La storia di un’ossessione – Le ragazze.

Ci sono alcuni guizzi di luce sulla baia che rendono il fare del giorno vago, indeciso se pronunciarsi sul riassunto sbrigativo di quel che diventò il futuro, dopo i sette anni biblici. Il tossico, la periferia ingrigita e gonfia, che non avrebbe comparato mai, equamente, i tetti di Groupiusstadt con una brevità in certo qual senso capace di evocare suggestioni vere, la storia persino – mi riferisco al silenzio algido degli androni bui, infiniti,- e la violenza intorpidita dei luoghi in cui dimorava il mio destino. La sollecitudine delle agavi lanciate lungo la traiettoria di un vento di ponente, piegate con fatica, stanche, ansanti. La ferrovia interrompeva la bruma pesante, o il sole che talvolta scolorava e impigriva ogni buona intenzione, con il desiderio di un dopo, l’altrove galvanizzato, qualcosa di migliore.

Sedevo sull’orlo della disperazione, la postura dovuta. Disperarmi per il ribrezzo ingenerato dal mondo meschino, figuri elettrizzati sotto i raggi lisergici di mezzogiorno. Dovevo compiere un giro, chiuderlo, bordeggiare insulsità pensando lo fossero e non dettagli decisivi perché il disegno si realizzasse, molto alla fine. Era un disegno di salvezza. Ero arrivata alla fine, in fondo, così mi sembrava, alla fine di tutte le cose. Ed ero già morta. Avevo permesso che la mia fragilità si prestasse a essere consunta, oggi mi dico al pari di un’ostia. Era il progetto di salvezza. Lasciarmi attraversare dall’errore altrui, trovare un neologismo per definirlo. L’errore: è un luogo leggendario e inerpicante, ostile dapprincipio, ivi dimorano tutte le misericordie.

Guardavo le ragazze e le invidiavo, perché lo erano ancora e io no. Nella rupe del mai, del “sempre troppo tardi”. Come se avessi percorso mitologie, non soltanto ere. Di più, più stanca dell’agave tesa sotto la sferza gentile di un vento di ponente.

Quello stesso vento trasbordava nel cargo il profumo di ciclamino. Bianco e mansueto, nei cespi incontrati nella campagna crudele, nelle zolle sollevate incontrate da rocce, non c’era gentilezza, e non si tentava che quella, sedurne una qualche forma esemplare. Le ragazze erano sicure, le spalle diritte e lo sguardo distante, pose giuste per la stagione della vanità. Su di me rovesciava la penombra del rimpianto. Guadagnavo solitudini, le raccoglievo o le calpestavo, ma erano testarde come i fiori di campo, quando nascono e resistono nell’imprevedibilità che piuttosto chiamerei: inopportunità.

La gentilezza abita lo scosceso, l’incerto, l’ignobile. Provai una tale avventurosa contaminazione. E fu una sconfitta definitiva, rimediai scorte di disgusto. L’uomo negletto è disprezzabile, malgrado evangelicamente stia pronunciando un abominio.

Come amare lo storpio, l’infame? Il negletto ciancicante una brutalità priva di tentazione. Fine a se stessa, morta in se, orizzontale. Deprecabile.

Oggi mi raggiungono le medesime luci spaventose, l’artificio di una lamina che mi raggiunge dalla banalità, il neon di una cucina al primo piano, l’interno da sottoproletari, il bagliore fasullo di un lampione.

Sono terrori, ancora oggi. Il vociare risentito, dietro le porte erose dalle intemperie, rintronava la memoria dell’insipienza a un passo dalla villania. Il tossico era un perdente e lo sarebbe rimasto. In cuor suo, può darsi, credesse di avere una chance. Dov’era l’immensa pietà che avrebbe assolto il difforme senza pregi? Il difforme come un freak circense.

In quale sentiero tortuoso arrischiavo i giorni, quei giorni, che dovevano essere la grazia, il meglio che abbiamo stasera. Non ricordavo perché dovessi immolarmi ancora, a quale precipizio? Perché? Non fregava ad alcuno la mia vita, che la scampassi o meno, con lo stoicismo di un soldato che ha smarrito il coraggio per il fronte o peggio la strada verso la trincea, restando inane in una retrovia scognita.

Le solitudini molteplici sono rimaste fisse, pedanti. Non mi sono liberata da costoro, dai tossici, dal diario di Christiane, dalle molteplici solitudini. Se tornano ad interrogarmi non hanno voce, non sanno dirmi.

La domanda è fredda, vaga, con meticolosità, cosicché non possiamo esaudirla. Come una preghiera o forse una promessa.

Il perché tonante evoca inquietudini comuni (lo ammetto sì, non è uno strazio conoscibile eppure non è un privilegio per pochi, al contrario) e gira intorno simile al mulinello agitato da segreti ancestrali.

Talvolta gli incubi sono molto simili al delirio di un personaggio di Henry Miller, la sua stessa voce narrante. Stanze vuote che si chiudono nelle ombre di una pensione sul boulevard, la peggiore. Gli incubi rigettano meccanicamente gli spettri di un tempo, funesti nella stolidità. Individui dilavati da una coscienza terrea, mi sembra di vigilare stanchissima, come allora. Evito alcune strade. Evito semplicemente. Ogni cosa mi piomba addosso con le proiezioni di un barometro che non sbaglia mia, non muta, registra lo sconforto, ha un motivo, l’ho nutrito, ma è una volontà, un dolo compartecipato?

O non è invece il diario di Christiane Felscherinow ad aver montato una vita per intero, un destino, una coperta lacera, piena di buchi. Ogni buco è un inciampo.

L’inciampo è la salvezza.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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