Category Archives: Sul nuovo romanzo

La storia di un’ossessione – Una stagione.

Il tempo della giovinezza. Una stagione. Doveva essere un rifiorire di speranze per l’appunto. Fiori che dormono sotto la neve, che non aspettano altro che il disgelo, le estese praterie o i colli o le radure tremanti di qualche fremito appena adunco su un risveglio. Così devono mostrarsi le ragazze. Non sciupate sulla vita o quel che appare, tanto grossolana, spersa nei chiassi di una periferia, ignobile per magrezza di prospettiva e un abuso di volgarità non necessariamente conciliabili con il parametro della miseria morale. Le ragazze della periferia erano precoci, come le compagne di scuola nel rione delle case popolari. Poi avvizzivano subito. Ma intanto esplodevano, nel mentre che occorreva, splendide corolle turgide, al cui confronto sarei apparsa come un crisantemo, pallida e smagrita, non guardata.

La periferia allora era l’orizzonte bassissimo a cui aspirare. Negli anni a seguire, non era eccitante averlo superato in delusione e frettolosità, da scoprirlo scagionato da ogni illusione. Non c’era nulla di eccitante nemmeno nel riconoscersi finalmente una ragazza, una che d’un tratto aveva rivelato un volto, una distinzione, una grazia. E non se ne faceva un granché, eppure. La grazia era supina o si nutriva, non saprei dire, al mistero di una oppressione che doveva essere, nel segreto di una salvezza, rivelata più avanti. Bisognava che si offrisse l’agnello, il piccolo, l’emaciato. Ma si offrisse.

Non è un fatto peculiare, vorrei aggiungere. E’ possibile che ad ognuno sia dato il medesimo destino, che chiameremo di volta in volta con il patronimico di un accidenti, l’abiura della sostanza definitiva della nostra vita. Che sia chiaro, la scelta e il libero arbitrio, non so in quale preponderanza possa pesare l’una sull’altra.

Ero una liceale. Il fiore sotto la neve sembrava fosse molto bello, dunque ero il fiore dopo il disgelo. Ma è durato davvero poco. Ero ancora una liceale quando si preparava la via verso l’altare e il piccolo sacrificio.

Le ragazze erano ragazze. Occupate da futilità. Levigate da ceroni color fogna che andavano tanto di moda. La domenica sera bisognava andare in pizzeria, il protocollo provinciale della mondanità. Pizze gommose con un orribile impasto e il biancore ingrigito di un formaggio di terz’ordine sopra a rendere ogni dettaglio abbastanza deprimente. Nel parterre di farse indossate male, io ero quella con la marsina fuori posto. Ero già la Bess de Le onde del destino, ma il miracolo si sarebbe aperto simile alla corolla che esplode dimenticando le buone maniere di un virgulto solo successivamente.

Tuttavia con il tossico, l’eroinomane, non sarebbe accaduto. Era un senso di colpa da trascinare. Privo di ebbrezza, quel genere di morte dovevo necessariamente geometrizzarla: cos’era questa morte?

Esiste davvero il desiderio?

Esiste l’amore? Come lo avevo sognato. Come lo sognano le ragazze. La mia tela impoveriva, smagriva nei colori che un tempo erano una celebrazione ridondante dell’azzurro, per tradurre uno sguardo intimo sul mondo, lasciarlo parlare nelle variegate possibilità di seduzioni, ancorché innocentissime. Ma la stagione della giovinezza era quella del sacrificio. Il mondo. Dovevo scoperchiarlo, invece che soverchiarlo nell’entusiasmo mite della creatura incredula o neofita, smessa nell’acquerello sgranato. Finché il mondo diventa non il vaso di Pandora, piuttosto l’estesa impurità, l’uomo un affare grottesco e malmesso, equiparabile alla replica del miserabile eroinomane. Incapace di ispirarmi pietà, se non nella coniugazione avvilita di un tizio con una vertebra aguzza, incurvato e bestiale. La bestialità senza chance, difficile da perdonare.

