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La storia di un’ossessione – Una solitudine.

C’è un monte di cenere. E’ una immagine di desolazione efferata per quanto rappresenti essa soltanto la solitudine in cui era necessario dimorassi. Lo spirito negletto, o tacito, che reprime il singhiozzo, sprofondato nelle tenebre di una qualche vicenda temporale e per ciò transeunte. Era necessario. Era necessario il monte di cenere. Sapete come certe disfatte, la fine di un mondo, un lasso. Ogni cosa predestinata a consumarsi. Io sulla cima, un colle di lapislazzuli fragilissimi, effimeri, guardo infastidita svolgersi la trama e non so ancora dare un nome all’attimo sovrapposto all’altro, una china sopra l’altra, per assommare destini, destini svuotati, abitati da mancanze, terrori giusti perché l’uomo sia raffinato nell’oro, provato, bruciato. La vita degli altri mi fendeva e feriva persino nella precisione noiosa, era la vita borghese e irreprensibile, non concedeva ristoro, similmente alla luce scoppiata del mezzogiorno sbattuto contro i palazzoni popolari. La violenza del cielo terso fino alla cecità. Rondinelle ondeggianti, finanche loro esitavano in talune ore del giorno, par così di assistervi, il requiem sopra la vita. La vita, gettata, arrotata da istinti maldestri, volgari amenità da raccogliere e tenersi come un pegno, un dazio irriconoscente.

La solitudine in cui dimorare era un anello del destino. Il più tenace. Da subito, annunciato. Quando? Mi chiedo. Quando il mio vagito soffocava dentro una culletta, in una stanza bianchissima di una casa in stile patrizio, con un lungo viale polveroso. Ramingo. Io nella culletta. E un canto. Era mio padre? Ricordo le parole: canne al vento. E malgrado fossi un’infante, vedevo molto chiaramente il canneto piegarsi alle spire che provenivano dal mare, la luce era blanda e ingrigita. Una solitudine necessaria, in cui dimorare. Poi lessi il diario di Christiane Felscherinow. La solitudine erano le rotaie gelide, dentro cui urlava l’eco di un treno, arrivava da estraneità irrigidite, da quale sconosciuta esistenza su cui gravare pulsioni e attese ignote? La solitudine in cui Christiane mi trascinava, oscurità mutilata da possibilità invertite, come la speranza, a mezzo di ineluttabilità argomentate dal dramma eterno di esistere per inciampare, inciampare per sollevarsi, sollevarsi e tendere alla luce. La luce desunta da ombre cattivissime, negli slummies, dove smarrivano i suoni, intronati e confusi, smarrivano alla stregua degli aloni opachi impressi sui volti. Smarrivano i colori. Individui sottili, disegni senza profondità, un quadro di Bonnard, Denis, Vuillard.

Una tela enorme di paurosa laconicità, di errori moltiplicati nella caricatura, dicono i fauves, traduzione appassionata di un gesto, una qualche vita. Christiane negli slummies, il suo chiodo nero, i jeans cuciti sulle gambe sempre più magre, le scarpe da donna. Dietro di lei si allungava il leviatano, smisurato e nero, la galleria dove l’umanità spariva, inghiottita da velocità bestiali, prive di un orecchio spirituale, secondo l’assunto degli artisti del primo dopoguerra. L’uomo dell’età borghese allora aveva una discreta ed elegante ragione per cui osteggiarlo, rigettava il suono del mondo, non pronunciandosi. Filisteismo con una edotta capacità di determinarsi. Ma non era il mio terrore, contemporaneo e acerbo insieme perché riguardava me, una giovinetta.

La solitudine necessaria avrebbe marciato lungo gli anni, come lungo il sentiero bianco e polveroso della villa patrizia un rapace introverso. Un piccione d’allevamento, il gabbiano lungo i fili, il tacchino domestico preparato a marce inverosimili per la sua natura.

E c’erano distruzioni necessarie, non ricapitolo i versetti del profeta Qohelet. Eppure il senso è inevitabile. Il bisogno della stagione del raccolto divelto, la gramigna, i covoni magri.

E c’erano sogni di redenzione per ogni visionario, da appaiare alla necessaria solitudine. Non ho mai udito lamento più stanco dell’uomo giusto che non riesce più a pregare, che non raggiunge la tregua disperante, la requia nella giaculatoria, dopo il pane dell’afflizione, l’acqua della tribolazione.

Così è cominciata, capite, senza sapere che ogni parola appresa, amata, ogni pagina sfogliata, non era altro che il termine svuotante, il termine svuotante è la solitudine necessaria. La solitudine necessaria è la medesima pagina de La livella di Totò, che leggevo e rileggevo, confortata alla scheggia tremebonda di un lumino. Pinnacoli di mestizia ad ogni capoverso. Una mestizia non riconosciuta, che non avrebbe rischiarato mano mano, fino a rivelarsi, l’antipodo di qualcosa a venire. Il preludio. L’inizio o la fine?

E invece il significato è nella circolarità, non l’inizio, non la fine, ma la circolarità, in cui l’inizio coincide con la fine.

E quella è l’eternità.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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