Sembra che il dolore appaia furbescamente la luce del giorno alla condizione dello spirito fino a diventare uno stato dottrinale, persino un pensiero fisso, un giudizio filosofico; la luce e il dolore e questi la spegne o la rinserra in chiarori opprimenti, un sole dai raggi bianchi, tiranni, che non libera, non rivela. La luce che piomba sulle ombre per rischiararle, nel giudizio estremo, non ci è dato indagare subito, il dolore dapprima la osteggia, la insegue con fatica e la restituisce larvata di tutte le oppressioni.
La camera d’albergo quel giorno di settembre non aveva che un refrigerio smorto e un barlume ibrido sui muri. Era la sostanza della mia stessa solitudine che rifrangeva inutile sulle pareti, la cascata improvvisa, sbucata da una ferita sulla roccia, ecco, ma non sottraeva dirompenza e stupore altrove, no, la solitudine rimpiattava blandamente quel che il mondo circostante, in quanto circostanza empirica e non precisamente verificabile, definiva: noia.
La noia nascondeva il tormento perenne. Ogni luogo, ogni rintocco, ogni aurora, ogni frescura, non era che un rimando, un’invocazione, l’amore smarrito, ovunque, lo cercavo senza più saperne l’antica ragione che lo distraeva da me, senza più riflettervi abbastanza, stanchissima, in una disperazione che non brillava, non poteva, scolorava sul mio volto, dalle guance scavate. Era quel che vedevo dinanzi lo specchio di una toeletta, estranea, destinata alla promiscuità, al sostare provvisorio dell’individuo che non è nostro, non è l’intimo straziante legame, è l’altro, chiunque.
Scrivevo oramai nel gesto compulsivo, romanzi, che non lo erano, ruscelli che affioravano dagli anfratti delle dimenticanze, spesso erano fallimenti, lutti. Dovevo perdere qualcosa, patire, allora la ferita, come la cascata sulla cima della roccia, diventava la stimmate, la piaga da cui sgorgavano parole brucianti, in superficie non mie, può darsi pacifiche. Non lo erano affatto, nella seconda rilettura qualcun’altro avrebbe dovuto sorprendere il significato recesso, che allargava nella maglia cedevole, un pensiero franava sull’altro, si trasformava in consapevolezza, nell’intuizione che procura stordimento e avresti voluto combatterla, abiurarla. Avresti voluto chiamare la ferita: locuzione.
Invece scrivevo perché non riuscivo a morire in altro modo. A fuggire, in altro modo. Era l’amore. O era il dolore. Ed era il medesimo agguato. La mia condizione di spirito era la primigenia biblica del tarlo annunciato dal profeta. Lo stigma dell’abbandono pronunciava nei millenni forse l’eco del mio nome. Me ne ero convinta. L’amico ebreo era morto e non poteva più convenire con me che la sposa afflitta della giovinezza, l’abbandonata, doveva essere risarcita, l’Eterno erigeva, intorno al suo smarrimento, un recinto di zaffiri. L’Eterno è buono. L’Eterno.
La mia scrittura era l’unica proiezione possibile in cui collocare una parvenza di vita. Non avevo trovato altra resistenza alla guerra che non avevo mai dichiarato. Non ricordo di non aver patito, non ricordo che l’aver patito. La scrittura procedeva, mi superava in aspettative. Negli anni, mi aveva consentito di viaggiare; ignorando la tensione che da sola procurava, e di me, di quel che a me importava davvero nulla intendeva concedere. Ma non avevo chiaro ancora cosa fosse importante davvero per me, se non il vago concetto relativo all’amore. Vago perché delle molteplici assonanze o distonie non c’era una di questa in grado di conformarsi alla mia necessità. Uno stato di assedio.
Un assedio retrivo, mostrava ostilità e antipatia per l’incanto della gioia ignara e facile che scoprivo ogni volta maldestramente o fastidiosamente per l’appunto nel modo altrui, stabilendo senza volere una implicita inimicizia con chi in certi deliri pareva vivere nella gaiezza, e vendicarsi, in fondo, leopardianamente, così mi sembrava, leopardianamente il repulso inimicato alla stirpe umana, specie avulsa e gaia in una incomprensibile maniera o costanza.
L’amore era la sedia vuota. Non rispondevo alla domanda: chi era seduto lì? Chi?
Restava l’alone, come della polvere su un vecchio calpestio, una raggiera intinta nella malinconia. Bisognava vivere.
Bisognava vivere, pur sapendo che una lama conficcata nel diaframma avrebbe compulsato senza tempo, senza clemenza, giacché non sapevo, davvero non sapevo, quale mancanza urlava da talune riserve di insolenza per ostinazione, governate appena.
Quale mancanza? Chi aspettavi? Eppure aspettavi. Cosa puoi desiderare se non conosci la destinazione esatta del desiderio, il connotato che lo distingue da una vanità qualsiasi.
Era l’amore. La mano poggiata sul vetro lo soffocava, ne mormorava la sventura, l’apocalisse sulla schiena.
L’aspettavo. Eccomi, non ero altro che arresa di già, doveva accadere. Di nuovo.
Doveva.
Sì?
(continua)
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