Dovrei perdonarla, in un salto ascetico che a volerlo adesso significherebbe peccare di superbia, tirare troppo la fune, ma dalla parte sbagliata.

Le liceali, la domenica sera, frequentavano la pizzeria, era l’ultimo anno. Le invidiavo perché erano libere, secondo i canoni adottati perlomeno. La mia cattività era crudele, non ne ricordavo la ragione. Detestavo tutto quel che era diventata la mia vita, un lungo sonno, un terrore protratto e obnubilato, da cui non riuscivo a venir fuori.

La pizzeria era un dammuso. Pochi tavoli, frequentatori eletti, animaletti della notte, giovinette con ceroni color fogna spalmato sul viso.

Le liceali un tempo erano le mie amiche.

Il sacrificio avrebbe previsto la dispensa con fine pena mai dalla socialità, dall’allegria, dalla vita stessa, nel registro più frivolo che ci si possa augurare; e l’abbandono corale. Non potevo rientrare nel giro, come al gioco dell’oca, tornavo a uno start sconosciuto, diventò in fondo l’unico interlocutore da allora: lo start sconosciuto. Ferma a un lento girare d’occhi, il tempo medesimo finiva in monotone orbite di perlustrazione il cui diametro di azione non superava il mio rimpianto.

L’estranea. Disincarnata. Troppo pallida e smagrita per essere parte di qualcosa, benché lo desiderassi, come si può desiderare l’impenetrabile, con aspettative elevate, nondimeno allo stato delle cose verosimile: molto meno, di gran lunga molto meno.

Il cielo sprofondava nella vertigine delle acque agitate, ed è questo a rendermi generosamente il compitare di una solitudine lontanissima, vedete.

Le acque, il sud. I pescatori. O contadini dalla faccia greve appena srotolati da un quadro pittorico sintattico del Pitré; o saranno può darsi i briganti al soldo del bandito Giuliano oppure autoctoni coevi, privi di connotati, alle prese con rozzi congiuntivi da piazzare in volgarissimi monosillabi, in un eccesso di alterigia normanna o borbottamenti da ereditarietà meticce. Siamo molto arabi. Recitavo strazianti oratorie all’unico interlocutore, lo start sconosciuto. Il Sud dell’airone sulla roccia, nella trazzera sul mare impervio, suggeriva profondità e confondimento. Se pioveva baluginava nero, lampi di nero, sul bianco. O era una sfarfallio, un blu marino che sprofondava nel verde crudele delle acque di una rada. La bellezza violenta strozzava la mia noia o il solito dolore sordo di opportunità, quali il riscatto della compassione altrui.

Contemplare il mulinello dell’identico tempo, lento e febbrile insieme.

Esiste l’amore come il solo riscatto.

Esiste?

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

Tutti i diritti riservati, trattati da Emmeeerre Letterature

La storia di un’ossessione – La non voluta.

Forse il fulcro è nel gesto maldestro che ha accompagnato la mia vita, un gesto che attiene a una funzione in qualche modo morale, quel tendere la mano all’uomo derelitto, una compartecipazione stolta e precoce. Sarei finita in un mare di guai. Prima ancora che nella regione indifferenziata, un paesaggio di estinti che vaneggia una porta di uscita, disperata, verso la salvezza.

Torna l’assillo, fastidioso e stucchevole. Cosa dovevo salvare? L’uomo derelitto era l’attraversamento, inforcava la luce suprema, la luce lo trapassava, il riverbero sarebbe stato uno degli antipodi. Il gusto esegetico di indagare oltre la misura umana, l’anfratto in cui celava il confine palpitante tra bene e male.

L’eroinomane che voleva ammazzarsi con un grammo di eroina fu la soma che caricai nella mia carovana, presuntuosa dimostrazione di longanimità. Aiutare un poveraccio, un idiota, un analfabeta, perché voleva ammazzarsi. Ed era giusto che a celebrare il sommo olocausto fosse la mia personcina. Distratta, mai svezzata. Il parto ingrato. La non voluta.

