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La storia di un’ossessione – L’ultima estate

Al sud, i giorni d’agosto sono l’intercolunnio tra la vita e la morte. Come se ad un certo punto il passaggio fosse la profezia ingenerata dal sole insolvente, madido di presagi e luci deliranti e lattiginose. Era la periferia. Fu la mia ultima estate da ragazza. Guardavo in tv una serie americana con Don Johnson, in piazza i tossici mi chiamavano “Gina”, la Gina di Miami Vice. Ascoltavo nelle cuffie la musica delle hit, Mina o i Roxette. Erano preludi di una giovinezza che si sarebbe interrotta o può darsi l’emancipazione di un’adolescente nella stagione gravida di promesse disattese. Le strade della periferia erano stancanti perché prive di orizzonte, e polverose; ai lati bruciavano le steppe, incostante si mostrava la campagna arida. Rovi bruni, cardi sul margine degli strapiombi, al di sotto rovesciava la gola, finiva nel mare compulsivo, denso di blu di Persia, quel blu febbricitante che non trova dimora nemmeno rifugiandosi nel più profondo, mutevole e ovattato degli abissi.

Strade senza ombra. I casermoni si impilavano nel bel mezzo della mestizia. La povertà erano gli stracci usurati che garrivano dagli abbaini con le gratelle ai lucernari. Mi chiamavano Gina perché somigliavo alla Gina di Miami Vice.

La principessa dagli occhi cerulei, diceva quel mio amico, Maurilio. E mi colpì quel cerulei, aggettivo che non avevo mai sentito pronunciare dai tossici, che non usavano parole nuove. Le parole nuove svelano mondi purpurei o virginali talvolta. Maurilio era un ragazzo distinto. Cerulei. Cercai nel dizionario. E lo disse nella sala del barbiere che era un ricovero di sbandati. Ma i professionisti lo frequentavano lo stesso, barba e capelli, grazie. Mentre le ragazze ridevano scompostamente strafatte di erba sedute sui divanetti. Il barbiere aveva l’atelier sotto i portici della piazza. Gli sbandati vomitavano bava di ero prima di entrarvi. Il tempo non aveva un utile da rimediare, non serviva a molto. Ad un’età possiamo consentire al tempo di non esercitare pressione sulle vite abbastanza urtate, lo saranno a rifletterci bene. Tirate da una parte e dall’altra.

Lessi il necrologio di Maurilio, molti anni dopo.

E pensai di nuovo a quel cerulei usato impropriamente nella sala di un barbiere, frequentato da eroinomani a rota. Si chiudeva un ciclo. La studentessa. La giovinetta. La bellezza inviolata. L’ebbrezza. Il desiderio. La vita. Tutto quel che doveva essere si arrestò di colpo. Il tossico che voleva ammazzarsi con un grammo di ero incontrò la sventurata. E oggi ancora mi dibatto. Dovevo fuggire, era un ricatto morale, un sacrificio senza virtù, non era un esercizio di pazienza, erano spire, il fuoco che non purifica. Eravamo alla fine della storia, l’ultima pagina del diario di Christiane avrebbe annunciato desolanti riproduzioni.

Non esisteva un destino colto che contemplava l’eroina. Non al sud. L’eroina li rendeva tutti uguali, volti demoniaci, mani deformate, dita gonfie, vene indurite e sollevate.

Le altre ragazze restavano ragazze, fedeli alla promessa. Esser belle e più o meno contente, un gaudio privo di attitudini, abbastanza idiota forse. Così doveva essere. Destituire l’amoralità di anni sciupati, celebrandone un rimpianto, in luogo di un conferimento: tradire la propria giovinezza sarà un debito inestinguibile. Il rimpianto perdura, è il singulto al centro dello sterno.

La mia cattività non guadagnò meriti. Fui accerchiata dalle paure o tradotte di ossessioni varie. Serragli in cui recintare spettri che di norma dovrebbero essere ritardati e nelle ere e con metodo. Spettri adunati tutti insieme, non erano requie, o una pioggia di consapevolezza; era il delta secco di improprietà e presunzione. Non mi hanno mai lasciato, fedeli meglio delle promesse disattese. Non c’è fedeltà più alta della promessa che disattende.

Non somigliava a Christiane la mia magrezza. Non era la magrezza distinta e retrospettiva di Christiane Felscherinow.

