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Gli amori difficili di mademoiselle (Il fatto Quotidiano)

La primavera torna sempre. Sparissero pure tutte le rondini del cielo. Aveva scoperto un nuovo angolo da cui osservare qualcosa, l’indefinibile che l’afferrava simile a un conto in sospeso con l’incognita, l’incognita le era ostile, l’incognita era un giorno di dicembre, una mattina di pioggia, la porta che si chiude. L’uomo la saluta, va via. Non ritornerà. Lei, mademoiselle, apre il palmo della mano, fissa la banconota. La saluta con una banconota di piccolo taglio.

 

Mademoiselle ride. Ride mentre nutre la sua serpe. La nutrirà a lungo. Aspetterà il perdono. Perdonare è un verbo, no non lo è, è un viaggio, lunghissimo, faticoso, come la fede. Ride, mademoiselle. racconto il fatto

 

Era un giorno d’estate. C’era una spiaggia, alla fine del porto. I fenicotteri beccavano l’acqua poggiati su una zattera di legno. La zattera era una boa. Un giorno finirà tutto, mademoiselle. Chiuderai gli occhi e sarà finita. E il buon Dio asciugherà le tue lacrime, contate nella Sua sacra otre, come i tuoi passi, la tua schiena stanca non solleverà altri gioghi sotto cui arrendersi, la memoria provata. Dardi, uno sull’altro. Mademoiselle, non ti difendi.

 

Mademoiselle e i suoi amori. Era marzo. No, era un giorno d’estate. Seduta sulla roccia, come un tempo da ragazza, sulla rupe, i giorni della periferia. La polvere si radunava in vortici. Non c’era niente, precipitava tutte le volte. Precipitava nel vuoto.

 

La raggiungeva la salsedine e il vento umido proveniente da sud est. Ricordava un tale. Un tale di nome Andrea.

Andrea lo chiamavano u cavalere, il cavaliere, non aveva niente nei modi che fosse cortese, niente di delicato nelle sue fattezze di uomo mal riuscito. Era un ragazzo veramente, ma rovinato, come gli altri. Aspettava il tizio nel solito posto, dietro le case gialle, mentre i bambini giocavano a pallone e non andavano a scuola. Pensava  allora a Atze o Lufo, i ragazzi del Bahnhof Zoo. Aveva sempre loro nella testa. Andrea veniva dai palazzi dei Mao Mao, nomi dati alla miseria, i palazzi dei Mao Mao erano orinatoi. Facevano ombra l’un con l’altro malgrado sorgessero al centro di un deserto, in prossimità del mare. Ingeneravano crepuscoli. Oggi ne scriverebbe trattati sul loro stesso simbolismo. Andrea avanzava lugubremente la sera, i condomini tacevano finalmente, la loro umanità pregna di rancore. L’ultimo quartino lo finiva nell’androne, poi infilava la siringa in una crepa e scalciava il flacone con una rabbia rallentata dal flash che saliva subito, come una calda marea, un’esplosione di luci stellari e fiumi placidi che si mischiavano al mare all’oceano. Andrea allora diventava grande, persino migliore, finché non arrivava il colpo di sciabola alla schiena, i brividi, lo stomaco in gola.

 

Mademoiselle si svegliava certe mattine di sole con una gran voglia di vita addosso,  degradava tutte le volte nelle cose passate, nelle cose morte, che non sarebbero tornate più. Ecco che la domenica indossava i suoi soliti jeans, le scarpe comode, annodava i capelli sulla nuca, era pronta, usciva a metà mattina, andava in centro commerciale. Sorrideva o cantava o ammutoliva di colpo. Aspettava di rivedere qualcuno, di ritornare, dove? Dove mademoiselle?

 

C’era una via, voleva tornare nella medesima via. C’era una casa in quella via. Lascia perdere, mormorava tra sé. Lascia andare il tempo perduto o ti trascinerà. Mormorava.

Molti anni dopo scriveva al suo amore russo. Un amore fasullo. Orgogliosa di sé stessa, aveva finalmente dimenticato. Stava amando qualcuno di nuovo e quando sedeva al tempio guardava gli altri con una segreta felicità quasi a voler dire al suo immaginario pubblico di auditori: sapete, ho un nuovo amore.

 

Sergej portami a Parigi. Sergej era un amore fasullo su cui ridere o imprecare. Non valeva niente, solo qualche inutile parola per esercitarsi in una presunzione di eloquenza. In Rue de Poitiers. Andremo insieme. Fissava i ruderi dinanzi a sé. La gente vivere, come sempre, noiosamente, tenacemente, senza altro che quello, una piazza su cui affondare passi incerti, veloci, distratti, riluttanti.

