l’immaginario di ogni lettore: leggete, apprezzate, evitate alla fine di crederci però, evitate le induzioni o le persuasioni che diventano verità-souvenir, mi raccomando.

Provate a venire in Sicilia e cercate gente che si esprima come il commissario di Camilleri o  Tano Cariddi o Don Vito Corleone e tutte le traduzioni a partire dal romanzo di Mario Puzo che pure ci poteva stare. O ancor meglio: entrate nelle case della gente: ma su, ma dove li trovate quei centrini sulle spalliere,  quei pavimenti con le ceramiche di Santo Stefano di Camastra e davanzali in marmo di Custonaci? O quelle beghine? Ma dove? Vestite di nero oppure no, eppur tendenzialmente propense, e uomini altrettanto antichi, o piuttosto trapassati, umanoidi inventati dalla fantasia hobbistica e fasulla haimé o maliziosa o facile: da Mario Puzo in poi, levato i grandi della tradizione verista, scordatevi quegli interni, quelle coppole, quei marranzani, quelle lupare. Conosco la Sicilia meticcia, da melting pot per quel che mi riguarda, dove i dialetti hanno perso ogni aggettivazione, il mondo è cambiato, i confini si spostano continuamente, è evidente. Quel che oggi si vuol riproporre in letteratura -anche in letteratura – è un paesaggio con il medesimo carattere, con le pale di fichi d’india, i muretti a secco, una guantiera di cannoli, è sempre il paesaggio generato da una mitologia che arranca fastidiosamente.

E non è autentica. Ed è la proiezione di solito che ci restituisce uno sguardo straniero, lo sguardo di chi la Sicilia non la conosce, fenomeno giustificato soltanto nelle comunità di siciliani nel mondo, lì il folklore ha l’imprimatur del nazionalismo – o corregionalismo –  che si chiama nostalgia. Tuttavia l’affermazione non manca di alcune riserve, persino le comunità di siciliani nel mondo si sono sganciate da certe leggende, tamburelli e marranzano forse anche lì hanno fatto il loro tempo. Si può raccontare l’anima di questa Sicilia nuova? Lo ha fatto molto bene in musica Carlo Muratori (www.carlomuratori.it) più da etnoantropologo che da compositore, dunque il discorso è altro, a metà tra la tradizione orale e la contemporaneità, lo fa superbamente la giovanissima Alessandra Ristuccia (http://www.myspace.com/nafsaldahib), con tutte le evocazioni opportune. Sono in molti a pensare che lo abbia fatto Giuseppe Rizzo con il romanzo, edito da Feltrinelli, “Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia” (una vera e propria guerra ai cliché di cui si diceva). E lo si può fare mantenendo lo stesso accordo di chitarra, raccontando qualcosa che attenga (se parliamo di letteratura ad esempio) a un verismo di ritorno, che non prenda in prestito altro che il presente, un presente in progress. Chi oggi è in grado di raccontarla questa nuova Sicilia? Non somiglia a nessun’altra, nemmeno al suo alter-ego ruffiano che poi è quel che raccogliamo o vediamo un po’ ovunque, tv, romanzi, riferimenti di ogni tipo. Questa Sicilia non ha un solo carattere, non ha nemmeno più un vero dialetto. Il pittore di Bellano, Velasco Vitali, lombardo, dalle sue radici immote, riuscì a intercettarne il tratto desueto, il più vicino alla verità, la luce nera. Ci vuole coraggio o incoscienza, non saprei dire, per ammettere che la terra dei gattopardi è finita; che bisogna rivedere ogni dettaglio, ogni allegoria utilizzata, ogni simbolismo. Non stiamo profanando il tempio, siamo orfani. Pretendiamo uno skyline siciliano, ma che sia aggiornato, per favore.

( l’originale potete leggerlo nell’edizione cartacea de Il Fatto Quotidiano di sabato 9 novembre 2013)

uno spiraglio di salvezza

Il tema dell’ultimo, del diseredato, dell’emarginato le sono molti cari. Queste persone che vivono “ai margini” la considerano come uno spiraglio di salvezza? Come colei che può dar voce a chi urla ma non viene ascoltato?

Dipende. Per qualcuno lo sono forse, casomai nella vita di tutti giorni e non sempre; mi hanno scritto lettori commossi, colpiti, sì è successo; ma è capitato anche che abbia raccolto l’indignazione di donne polacche che non si sono riconosciute nei miei scritti, accusandomi di aver inchiodato un popolo intero, il loro, allo stigma di miserevoli accattoni. Falso.  Parlo di una certa umanità, di uomini dell’est, polacchi in special modo, è vero, ma con amore, raccontando una strana malattia: lo sradicamento, l’alienazione. Ho raccontato storie di solitudini, ecco tutto.

L’intervista per intero nel blog di Cristina Sorbera, qui: http://sorberasilvestra.wordpress.com/2013/11/08/veronica-tomassini-scrittrice/

Yurek, Gregorio, Jaruzelski

“I vecchi più in là alzavano la voce, discutendo per qualcosa, ed era tutto molto simile a certi conviti domestici e Yurek ricordava ancora e anche fuori la bettola di Zdunek era così, si litigava bevendo, si era uomini, si apparteneva a qualcosa. Yurek era un militare, conosceva la disciplina e l’amor proprio. E la sua solitudine lo colse d’inganno, ecco tutto. Quando aveva cominciato a perdere? Quando aveva cominciato a sputare sul suo Paese, sul suo partito? Viva il socialismo, berciò. Jaruzelski lo guardava senza colpa, gli occhi una fessura”.

Il resto puoi leggerlo qui, nel blog del Fatto: http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/05/libri-solitudine-almeno-prima-si-apparteneva-a-qualcosa/766647/

la rota di Yurek

Ogni mattina Yurek sedeva sulla panca del parco. Malediceva la sua vita, lamentandosi e tenendo il suo stomaco bucato, con un braccio secco e tremolante. Ti urlava, “kurwa, smetto domani, giuro che smetto“, perché stava male, adesso conoscevo anche la rota degli ubriaconi. Tu non volevi che io sapessi, voltavi la mia faccia con delicatezza da un lato, pregandomi di non guardare, misek, non guardi prego. Yurek rigettava alcol e maledizioni, temeva di trovarsi come Gregorio o l’altro – Jaruzelski – nello spazio d’un mattino, addossato al tronco della magnolia, incapace di sollevare le gambe nere. Quella era la fine. Gregorio non si alzava più, non restava che aspettare, aspettare che morisse con le spalle abbandonate al tronco della magnolia, eretto innaturalmente. Vedevo tutto questo, allora, un montaggio mostruoso di quel che poteva diventare la vita a lasciarla fare senza giudizio o indugio. Yurek avanzava verso di te allungando il suo braccio secco, non capivo, chiedeva spicci, tu frugasti in tasca, ricominciava il giro, ricominciavate a bere. Yurek la rota non la faceva fino alla fine, perché beveva prima. Come quel personaggio di Hlasko, ancora lui: “la fine è sempre la fine, dovremmo risolverci a finirla quando ormai tutto è alle nostre spalle“.

(continua)