Procurava patetismo, persino ilarità. Indossavo il rossetto mirtillo, ma ero scavata di un male affatto glorioso. Il delta della solitudine. Dovevo salvare quel tale insulso, si era iniettato un grammo di robba. Poteva crepare.

L’ho fatto io, per lui. Moralmente. Spiritualmente piuttosto.

Chi te lo ha chiesto?

La mia magrezza era la forma latente dell’ostia. Non basta a confortare il rimpianto. Il rimpianto è la voragine. Il declivio che scivola tra le onde, il fiore carnoso, la stella del deserto, il fiore che non muore, ferendosi negli spuntoni e precipitando tra le rocce acuminate.

Lo chiamano fiore del deserto. Incastrato nelle edicole del terreno aspro e argilloso, o dentro le nicchie di speroni. Grotte. Ostilità.

Dimagrivo. Mentre perdevo, dimenticavo, il motivo della consolazione. Ed è il metodo nella mia vita. La vita che sottrae, che toglie, toglie ogni sorgente che somigli all’amore. O comunque alla felicità. Ma la felicità è l’amore, anche se lo patisci. Non è così?

Perdere, smarrirsi.

Al centro del dolore, all’incirca. spesso. E’ una condizione. Un metodo. Il dolore inconsutile. Un unico brano capace di rivestire per intero da parte a parte la lusinga. Ho aspettato. Ho aspetto ere. Le ere che servono per scomputare tutti gli spettri. Non volevo essere riscattata.

La trama ricucita era un brandello da trascinarsi d’appresso, la sola dote. E le gambe da stambecco, il vitino da chiudere tra pollice e police. L’irrisione dell’altro, sempre gagliardo, più forte. Il vincente che scaracchia sulle tue debolezze. Ma taluni le definiscono altezzosamente, con una certa inequivocabile noia: fragilità.

Il vuoto. Il diametro si allarga. La vita sparisce, le ragazze. La vita. La musica. I Roxette. Le sere al pub.

La liceale. I libri.

Il desiderio delle parole, un segreto che mi faceva vergognare, perché non trovava sodali. I tossici conoscevano la lingua dello sballo. Tutto qui. Non era migliore il dizionario degli zombie del Bahnhof. O della Haus der Mitte. C’è tutta una retorica che gira intorno ai poeti maledetti.

Ma a guastarsi l’esistenza, incepparla, basta molto meno. Non sono le parole. Non sono le parole che stendono un disegno, il sentiero deciso ai primordi.

Non sono le parole, malgrado lo dica, lo enunci nell’enfasi che non sa che farsene di una sconfitta. Aver letto il diario di Christiane non mi ha reso la malagrazia. Malagrazia, in dialetto.

La sventurata. C’è il ciclopico perché alla chiusa di un capitolo. Occorre emendare la risposta definitiva. Breve. Sì sì no no.

Un pomeriggio di Natale andai al cinema, la sala di proiezione nella città dei nonni, in Umbria, era alla fine del corso, appena d’appresso la libreria, la cui vetrina esponeva il caso letterario: Wir Kinder vom Bahnhof Zoo. Lo stesso anno in cui avevo letto il diario di Christiane. Andammo a vedere con i cugini un film sentimentale, adeguato all’età. La Boum. Seguiva il trailer del film tratto dal diario di Christiane, con la musica di David Bowie. Sense of Doubt. Heros.

Una teca frantumata. Sottopassaggi. Giovani dalle gambe magrissime, fatti di acido.

Iniziava così, una storia, un destino.

Destino destino. La bambina di pochi anni spalancava gli occhi, non credo si possa chiamare: meraviglia. Era un sentimento, non è stato ancora tradotto per bene, guastato, come le vite degli amici della piazza. Una deriva. Un ripiegamento verso la fallibilità. Pedante tornarvi e annuire. L’assunto ha ragione.

Il destino ha sempre ragione.

Non sono le parole che tormentano una vita, redigono un destino. La parola che lo configura, dire destino è: dettarlo. Non è farsi esperienza, sarebbe auspicabile.

Essere il pasto, l’ostia. Ma non potevo immaginare.

C’è bisogno che qualcuno te lo dica?

Come del colore dei tuoi occhi, la sfumatura?

Il verde brillante in certe ore del giorno.