E i giorni andavano.  Ed era estate. E l’estate torna sempre.

 

Mademoiselle fissava – sulla cima del poggio – il mare oltre la costa. E andando indietro negli anni, l’abitudine replicava la medesima postura, lei eretta sopra un poggio, una roccia, sul davanzale di una finestra, seduta, al piano basso di un condominio popolare, guardare qualcosa, oltre un limite, un recinto, a volte un orizzonte, ciò dipendeva da uno stato d’animo, da una felicità, da una tristezza. Una cima o uno strapiombo dove lanciarsi con destrezza, con viltà o in preda ai brividi. Lo strapiombo sulla rupe in quel ciglione, nella periferia. Avrebbe voluto dimenticare. Adesso fissava dal poggio il castello, oltre la costa. Lo vedeva. Ai suoi piedi si stendeva un piano di cemento, il parcheggio interrato di un centro commerciale. La vita si svolgeva domestica e tranquilla. A lei mancava, cercava di scorgerla ancora, trovarla. La voleva indietro. Scese dal colle, davanti le porte apribili di un centro commerciale, attese un po’, le porte si aprivano e si chiudevano, nella sincronia intercettava un volto, il suo. E dietro quello incuriosito o torvo o assente degli avventori.  Invidiali. No, non invidiarli, ammirali.

 

Mademoiselle aveva perduto ogni ragione. E in special modo la ragione morale della sua disfatta. Pensò alla Sagan, La disfatta di Lucile non era esattamente lo stesso. Lucile aveva una capacità nuova per lei di aggirare la questione. Sedurre, vivere, piacere, darlo, riceverlo.

 

Cosa significasse non era in grado di dire. Il piacere. Cos’era?

L’estate era sempre un’attesa. Stavolta smorzata, un’ebbrezza da far implodere, un’ebbrezza inutile. Le porte apribili del centro. Entrò. Lei un tempo era felice, giusto?  L’uomo le stava accanto. A volte sorrideva o fischiava. Per un istante le sembrò tutto reale. Sedette. C’era la panca, era lì, aspettava. La panca aspettava il suo sgomento. Premette la tempia con il palmo. Era tutto vero. E invece no. Si guardò intorno. No. Non c’era nessuno.

 

L’originale è uscito nelle pagine de Il Fatto Quotidiano edizione del 29 agosto 2018

il link qui: https://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/gli-amori-difficili-di-mademoiselle-affacciata-sul-mare/

 

 

 

 

diario

Sono dimagrita ancora. Stavolta me ne accorgo. Posso nutrirmi soltanto con un gesto d’amore. Non è un’indicazione terapeutica sentimentale. E’ una verità tremenda. Invece chi finisce dove sono finita io di solito si muove confusamente nell’incomprensione, nell’amore distratto nella migliore delle ipotesi. Ieri torno nel quartiere ebraico. Non cerco l’individuo, per il quale non sento un vero trasporto, piuttosto un segreto risentimento. Lo incontro lo stesso. Sono risentita per un milione di cose. E anche monsieur mi ha deluso, il francese. Ce l’ho anche con lui, con le sue promesse fasulle, che non gli avevo chiesto, per evitare che non le mantenesse. E non le ha mantenute.

Ieri ho indossato un vestito lungo, scucito ai fianchi. L’ho scucito io perché la pressione dell’elastico scatenava i soliti dolori. Uno di quei vestiti a sacco che odio, a cui mi costringe la cronicità, ogni mese. Sono senza tette. Le mie gambe sono lunghe e secche. Lunghe poi, si fa per dire. Che fortuna non aver partorito una figlia come me, sono una cambiale, portatrice di fastidi, apprensioni, amarezze. Lo penso con sincerità.

Chi si butta nel fuoco per me? Comincio a mangiare.  Smetto di regredire. Ieri siedo nel sagrato della chiesa. Non mi sento così carina, come a volte mi capita, quando i capelli stanno a posto e tutto suggerisce armonia. Si siede un padre un bambino con un cane, sono costretta a fargli posto. Il cane si accomoda ai miei piedi. Assurdo. Potremmo essere una famiglia, ma io non c’entro niente con loro.  Così arriva il quarto soggetto, quello giusto, la moglie, un po’ irritata, siede tra me e il figlio, ha la voce incrinata dall’irritazione sì. Come se non fosse stato il marito a chiedere di sedersi. Il marito. Se lo tenga, e stretto. Vanno via. Il marito gentilmente si congeda con un sorriso, lei stringe la borsa e tira dritto, neanche un saluto.

Bah.

Io provo a chiedere aiuto. Ma sono sola. Ho perso molti chili. Mi guardo allo specchio, il mio viso lo posso chiudere nella mano.