La non voluta doveva salvare torme di miserabili, lo avrebbe fatto, potendo, per cancellare l’immane vergogna, un aborto per sempre. Indossarlo. Chiamiamolo destino. Al fondo delle cose, reclamava la ragione di dover esistere, un destino qualunque, nella partitura faccendiera e transeunte di una ordinarietà borghese. Si conficcava il mio, a parte delle noie del mondo e insieme sfilacciato, ritrattile, appeso alle medesime con la foga di chi avrebbe comunque abbandonato la presa, per rincorrere la natura speciale dei fatti che non accadono o accadono male, della ruota che non gira, il carillon che gracchia, il vinile rigato.

Avevo diciotto anni. Studiavo per gli esami di maturità. Ed ero ancora convinta che esistesse un segreto latente della vita, tale da sgorgare, come latte impuro, dalle pieghe degli errori, balzelli di una strana gloria. Ma ci credevo. L’eroinomane nel frattempo mi aveva estorto ogni curiosità, sottratto questioni che avrebbero potuto somigliare a concetti come: felicità, allegria, giovinezza. La mia figura era sottile, rappresa dentro una sofferenza esausta, ben nascosta, sgusciava dal cieco empirismo, per nettare ciò che occorreva, istanze che fremevano perché davvero un giorno si fosse detto tutto il bene di tutto il male, in quanto l’ultimo finisse per diventare strumentale all’esaltazione del primo.

Nutrivo le mostruosità. L’ignoranza, la bassezza morale. Ero sfinita. Magrissima. Smarrita la bellezza. Non un connotato che ricordasse di me la stagione fiorita, la fanciullezza, la giovinezza. E intanto studiavo, con un futuro corto similmente a finestre finte, una verniciatura ingannevole sulla parete. Un verde che sprofondava in prospettiva e restituiva il senso delle quiete, oltre il dondolio di un ruscello e i profili di vastità mistiche. Una riproduzione non verificabile, immaginaria. La mia visione.

Era il futuro che sorprendevo a tratti. Ed ero stanca. E studiavo, senza risorse, nella solitudine esatta che non mi avrebbe deluso. Mi ha aspettato, pedissequa. Oggi, ieri.

Avevo dato tutto di me per la causa sublime. La salvezza. Non avevo potuto salvare Babsi, tredici anni, di Berlino, la più giovane vittima di eroina, titolavano i tabloid.

Il diario di Christiane. Così didascalico ad enumerare gli inciampi, mausoleo di obbrobri, ed era questo vivere, saper vivere? Contemplarne le discese forsennate, furiose, nell’imo della brutalità.

Non ero preparata, ma pensavo di esserlo. I passi affondavano nella terra rugosa di una città del sud, nella trincea maleodorante di un rione, isolati della periferia, disturbati dal solito trambusto, disdicevole, ugualmente ignorante. E i volti della miseria non erano mai concilianti o forme di indulgenza tradotte nella fatica. Erano ostili, segni geroglifici, impietose campiture, un quadro di Kirchner, una spatola secca, fremente, una scarica nervosa sopra perimetri di inanità.

Studiavo, avevo diciotto anni, ero una ragazza. Non ricordavo più chi fossi. Il tempo sordo era restio a concedermi la buona stagione, il raccolto di chi ha seminato nel pianto. Ma non era fin troppo presto?

Restituiva soltanto colori acidi e soli d’albume. La mia insofferenza all’altro era la tradotta utile a spiegare la vocazione allucinata al gesto pietoso.

Odiare l’altro. Non capirlo. Salvarlo.

Avevo diciotto anni e non mi sono salvata.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

Tutti i diritti riservati, trattati da Emmeeerre Letterature

La storia di un’ossessione – La roba.

