Al sud, i giorni d’agosto sono l’intercolunnio tra la vita e la morte. Come se ad un certo punto il passaggio fosse la profezia ingenerata dal sole insolvente, madido di presagi e luci deliranti e lattiginose. Era la periferia. Fu la mia ultima estate da ragazza. Guardavo in tv una serie americana con Don Johnson, in piazza i tossici mi chiamavano “Gina”, la Gina di Miami Vice. Ascoltavo nelle cuffie la musica delle hit, Mina o i Roxette. Erano preludi di una giovinezza che si sarebbe interrotta o può darsi l’emancipazione di un’adolescente nella stagione gravida di promesse disattese. Le strade della periferia erano stancanti perché prive di orizzonte, e polverose; ai lati bruciavano le steppe, incostante si mostrava la campagna arida. Rovi bruni, cardi sul margine degli strapiombi, al di sotto rovesciava la gola, finiva nel mare compulsivo, denso di blu di Persia, quel blu febbricitante che non trova dimora nemmeno rifugiandosi nel più profondo, mutevole e ovattato degli abissi.
Strade senza ombra. I casermoni si impilavano nel bel mezzo della mestizia. La povertà erano gli stracci usurati che garrivano dagli abbaini con le gratelle ai lucernari. Mi chiamavano Gina perché somigliavo alla Gina di Miami Vice.
La principessa dagli occhi cerulei, diceva quel mio amico, Maurilio. E mi colpì quel cerulei, aggettivo che non avevo mai sentito pronunciare dai tossici, che non usavano parole nuove. Le parole nuove svelano mondi purpurei o virginali talvolta. Maurilio era un ragazzo distinto. Cerulei. Cercai nel dizionario. E lo disse nella sala del barbiere che era un ricovero di sbandati. Ma i professionisti lo frequentavano lo stesso, barba e capelli, grazie. Mentre le ragazze ridevano scompostamente strafatte di erba sedute sui divanetti. Il barbiere aveva l’atelier sotto i portici della piazza. Gli sbandati vomitavano bava di ero prima di entrarvi. Il tempo non aveva un utile da rimediare, non serviva a molto. Ad un’età possiamo consentire al tempo di non esercitare pressione sulle vite abbastanza urtate, lo saranno a rifletterci bene. Tirate da una parte e dall’altra.
Lessi il necrologio di Maurilio, molti anni dopo.
E pensai di nuovo a quel cerulei usato impropriamente nella sala di un barbiere, frequentato da eroinomani a rota. Si chiudeva un ciclo. La studentessa. La giovinetta. La bellezza inviolata. L’ebbrezza. Il desiderio. La vita. Tutto quel che doveva essere si arrestò di colpo. Il tossico che voleva ammazzarsi con un grammo di ero incontrò la sventurata. E oggi ancora mi dibatto. Dovevo fuggire, era un ricatto morale, un sacrificio senza virtù, non era un esercizio di pazienza, erano spire, il fuoco che non purifica. Eravamo alla fine della storia, l’ultima pagina del diario di Christiane avrebbe annunciato desolanti riproduzioni.
Non esisteva un destino colto che contemplava l’eroina. Non al sud. L’eroina li rendeva tutti uguali, volti demoniaci, mani deformate, dita gonfie, vene indurite e sollevate.
Le altre ragazze restavano ragazze, fedeli alla promessa. Esser belle e più o meno contente, un gaudio privo di attitudini, abbastanza idiota forse. Così doveva essere. Destituire l’amoralità di anni sciupati, celebrandone un rimpianto, in luogo di un conferimento: tradire la propria giovinezza sarà un debito inestinguibile. Il rimpianto perdura, è il singulto al centro dello sterno.
La mia cattività non guadagnò meriti. Fui accerchiata dalle paure o tradotte di ossessioni varie. Serragli in cui recintare spettri che di norma dovrebbero essere ritardati e nelle ere e con metodo. Spettri adunati tutti insieme, non erano requie, o una pioggia di consapevolezza; era il delta secco di improprietà e presunzione. Non mi hanno mai lasciato, fedeli meglio delle promesse disattese. Non c’è fedeltà più alta della promessa che disattende.
Non somigliava a Christiane la mia magrezza. Non era la magrezza distinta e retrospettiva di Christiane Felscherinow.
Procurava patetismo, persino ilarità. Indossavo il rossetto mirtillo, ma ero scavata di un male affatto glorioso. Il delta della solitudine. Dovevo salvare quel tale insulso, si era iniettato un grammo di robba. Poteva crepare.
L’ho fatto io, per lui. Moralmente. Spiritualmente piuttosto.
Chi te lo ha chiesto?
