C’è una Sicilia che non sta da nessuna parte, delle Marianna Ucrìa, delle trazzere, degli interni di montalbana memoria; credetemi – allo stato dei fatti – questa Sicilia non esiste. E’ degli scrittori che non la conoscono o che la ricordano altrove e la verità esotica degli scrittori che parlano di una Sicilia che non esiste è abbastanza irritante.
Ci pensavo di recente, guardando per la milionesima volta lo stesso episodio del commissario Montalbano che a un certo punto (lì però l’autore magari non c’entra, semmai lo sceneggiatore) usa la parola “prescia”, ovvero fretta, quasi un regionalismo, passato a miglior vita (più da centro Italia), di innesto nell’altro (dialetto) ancor più strano che non parla nessuno (non è siciliano, eppure dovrebbe), ma che almeno non è l’absolute de La Piovra, innalzato nella sua autorevole “posticcità” con ameno stupore in ogni angolo della terra, e tuttavia sconfessato da Palermo a Calascibetta (siamo onesti). Montalbano parla un dialetto oriundo, nella fiction in special modo, o da senza patria, che aggiunge gadget su gadget, è una deriva inenarrabile. Sono espedienti letterari, giusto. Bisognerebbe avvertire l’immaginario di ogni lettore: leggete, apprezzate, evitate alla fine di crederci però, evitate le induzioni o le persuasioni che diventano verità-souvenir, mi raccomando.
Provate a venire in Sicilia e cercate gente che si esprima come il commissario di Camilleri o Tano Cariddi o Don Vito Corleone e tutte le traduzioni a partire dal romanzo di Mario Puzo che pure ci poteva stare. O ancor meglio: entrate nelle case della gente: ma su, ma dove li trovate quei centrini sulle spalliere, quei pavimenti con le ceramiche di Santo Stefano di Camastra e davanzali in marmo di Custonaci? O quelle beghine? Ma dove? Vestite di nero oppure no, eppur tendenzialmente propense, e uomini altrettanto antichi, o piuttosto trapassati, umanoidi inventati dalla fantasia hobbistica e fasulla haimé o maliziosa o facile: da Mario Puzo in poi, levato i grandi della tradizione verista, scordatevi quegli interni, quelle coppole, quei marranzani, quelle lupare. Conosco la Sicilia meticcia, da melting pot per quel che mi riguarda, dove i dialetti hanno perso ogni aggettivazione, il mondo è cambiato, i confini si spostano continuamente, è evidente. Quel che oggi si vuol riproporre in letteratura -anche in letteratura – è un paesaggio con il medesimo carattere, con le pale di fichi d’india, i muretti a secco, una guantiera di cannoli, è sempre il paesaggio generato da una mitologia che arranca fastidiosamente.
E non è autentica. Ed è la proiezione di solito che ci restituisce uno sguardo straniero, lo sguardo di chi la Sicilia non la conosce, fenomeno giustificato soltanto nelle comunità di siciliani nel mondo, lì il folklore ha l’imprimatur del nazionalismo – o corregionalismo – che si chiama nostalgia. Tuttavia l’affermazione non manca di alcune riserve, persino le comunità di siciliani nel mondo si sono sganciate da certe leggende, tamburelli e marranzano forse anche lì hanno fatto il loro tempo. Si può raccontare l’anima di questa Sicilia nuova? Lo ha fatto molto bene in musica Carlo Muratori (www.carlomuratori.it) più da etnoantropologo che da compositore, dunque il discorso è altro, a metà tra la tradizione orale e la contemporaneità, lo fa superbamente la giovanissima Alessandra Ristuccia (http://www.myspace.com/nafsaldahib), con tutte le evocazioni opportune. Sono in molti a pensare che lo abbia fatto Giuseppe Rizzo con il romanzo, edito da Feltrinelli, “Piccola guerra lampo per radere al suolo la Sicilia” (una vera e propria guerra ai cliché di cui si diceva). E lo si può fare mantenendo lo stesso accordo di chitarra, raccontando qualcosa che attenga (se parliamo di letteratura ad esempio) a un verismo di ritorno, che non prenda in prestito altro che il presente, un presente in progress. Chi oggi è in grado di raccontarla questa nuova Sicilia? Non somiglia a nessun’altra, nemmeno al suo alter-ego ruffiano che poi è quel che raccogliamo o vediamo un po’ ovunque, tv, romanzi, riferimenti di ogni tipo. Questa Sicilia non ha un solo carattere, non ha nemmeno più un vero dialetto. Il pittore di Bellano, Velasco Vitali, lombardo, dalle sue radici immote, riuscì a intercettarne il tratto desueto, il più vicino alla verità, la luce nera. Ci vuole coraggio o incoscienza, non saprei dire, per ammettere che la terra dei gattopardi è finita; che bisogna rivedere ogni dettaglio, ogni allegoria utilizzata, ogni simbolismo. Non stiamo profanando il tempio, siamo orfani. Pretendiamo uno skyline siciliano, ma che sia aggiornato, per favore.
( l’originale potete leggerlo nell’edizione cartacea de Il Fatto Quotidiano di sabato 9 novembre 2013)
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