C’era qualcosa di inconciliabile tra me e le cose afferenti al mondo. Esclamazione che oggi perderebbe di appeal. Ero una bambina, ma sentivo una tensione da adulta. Una questione finanche moralistica mi avvinceva alla perdizione degli adulti. Erano perduti, bisognosi di perdono, vinti da lotte o direi ancor meglio vessazioni demoniache. Il vizio, l’amoralità, straordinaria e sfrenata nel giudicare il male un affare frettoloso e allettante, non necessariamente esecrabile, si presentava precisa, la maiuscola a ogni capoverso. La questione ruotava attorno all’identico perno: l’eroina. O Christiane, come se fosse l’una l’appendice dell’altra, a indicare l’ibernazione etica di anime molli, intrappolate nel loro stesso sentimento, non indagato, deteriore senz’altro. Una gran pena moveva la mia curiosità e il gusto acerbo per desideri infrequentabili, compulsioni insaziate. Christiane dava di stomaco, dopo aver calato un trip. Sopra il trip, beveva un succo alla ciliegia. Risaliva terribilmente. Fuori era notte, era sempre notte. La città sprofondava nei sottopassaggi, a tratti allucinati dallo sfolgorio delle insegne, mentre le ombre attagliavano individui sinistri, spesso clienti in attesa, gli imberbi barcollavano, e da un bagno provenivano gemiti soffocati. La vita sprofondava nella notte umida, lacera, i neon inforcavano sagome delicate, tali da impietosire oltremodo la mia comprensione. Leggevo e capivo tutto, li sentivo dolersi, stringersi al ventre le braccia scarnificate, dalla pelle sottile.

I tossici della mia adolescenza non avevano referenze. Erano cafoni, o ignoranti. Se tiravano coca erano figli di papà, qualcuno poteva indossare un Rolex, guidare un fuoristrada. Volgarità costose da esibire. Regalavano una pista di polvere a una figa in un certo qual modo dalle pre -gesta leggendarie in cambio di una fellatio confezionata come si deve.

C’erano i tossici emaciati, quelli che piacevano a me, pallidi, tormentati. Non detenevano motivazioni aristocratiche o libertine semplicemente o politiche al fatto in sé di iniettarsi eroina. Non restituivano piccole cause a cagione di uno sbattimento quotidiano e funesto, sbattersi per un quartino, vendersi i monili di casa. Solite storie.

Asessuati. Salvo eccezioni, qualche esempio di proletario, con una virilità ancora funzionante. Le mani deformate dalle macchine, dalla fatica operaia. Credo di averli cercati, giunta l’era, la mia stagione. Me la sono giocata. Adesso, vengo al punto. Cos’è la roba Christiane? E’ davvero così buona?

I tossici non sono uguali dappertutto. Non per l’ovvietà di farsi, la pupilla come una capocchia di spillo. Era l’ordine. Le pupille piccole come una testa di spillo. Allora, ecco, quello – dirai – è fatto di ero.

Ne incontrai uno a diciassette anni. I miei anni biblici, sapete. Cominciarono con un tossico proletario, ma privo di istruzione, di idee apprese dalle dottrine in auge, tipo al Giambe, non so, la militanza, una certa sinistra. Idee proletarie, pragmatiche, con stupide velleità borghesi, indistinguibili dal dato sociale. La borghesia come un obiettivo, interni opprimenti, con carte da parati a fiori e la moquette azzurrognola spalmata in salotto. Esibizioni , ancor più miserabili della fellatio commissionata alla figa di comprovata esperienza. L’incontrovertibile iattura di nascere in un quartiere popolare, dagli androni bui, laidi, con il vociò sgrammaticato che sillaba povertà nel gergo feroce, in una affezione maldestra, nella gentilezza spodestata da impeti scortesi, il tanfo di piscio nella tromba di un ascensore.

Aveva le piste sull’avambraccio, vene sollevate, un tragitto di croste, diritto fino al polso.