Maurilio diceva: sei la principessa dagli occhi cerulei. Cerulei è un aggettivo che ho imparato ad usare. Cerulei. Da cielo.

Ma non era esattamente così. Però Maurilio mi aveva guardato sul serio. Ed è il nodo della questione.

Come l’amore o il coraggio. Nei libri leggevo che il coraggio attiene all’umano e compatibilmente a una mandria di bestie, una bestia all’infinito, che farà tutto, crederà a tutto, è l’uomo, lo dice un personaggio di un racconto di Marek Hlasko.

Il racconto si intitola: Cimiteri.

Ma è il vero punto della questione. Sì, dimmi, dunque. Quale?

C’è il ciclopico perché nella chiusa di un capitolo.

Il nodo si riferisce all’amore.

Dove tutto inizia e finisce.

L’alfa e l’omega.

Il cerchio.

L’amore.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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La storia di un’ossessione – Slang.

Conoscevi l’alfabeto dei tossici, già a nove anni. Avevi letto il diario di Christiane Felscherinow, eri stata svezzata. Bisognava da allora che si conformasse il terrore alla verità, ma la verità era di una razza diversa. Non era la verità immacolata.

Trip. Scimmia. Sbrego. Quartino. Robba. Con la doppia, detto alla maniera dei tossici del sud. Non ricordo come Christiane chiamasse l’eroina. Semplicemente, “ero”. Mi guardo allo specchio, quando vi riferisco. E devo usare la seconda persona, perché devo osservare. Devo devo devo.

Avevo un caschetto di capelli lucidissimi, bruni, temevo i giostrai, ma raccontavo ai compagni del cortile del rione popolare che ero nata in una famiglia di zingari. Non esiste la parola: zingari. Non indica un’etnia, non per i rom che ho conosciuto da adulta. Credo di amarli. Apolidi per sempre. Ma questo è un altro discorso.

Dopo aver letto il diario di Christiane, giocavo a fare la drogata, usando le matite di scuola come una spada, la siringa di insulina. I tossici del sud la chiamano “pera”. Non era la premessa di una volontà pia, era la deriva, la curiosità malata che mi abitava, cosicché non volessi salvare, ma capire. O prima ancora: imitare.

Il musicista di jazz del romanzo di Evan Hunter, “Aria chiusa”, si faceva di eroina. Farsi: nel gergo. Mi sembrava impossibile che circolasse roba ad inizio secolo. Ingenuità. Anche Billie Holiday si faceva, per questo calzava i guanti lunghissimi dentro cui nascondeva le deliziose braccia d’ebano. Le braccia ferite dalle piste. Il gergo. Le piste sono il sentiero dei buchi sulla pelle. Questa forma di sapienza avrebbe concorso al disegno finale. Il disegno finale è il destino di una donna avvinto al destino dei molti o dei pochi, e non è poi una gran differenza, giacché c’è l’identico sottile abbaglio a condurci, riservandosi l’immane non detto, la locuzione suprema soltanto alle ultime battute, sul ciglio, vi annunciavo, della meraviglia o anche detto: impronunciabile disvelamento.

Leggevo Carlo Grimaldi, i suoi sbattimenti al Ticinese, al San Gottardo. I movimenti di fumo. Il nero da Kabul.

I viaggi lisergici. L’India. Le casacche di iuta. I poeti della beat.

Pose.

Parco Ravizza. I ricetta. Le borse intrecciate. Si formava un pensiero, così. Un’idea del mondo, il mondo faceva paura. La stessa paura si misurava con l’eccitazione, di una specie ancora sconosciuta; mi paralizzava dinanzi al carrozzone dei giostrai. Eppure la medesima paura non aveva potere sulla seduzione, tra la seduzione esercitata dai giostrai e la paura, vinceva la seduzione.

Ma questo dicevo è un altro discorso.

La curiosità turbata nel tempo assumeva le forme di sentimenti prossimi, il tentativo di comprensione, che nelle vette evangeliche si chiama Misericordia. La pietà, suo simile. La compassione.

La perfettibilità dei sentimenti nascenti non coincideva con il paesaggio sgrammaticato, il disordine, la malagrazia. Malagrazia nel dialetto del sud. Come era possibile? Eppure lo era, l’inconciliabilità era ancora una porta da aprire.