La mia magrezza era la forma latente dell’ostia. Non basta a confortare il rimpianto. Il rimpianto è la voragine. Il declivio che scivola tra le onde, il fiore carnoso, la stella del deserto, il fiore che non muore, ferendosi negli spuntoni e precipitando tra le rocce acuminate.
Lo chiamano fiore del deserto. Incastrato nelle edicole del terreno aspro e argilloso, o dentro le nicchie di speroni. Grotte. Ostilità.
Dimagrivo. Mentre perdevo, dimenticavo, il motivo della consolazione. Ed è il metodo nella mia vita. La vita che sottrae, che toglie, toglie ogni sorgente che somigli all’amore. O comunque alla felicità. Ma la felicità è l’amore, anche se lo patisci. Non è così?
Perdere, smarrirsi.
Al centro del dolore, all’incirca. spesso. E’ una condizione. Un metodo. Il dolore inconsutile. Un unico brano capace di rivestire per intero da parte a parte la lusinga. Ho aspettato. Ho aspetto ere. Le ere che servono per scomputare tutti gli spettri. Non volevo essere riscattata.
La trama ricucita era un brandello da trascinarsi d’appresso, la sola dote. E le gambe da stambecco, il vitino da chiudere tra pollice e police. L’irrisione dell’altro, sempre gagliardo, più forte. Il vincente che scaracchia sulle tue debolezze. Ma taluni le definiscono altezzosamente, con una certa inequivocabile noia: fragilità.
Il vuoto. Il diametro si allarga. La vita sparisce, le ragazze. La vita. La musica. I Roxette. Le sere al pub.
La liceale. I libri.
Il desiderio delle parole, un segreto che mi faceva vergognare, perché non trovava sodali. I tossici conoscevano la lingua dello sballo. Tutto qui. Non era migliore il dizionario degli zombie del Bahnhof. O della Haus der Mitte. C’è tutta una retorica che gira intorno ai poeti maledetti.
Ma a guastarsi l’esistenza, incepparla, basta molto meno. Non sono le parole. Non sono le parole che stendono un disegno, il sentiero deciso ai primordi.
Non sono le parole, malgrado lo dica, lo enunci nell’enfasi che non sa che farsene di una sconfitta. Aver letto il diario di Christiane non mi ha reso la malagrazia. Malagrazia, in dialetto.
La sventurata. C’è il ciclopico perché alla chiusa di un capitolo. Occorre emendare la risposta definitiva. Breve. Sì sì no no.
Un pomeriggio di Natale andai al cinema, la sala di proiezione nella città dei nonni, in Umbria, era alla fine del corso, appena d’appresso la libreria, la cui vetrina esponeva il caso letterario: Wir Kinder vom Bahnhof Zoo. Lo stesso anno in cui avevo letto il diario di Christiane. Andammo a vedere con i cugini un film sentimentale, adeguato all’età. La Boum. Seguiva il trailer del film tratto dal diario di Christiane, con la musica di David Bowie. Sense of Doubt. Heros.
Una teca frantumata. Sottopassaggi. Giovani dalle gambe magrissime, fatti di acido.
Iniziava così, una storia, un destino.
Destino destino. La bambina di pochi anni spalancava gli occhi, non credo si possa chiamare: meraviglia. Era un sentimento, non è stato ancora tradotto per bene, guastato, come le vite degli amici della piazza. Una deriva. Un ripiegamento verso la fallibilità. Pedante tornarvi e annuire. L’assunto ha ragione.
Il destino ha sempre ragione.
Non sono le parole che tormentano una vita, redigono un destino. La parola che lo configura, dire destino è: dettarlo. Non è farsi esperienza, sarebbe auspicabile.
Essere il pasto, l’ostia. Ma non potevo immaginare.
C’è bisogno che qualcuno te lo dica?
Come del colore dei tuoi occhi, la sfumatura?
Il verde brillante in certe ore del giorno.
Maurilio diceva: sei la principessa dagli occhi cerulei. Cerulei è un aggettivo che ho imparato ad usare. Cerulei. Da cielo.
Ma non era esattamente così. Però Maurilio mi aveva guardato sul serio. Ed è il nodo della questione.
Come l’amore o il coraggio. Nei libri leggevo che il coraggio attiene all’umano e compatibilmente a una mandria di bestie, una bestia all’infinito, che farà tutto, crederà a tutto, è l’uomo, lo dice un personaggio di un racconto di Marek Hlasko.
Il racconto si intitola: Cimiteri.
Ma è il vero punto della questione. Sì, dimmi, dunque. Quale?
C’è il ciclopico perché nella chiusa di un capitolo.
Il nodo si riferisce all’amore.
Dove tutto inizia e finisce.
L’alfa e l’omega.
Il cerchio.
L’amore.
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