Eravamo arrivati al dunque, Christiane. La cosa inutile, il tizio incespicante, con la saliva agli angoli della bocca, un sapore metallico in gola, sarebbe il figuro equiparabile agli zombie del Bahnhof, Detlef, Atze, Ufo. Tu l’hai trasformato in una manciata di pagine, una rogna letteraria, edificante in definitiva, hai trasformato voglio dire il fatto, la roba, la contemporaneità derelitta e adulterata, lo straripante crimine: lo spirito di un tempo, vergine, annacquato. Quale tempo? Non era la stagione migliore, la stagione fulgida della giovinezza? Ivi si compieva. Il crimine. Malgrado immaginassi la stoltezza della contraddizione, Berlino in prossimità del Bahnhof si sviliva in un sentiero di ciliegi. Bardare di bellezza l’encomio scolorito di una rivoluzione bugiarda. L’eroina fu presentata a una dissidenza disinformata alla maniera di una insurrezione, un colpo di reni tra eletti.

Una apologia che adunò mentecatti, uomini inconoscibili, di costoro non abbiamo menzione. Morti. Chi erano? Credevano in qualcosa, i politicizzati. Si sarebbe dovuto risolvere tutto negli estremi ruffiani: l’apologia e l’invettiva.

E invece perlopiù morirono tutti.

L’ingiustizia mi procurava il turbamento, non perché fossi una infante lo patissi meno. Il gelo che pervadeva le esistenze gracili, a cui veniva sottratto il pathos, una qualche eterea speranza, la castità, la risolutezza innocente, la modestia di chi esprime parole esitanti o non consuete, nel mondo di certezze grasse, come talune risate da adulti. Ciniche e smargiasse.

Io non so cosa andassi cercando, se non la verità.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

Tutti i diritti riservati, trattati da Emmeerre Letterature

Sangue di cane: un amour fou.

di Stefano Bizarre Quario

Bizarre, pseudonimo di Stefano Quario (Milano, 1961), scrive di musica. Ha collaborato sia con riviste specializzate (Rumore, Dynamo, Il Giornale della Musica) che con testate e siti generalisti (La Valsusa, Dinamo 2000, ExtraTorino) e organizzazioni culturali (Musica90). A Blow Up entra all’inizio del ’97. Vive a Torino.

È sempre con un po’ di sospetto che ci si può avvicinare a un libro che è stato decretato caso letterario. Quasi sempre si tratta di un testo che per qualche motivo sovverte la morale benpensante, ma è chiaro che questa non è condizione sufficiente affinché ci si trovi di fronte a un’opera di effettivo valore. Con Sangue di cane, il motivo per cui questo romanzo, l’esordio letterario di Veronica Tomassini datato 2010, destò scalpore, è chiaro fin dalle prime righe: racconta di un amour fou tra una ragazza borghese, di buona famiglia, senza grilli per la testa, e un immigrato polacco senza fissa dimora, arrivato in Sicilia senza occupazione e con una particolare predilezione per il sesso facile, le risse e soprattutto l’alcol, l’elemento che crea lo squilibrio decisivo in un rapporto che nasce già coi peggiori presupposti. In realtà, tutto è già chiaro fin dal primo capitolo, e nelle successive 200 pagine del libro non è certo la trama (una sequenza ininterrotta di disavventure fatte di cattiverie tra poveri, abitazioni temporanee, sporcizia e vomito, tradimenti e sesso senza pensieri, ubriacature memorabili e morti improvvise) che crea coinvolgimento nel lettore.