Leggendo il diario di Christiane le suggestioni erano profonde, attenevano a un cielo estremamente supplice, pesante, di grafite. Il pallore nei volti degli adolescenti erano terribili invocazioni, simili a preghiere rotte dal pianto. Ma tutto si compiva nel silenzio, si strutturava tacitamente la poetica che sbandava verso la sconfitta, una apparenza mai sostenuta da ragioni da cui non ne scaturisse l’impensabile. Un miracolo. Una conversione. La porta che si apre, come un velo fragilissimo e perlaceo sollevato dal vento.

Il vento dello Spirito.

Le letture guastano l’idea del mondo, non che sia fondamentale avere un’idea del mondo, come se contasse averne di certezze di solito blande, franano dinanzi all’eternità sapete. Le letture confondono. Perdi la lucidità rispetto a quel che vedi, i volti si sommano, i connotati si inseguono fino a fondersi, un magma stupefacente, diventano personaggi letterari. Mary che si faceva di ero sembrava l’Andreina di Moravia, bella e bianca e perduta sul lungofiume. Non riesco a trovare corrispondenze con i personaggi di Hlasko. L’ubriacone che si ammazza per un abbonamento mancato. Un taglio di rasoio. Kuba impiccato ad una corda perché non smette di bere. Il medico cinico e socialista degli anni di Gomulka si auspica che qualcuno almeno lo faccia per amore prima di squartare la vescica di un alcolizzato.

E poi ci sono gli angeli terrei del Bahnhof di Berlino.

Era la preghiera laconica a sovrintendere le suggestioni future.

Detta così, puoi persino perdonare.

Non sai chi devi perdonare, tuttavia.

Inciampando ad ogni passo, i ricordi non consolano mai, non disvelano. Hanno piuttosto l’odore acre della liscivia in un condominio popolare.

Come in un racconto di Hlasko, la memoria staglia una campitura tremolante, un tremore isterico che si inerpica nel crepuscolo. La provincia è mogia, viscida direbbe un personaggio di Hlasko. E tutto sembrerebbe morte, la fine di qualcosa.

E forse lo è.

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La storia di un’ossessione – Io, signorina, ti ho amato.

Alla fine dei giorni, raggiungerò la soglia del coraggio, che è in fondo una sola ammissione. Immaginate una tela enorme, spazi smarriti, sconfinati, chiazze di colori cupi, ecco la mia ammissione: sperimentavo la capacità d’amore. Altrui, non mia. Quanto siete capaci di amarmi? Urlavo idealmente al pubblico di maliziosi cavalieri. E non c’era una platea acclamante. Il vuoto in cui precipitavo non aveva timore di essere sconfessato quand’anche dalla platea si fosse sollevato, in un commovente slancio di reni, il timido cireneo.

Io. Signorina. Io signorina ti ho amato. Nella sconsiderata tela, le chiazze brune o opache sono gettate di pennello, anime sofferenti, trafitte kandiskianamente, l’urto epigonico di una separazione alle origini, la vita materiale con la delicatezza inalterabile dello spirito. Ed è una deflagrazione, per cui diventi – può darsi – la crocerossina, o la sventurata, la folle, che vuol salvare tutti, per non patire l’ebbrezza priva di consolazione, riparare nella desolazione dell’imo, prima del baleno, della luce fulminea e breve, e credi che lì, sulla soglia, ti sia svelato qualcosa, trovi riparo l’inquietudine incoercibile, l’attitudine alle cose oltre il limite consentite, dette cose celesti, l’insieme inattingibile.

La miseria morale mi sorprese precocemente, tutta concentrata nelle gesta sgraziate di una ghenga di tossici. Perfeziono le parole, oggi, una reazione sovversiva alla brutalità che è il regesto stesso di una vita. La superbia del romantico a una arroganza marcescente, non so la borghesia, il borghese. Era la mia l’identica militanza, arruolarsi nella miseria morale, indossarla, alla stregua della vergogna, tradurla nella risposta efferata al tedio, il tedio come il borghese, una sorta di potere occulto. Mi agitavo e dibattevo forse la contesa, era inutile. L’avrei persa. Perciò oggi perfeziono le parole.

Trovo alcuni responsabili. Il diario di Christiane Felscherinow. Slogan fuori misura per una natura del tutto molto meno. Lo sguardo deraglia nell’errore altrui.

