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Un amore tossico. Amy e Blake, un gioco al massacro (Il Fatto Quot.)

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C’è una lunga ed estenuante rivalsa nel sentimento che chiosa ogni vicenda umana e la avvince nella deprecabile inanità o altrimenti detta: vita. Lo chiamano amore. La rivalsa è la stessa autodeterminazione. L’amore. Alla sua condanna, defettibile, perché del mondo, si sgrana, una dietro l’altra, l’abnegata devozione di taluni sparuti eletti. Nella ricorsività delle cose che tornano e perdono ancora (ed è sempre l’amore, ricordate), precipita Amy, nel suggello aperto come una rosa: è l’anima assetata, l’errante che smarrisce il sentiero, il fuoco che brucia senza rivelazione, la fonte sbagliata, l’acqua che non disseta; non la Via, la Verità, la Vita.

Amy Winehouse. Amy e il suo amore infelice, Blake Fielder Civil.

Dietro di loro si annoda incespicando, nella spirale in verticale, il fumo di uno chilom. Ed è già il destino che conficca chiodi, annunciando, nei segni, segreti e nebulosi, la fine. O la calamità. Perché ci sono sortite del caso e poi affinità che si oppongono tra le sortite del caso e una nobilissima epica; tra Amy e Blake è andata all’incirca così.

È il 2005. Amy è illuminata, ha appena esordito con Frank, l’album che la presenta al grande pubblico. Ha già comprato casa a Camden Square. Una casa da ricchi, vittoriana. Lei in fondo è solo una ragazza della media borghesia. E invece è la voce nera di una bianca di origini ebree a farne una creatura avulsa, estrema. Blake Fielder Civil ha un cappello di feltro. La sua virilità è una specie di oltraggio, una personale rivendicazione, il bambino orfano di padre, il bambino suicida che però si salva, a nove anni. E da allora non smette di riprovarci, in fondo. Considerato che la madre Georgette aveva sempre qualcosa da fare in luogo di lui. Morire era anche sniffare coca da adolescente o giù di lì, nella Londra della disco luccicante e sepolcrale, il Trash, locale di culto. Come molti sfavillanti lucori nefasti nella Square della City, la Square del punk londinese.

L’oltraggio e la deregolamentazione. Vecchie regole molto snob, la tradizione del maledettismo, niente di nuovo se non fosse che c’era già pronto il cliché del club dei 27, apposta per Amy. E la ragione ultima, Blake.

Finiscono a letto, il tempo di una sera. Ma funziona così, l’ineluttabile eppure oscena prevedibilità dei destini apocalittici, quando si incontrano sapete.

È solo sesso. A Amy, pare, piaccia così, si diverte, come un uomo. Il sesso per il sesso. E invece era amore. La dannazione. La defettibilità mondana che lo rende malato sempre, perché è l’amore, una lunga malattia, da cui non guarire, se fosse possibile. Ma poi si guarisce.

O al limite, si muore.

Lei è una creatura avulsa, vi dicevo. La voce di una nera nel corpo di una ebrea, ebrea ashkenazita bielorussa. Era troppo portarsi dietro molteplici destini, contenerli in un solo minuscolo cuore. Ma non era un cuore e basta. Era la placenta millenaria, un feto immortale, l’ignorante elezione della parola risonante di tutte le anime antiche e tormentate, covavano nell’unico modesto piccolo cuore.

Non è già la fine?

Amy lo ha capito bene, pensa a Blake ogni momento, è una fame che non smette, è spaventoso: “Sento in un certo senso che l’amore mi sta uccidendo”.

Lui fuma crack, eroina, coca. Sono troppo avanti, sono sulla chiglia del Titanic.

Lei si fa di speed, non apre nemmeno gli occhi la mattina che è ubriaca.

L’amore. La costante rivalsa nel negarsi, altrimenti una qualche espiazione o sarebbe meglio l’eresia.

Quando lei muore per davvero (dopo tutto sommato averne provato l’ingaggio, in un simbolico soundcheck perenne) lui è dentro. Esce dal carcere e trova i messaggi di Amy, ancora registrati in segreteria; ma è passato un anno, la voce di Amy è la voce di una donna viva. Così si fa una spada di ero e va in overdose. Vuole morire di nuovo, come sempre.

E invece non muore. Il destino dei dannati, con una specifica dannazione: sopravvivere.

Lui è un mostro planetario. La morte di Amy lo ha consacrato in quanto mostro universale. L’iniziazione ad ogni empietà, è Blake, è Blake. La madre Georgette a Claypole non se la passa meglio, perché è la madre di Blake, del mostro.

Blake studiava letteratura al Birkbeck College.

“A che serve?” replica alla domanda di un giornalista, dopo la morte di Amy. Blake è un fatto che esiste solo dopo la morte di Amy. La sua identità è: Amy. Che è morta.

L’amava. Semplicemente. Il suo nome è tatuato dietro l’orecchio.

“L’amavo” dice in un’intervista.

E non c’è molto altro da aggiungere. Nemmeno il vituperio di vederlo ripreso in ginocchio, nel documentario concordato, davanti la tomba di lei, nel cimitero di Edgwarebury.

“Amy”, firmato da Asif  Kapadia.

Blake ne esce malissimo.

“Ma chi vuole uscirne bene?” bercia al parterre di curiosi, sfrontato e violento. Un pallido ricordo è la sua virilità. Un pallido ricordo quella volta, quella sera, il sesso per il sesso. Era amore. Era una stagione, la sola, la migliore. Si chiama giovinezza, sì? Ma non erano trapassati, di già?

I pochi denti, scuriti dal fumo, la pelle ingrigita. Blake, Blake. Un viatico verso la morte, si annuncia, ma non promette. Quando arriva? Quando finisce? Quando giungere alla sponda e cedere l’armentario e ammettere: è solo un massacro.

Ed è questo l’amore?

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L’originale è uscito sulle pagine de Il fatto Quotidiano mercoledì 21 luglio 2021.