Tuttavia, Tomassini affronta il tema del suo romanzo mettendo in campo due grandi qualità, che le consentono di evitare scivolamenti retorici o epiloghi prevedibili. La prima è quella della scrittura, che nella sua asciuttezza evita qualsiasi compiacimento, riuscendo anzi a mostrarsi poetica e concreta allo stesso tempo; immediata, istintiva ed essenziale, non si concede voli pindarici rimanendo invece su un piano molto terreno, che alla fine è più che sufficiente, o addirittura un passaggio obbligato, per capire quanto necessario dei vari personaggi. Questa stessa modalità di scrittura è alla base dell’altra direttiva importante del romanzo, ovvero la scelta di rinunciare a qualsiasi giudizio morale sulla storia d’amore. Una storia presentata come assoluta, mai messa in discussione, inevitabile come la pioggia durante il temporale – o forse bisognerebbe dire i fulmini, che si schiantano al suolo a pochi passi da questa coppia, che tuttavia resiste in qualche modo a ogni turbativa: la mancanza di soldi, la dipendenza dalla vodka, l’umanità egoista intorno a loro, l’instabilità perenne. Non c’è morale insomma, né redenzione né punizione. C’è solo l’amore, finché dura, e non ha bisogno di inutili descrizioni: totale, assoluto, inspiegabile. E quindi, indubitabilmente vero.

Il senso di una vita – Cosa volevo in cambio?

La pioggia smette di colpo. Il torpore si dissipa tutto intorno, la luce opaca sprofonda attinta da voragini di infedeltà umida, grumosa, piombata dal cielo. L’identico grigio che mi atterrisce, nei visi smorti di un sottopassaggio.

Erano incubi oramai, non i personaggi di un diario. Il diario di Christiane Felscherinow. Lo lessi a nove anni.

C’era questo spaventoso grigio sotterraneo, meschino, i viandanti discendevano il kurfustendamm di Berlino ovest, invece che risalire, nel profondissimo utero, infestato di resistenze o assedi. Eroinomani dal volto deformato fino alla smorfia innaturale, la spoliazione definitiva, un tempio di ossa che celebrava l’esondante nostalgia del disumano, orfano della rivelazione. Eroinomani.

Volevo capire, quale bambina curiosa io fossi.

Risalire come da una notte frettolosa e cupa. Sganciata sommariamente alle tenebre dentro l’alba fugace, priva di un principio di brillio, un albume fluorescente, alla stregua di un battito.

Ero una bambina curiosa. Mi sono imbattuta precocemente nel senso criptato, qualora sussistesse e fosse della vita, allora sulla soglia del dolore.

In casa dei nonni ero ancora una bambina. Ma avevo già il diario di Christiane Felscherinow sotto il cuscino.

Sono diventata una donna.

Sì?

A Johannes avevo delegato nuove sventure. Come se non ne avesse abbastanza di suo. La mia ossessione in fondo era la medesima che da bambina mi spingeva a fermarmi davanti a un uomo di strada, steso, finito.

Era la stessa. Cosa volevo in cambio? E’ una tale curiosità ricamava decori intorno alla ferita che avrebbe preparato l’ultima cena per l’età adulta.

Forse è più facile essere amata quando si diventa necessari, in uno stato di oggettiva disperazione. Stavolta altrui. Quasi a voler indagare il supremo mistero a capo di ogni umana vicenda. Persino scoprirsi esistente, dinanzi a uno specchio.

Johannes mi ha tenuto compagnia, dentro anni a cui guardare con spavento. Anni senza nemmeno una promessa da tradire. Anni frenati davanti al valico inibito di un qualsiasi accadimento che non sarebbe mai accaduto piuttosto.

L’ultima volta in cui mi vidi, io da me, in quanto realmente una donna, con un vissuto, con qualcosa, ero in un centro commerciale, provavo un cappotto di cammello; dalla musica degli altoparlanti proveniva la voce blues di Amy Winehouse.

Poi sono scivolata, come sparita, in un lutto esteso e nero o nascosto dentro canterani ferali parimenti, insieme con maglie e scarpine di lana da neonati. Lettere, scontrini, appunti famigliari, dolorosamente innocui.

Sono scivolata in un vestibolo di infelicità impenetrabile, difficile da scalfire. Ritta e distante dal cingottare tiepido, consolante, normale, dagli altri. Distanti dalla gratitudine e dal compenso morale a una siffatta rinuncia, un faro accanto all’altro, uno smorzato, l’altro indeciso nell’intermittenza. L’altro che fulgeva appena era il massimo a cui potessi dedicarmi. Una riproduzione in scala miserrima della pace e del gaudio.