E invece era commiserazione, insofferenza, lo spregio da trattenere, per non offendere, a esser indulgenti. Un po’ come tradì l’enfasi di Baudelaire, in compagnia della prostituta, turbata dalle oscenità esposte al Louvre. “Tutti gli imbecilli della borghesia”. La prostituta si chiamava Louise Villedieu.

E di quella ipocrisia tuonante nei secoli intercettavo taluni strali. L’ipocrisia del pensiero perbene che serpeggia, millantando lucidità mirabili, in luogo di ben più abbordabili volgarità. Vi rivelo il segreto che soggiace a ogni azione, la realtà orizzontale, che non promette perfezione, ma la propone nei continui in certo qual modo abbagli, speculativi, da cui puoi rimediare un pensiero, accusando tutta la claque che ha ingenerato cultura, tradizione, persino l’arte, nel giro supremo, indagando fino a un passetto prima la cosiddetta verità.

E nelle pieghe, a tratti, si mostrano velocemente i dettagli, dettagli verso l’eternità. In partenza verso qualcosa. Lo spiraglio che indica con intermittenze sempre più brevi la via, ma non declina il nome della posta in gioco, né tantomeno della stazione d’arrivo.

Desumo questo procedimento, a distanza di molti anni, quando sei già nella condizione per archiviare il resoconto di varie molteplici lusinghe, divenute banalità, una volta scolorate dal tempo trascorso.

Fatti empirici, spesso insufficienze che concorrono a non modificare le intenzioni del disegno iniziale, perpetuo, il progetto misterioso. La salvezza.

Torno a scontrarmi con la parola, il chiavistello, all’inizio e alla fine, il cerchio.

L’alfa e l’omega.

I giorni grigi di un inverno. Allora trepidavo. Pensavo di esser libera, uno stato d’animo essenzialmente, ma che aveva urgenza di un paesaggio altrettanto scabro e affatto armonioso; aver gustato la libertà, la restituzione onesta di quanto patito benché anticipatamente, patire la trascuratezza per raggiungere l’ambizione, ovvero la libertà. La libertà aveva a che fare con la perdizione, con l’infrangimento delle regole o delle buone maniere. La posa trapassata, a guardare adesso con comprensione, il dissidio, l’ostilità con il confacente, come direbbe De André: l’ordine costituito. Ed era la libertà. Eppure seguente all’amore.

La tensione però mi avrebbe condotto all’errore. Ma era un passaggio. L’aspirante suicida. L’eroinomane. Un grammo di roba per passare all’altro mondo. Ma si è salvato. Non era epico. Era un miserabile. Un tronco marcio. Il progetto di salvezza avrebbe contemplato la noia usurante, la mortificazione. Dunque sentimenti o compulsioni frontaliere: l’alto e il basso insieme.

Ci fu un inverno però in cui fui libera, in cui realizzai appena il privilegio di una età. In cui fui una ragazza, in cui la leggerezza poteva permettersi struggimenti melò o immodesti come taluni fuochi, vacui.

Sembra il necrologio di una insensatezza, riepilogo la sola stagione che ha investito la mia vita, condizionandone il resto. Il resto ripassato a ammendare la vuotezza, l’insulsaggine, il disprezzo per la medietà che mi assale, il contraccolpo di una marea. L’onda prodiere che non avverte la spelonca del frangiflutto, delle insidie delle correnti a mulinello.

Siamo arrivati alla fine. Di già?

Era tutto questo?

Era soltanto questo?

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La storia di un’ossessione – Una mitezza sconosciuta.

Dicembre era incolore e freddo. Il freddo anomalo per una città del meridione. Ricordo un pallore indossato alla maniera di uno stile, persino una poetica. Vestivo di nero, ma ero all’incirca felice, prima di incontrare il tossico. Volevo che crepasse. Doveva crepare lui. La sua ignoranza indigesta al mondo. Ricordo, procedendo a tentoni, con in testa la musica di Tracy Chapman. Le strade erano grigie e una certa ebbrezza che sentivo agitarsi, con un battito accelerato, una baldanza, concorreva al picco di adrenalina guardando alle cose che potevano accadere.

Non sarebbero mai accadute. Il destino si conforma mentre opera la contraffazione di un sentimento, una passione, svolta abilmente, mi impedisce d’amare.