Indossato il cappotto di cammello, da lì a poco avrei dovuto dismettere qualsiasi arrogante serenità. Indossare di fretta e furia la veste povera della vedova bianca di Isaia.

Ci sono ferite che saranno rimarginate solo in Cielo.

E’ il destino delle vedove, più o meno.

Un destino che, permettetemi, mi è precipitato addosso, nella forzatura di una elezione, non mi vestiva nemmeno bene.

Potrebbe essere un primo piano raffigurante Veronica Tomassini

Johannes sicché ospitava un uomo finito, steso, come quegli uomini che da bambina mi istigavano una pietà inopportuna, anch’essa precoce.

Mentre gli altri preferivano la città, le sue vestigia – ricordo la permanenza in casa degli zii nella capitale – io preferivo i sottopassaggi. Io volevo scendere giù, tirando mia madre per il braccio.

Dove vuoi andare? Mi chiedeva.

Sotto, rispondevo.

Perché?

Dovevo vedere. Cosa? Chiedeva mia madre.

Oh, non lo so, dovevo più che altro capire il mistero ai piedi di un uomo finito.

Un uomo su cui avrebbe dominato casomai il fideismo del mondo.

Ma cosa fosse questo mondo non era un fatto interessante.

Non dovevo essere protetta da me, da una compulsione, finanche da una pietà assetata, sempre.

Io dovevo essere il pasto.

E tale è stato. Tutto conforme ai desideri di un progetto, di cui ancora sconosco i dettagli, il fine può darsi no, può darsi lo abbia sorpreso, colto, come il lampo sulla porta dell’orizzonte, fuggire via oltre le foschie violette.

Ed ecco accorgermi di un trepidante portento, svelarsi senza eco alla fine del viale, del greto, oltre la catasta di bossi, alle fine di tutte le rovine.

Nel silenzio pulito al cospetto del crepuscolo, li dove l’attesa non cessa di esserlo, per una definizione aprioristica, persino teologica.

L’attesa è qualcosa che attiene al cerchio e all’infinito, l’inizio che coincide con la fine. E quella è l’eternità, mi rivelò la sapienza nel sogno.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

Tutti i diritti riservati, trattati da Emmeerre Letterature

Il senso di una vita – Petali di fiori

Sedevamo al tempio. L’alberello di melograno era fiorito. Il tempio era una ridda, di uomini e grossolanità. Johannes salutava i passanti con un sorriso molto autorevole per la gente del rione.

L’aggiustaossa lo chiamavano.

E allora ridevamo. Lo guardavo e di colpo ridevo. E lui senza voce sillabava: marrana, non ridere. Oppure con tenerezza, sillabava: scurpiddu preziusu.

Leggete Luigi Capuana e capirete.

Il tempio è stato un luogo utile a custodirmi fintanto non avessi allietato il vivaio di errori con rinnovati abbagli, dunque ancora chiudere la questione. Quale? La pratica del vivere. Volevo riprendermi quel che mi era stato tolto. E in fondo tuttora non faccio altro che rivendicare espropri immotivati, a mio modesto avviso.

Johannes era il custode della mia intemperanza. Intemperanza ragionata su fatti squallidi oltremodo, di una inesplicabilità tale da rendere la faccenda per intero immanente, ai limiti della trascendenza.

Sicché tutto mi era stato tolto. Ogni mattina, per mesi, tornavo nella mia casa, la casa dove dimorava la vedova bianca di Isaia.

Smisi anche quel pellegrinaggio, presi a frequentare altri uomini. Johannes mi amava come una figlia, diceva, e assecondava le mie richieste concitate che vertevano a ogni modo su eventuali non meglio identificati progetti di salvezza; manifesto che assumeva oramai le sembianze (il clangore) di un assillo, più che adeguarsi a un vestigio di una qualche carità.