Amare così l’incanto sbagliato, quello che scolora, che si traduce in una camera di tortura, espiare nel nome di nessun singulto. Qual è il senso? Lo invoco oggi. Invoca il suo nome, dinanzi al quale si piega ogni ginocchio.

Il Nome al di sopra di ogni nome.

Le strade erano grigie. Era inverno. Uno in mezzo alla ripetizione di una stagione, replicata fintanto si chiami ancora giovinezza, prima della fine, dunque era l’ultimo inverno. A un’ora del pomeriggio, sostavo sotto l’arco della piazza, la penombra era già buio pesto, la sera quando è funesta, e le foglie turgide delle magnolie vibrano come tormentando capocchie di cristallo, sgretolarsi, vederle sgretolarsi, non è altro che una reiterazione, il vento di tramontana tra i rami. Una vedovanza che si annuncia, la mia, esatta, la solitudine reiterata e funerea.

L’amore mi sfuggiva, era la tentazione attraverso cui perfezionare le virtù, la pazienza, lo stoicismo. Camere di tortura.

Sotto l’arco della piazza, c’era un solo fanale ad illuminarmi, ero una piccola stella, possiamo definirle fantasie di una giovinetta. Un signore distinto passava da lì, sapendo di trovarmi. Ogni pomeriggio. Un signore facoltoso. Potevo avere qualsiasi cosa, davvero, essere una stella.

Saperci fare, come alcune coetanee, i sogni si adeguavano, le ambizioni, il futuro. Diventare un’entraîneuse. Far bere i clienti, in uno squallido locale aperto fino all’alba. Di una tale ambizione non sentirne nemmeno l’ambivalenza con una sottaciuta vocazione all’immacolatezza, si poteva esser contente di una tale piccolezza morale, una specie di controcanto al molto poco che mi aveva allattato, l’aborto.

L’amore era un giovane di nome Massimo, ma il destino doveva conformarsi con l’inetto, con l’idiota ancor meglio. Non c’è stato altro, tutto sommato, fino ad oggi, che uno stornare di passioni verso un lido discreto, con aspettative modiche, dove arrotare il retrogusto di un espediente, per vivere, in definitiva; non era altro la vita, in quella stagione perfetta, che la perfetta esecuzione della vita stessa? Vivere per vivere. O parteciparvi, come a una epifania, sulla soglia dell’altro, e l’altro detiene ancora la prerogativa dell’avvenire. Dell’altro non hai paura.

E nemmeno dell’amore. Non ti guardi le spalle. E quello è l’amore.

Ma non lo conoscevo. Può darsi che il diario di Christiane Felscherinow non fosse soltanto l’esecuzione a priori di un fatto, un modo deragliato di arrendersi al mondo. Sissignore, arrendersi, benché avessi soltanto pochi anni. Non mi fu annunciato l’estremo compito, tergere l’empio, ovunque e comunque, offrirsi a strali di ferocia e traghettarla verso una mitezza altrettanto sconosciuta e sempiterna. Forse era già il grande vuoto dentro cui abbandonarsi, inghiottita, la cuspide della stoltezza ibrida che vuole salvare tout compris; la mandibola abnorme del mondo la triturerà, il sacrificio ignaro.

Il sacrificio si connotava di pennellate indaco, o incolore. O grigie. Eccole le strade, alle tre del pomeriggio, è inverno, forse l’unico. Ho una strana contentezza, in realtà è l’ebbrezza rovesciata, intorno i compagni sono eroinomani, e muoiono di overdose, e morire sembra assumi uno spirito epocale o semplicemente epico.

Non puoi che morire su una panchina, dentro un eschimo usurato. Riscatti la tua provincia di merda. Hai una spada conficcata sull’avambraccio.

Le vene si sollevano, poi franano, crepitano, sono dure, sono morte.

Avevo diciassette anni, i capelli lunghi, ricci, spessi. Tingevo le labbra con un rossetto color mirtillo, come Christiane negli slummy di Berlino. O nella Kurfustendamme. O forse stava battendo? Il resoconto di un quartino, da iniettarsi in un cesso pubblico del Bahnhof Zoo.

I capelli le si appiccicavano sulle guance.

Pioveva. A Berlino, piove sempre. Ma anche dicembre in una città del sud annuncia nuvole brevi, piogge malinconiche. Così cercavo Christiane. Cercavo la verità.

C’era qualcosa da sorprendere.

L’avrei trovata.

La verità.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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