Frequentavo un uomo, nel frattempo mi auspicavo che l’altro non finisse a crepare in una bettola, o rotolando fuori, maldestramente indignato, nel senso più elevato di una ilarità nera nerissima, cechoviana; trascinato, insultato dall’oste furioso di volgarità e ignoranza. Le solite vili evidenze. Una scelta precisa, sedersi dalla parte dei peggiori, salvo poi chiedere a una sorta di consiglio di anziani universale, immaginifico, una congrua parte di riconoscenza, ristabilendo perciò equità e educazione; invocata tuttavia e in special modo per gli altri, disconoscendo l’attributo – l’equità o riconoscenza o entrambe il che è uguale – giacché di questa a me stessa non ne fossero restituiti che scampoli rognosi.

Ma quando chiedevo alla vita di consolarmi, perché mi venisse concesso una specie di “brava”, brava bambina, sul finale, finale di solito imperioso quanto stucchevole, in realtà chiedevo al Cielo. L’interminabile interlocuzione. Non ho fatto altro che mormorare, tacendo persino.

Non ho fatto altro che parlare con Lui, lassù.

Aprivo la porta della mia casa dove vivevo un tempo, preparando il corredo della vedova bianca di Isaia. Un corredo di stracci ripiegati, controllavo che tutto fosse in ordine. La rosa rimase a lungo nel vasetto di ceramica in cucina, così l’asse da stiro, la camicia con il collo inamidato poggiata allo schienale della seggiola; lo stesso vociare del mondo di fuori, replicarsi nell’esattezza feroce, stando alla vulnerabilità di quel dato muscolo che uso con indolenza, la memoria vorrei dire; lo stesso vociare persisteva per inutile fecondità di un tempo valido per ognuno, non per me, già nell’ordine del trapassato. Sedevo anch’io sulla sedia accanto al vasetto di ceramica sistemato sul tavolo, chissà in quale (non ricordavo più) dicevo chissà in quale innocua, distratta circostanza; la circostanza per cui spesso incontriamo la sublimità delle cose, delle persone, finanche nella reiterazione di un gesto, un brano di dialogo, un mugugno, una consuetudine, ecco, eppure lo dimentichiamo. Ed il tutto è sublime, irripetibile, ma noi sazi ignoriamo l’eccezione e consumiamo la preziosità con una manciata di secondi, una riproposizione di sequele successive, automatismi, altri gesti. E cancelliamo, cancelliamo. Senza sapere infine che abbiamo trascurato la grazia concessa, similmente al petalo di un fiore caduto nella cesta, raccolto, dimenticato.

La cesta delle grazie, sapete?

Don Tonino Bello diceva che la sofferenza dell’uomo si traduce in petali di fiori conservati in una cesta, diventano grazie, le grazie rovesciate sul mondo; la cesta capovolta che abbandona i petali dei fiori sul capo chino dell’umanità afflitta.

Per questo volevo sempre salvare qualcuno. Veramente, non so perché. Perché i poveracci mi crollavano davanti. Non che amassi il genere umano.

Forse avrei dovuto evitare di leggere il diario di Christiane Felscherinow a nove anni.

Dico, da ragazzina mi fotteva la pietà. Io volevo solo divertirmi. Fumare, bere, trascorrere la notte in discoteca. Non fare nulla.

E’ andata in un certo modo.

Potrebbe essere un primo piano raffigurante Veronica Tomassini

Sono fatta per non fare nulla, per guardare il mare seduta sulla panca al porto. Accendere una sigaretta e pensare con eccitazione a qualcosa. Sono stata anche questa giovane donna.

Sono fatta per perdere qualcuno che amo, sempre.

Non devo dibattermi o ancor peggio postulare.

La giovane donna passeggiava le sere d’estate sull’identico lungomare dove oggi si esplicano taluni luttuosi turgori, di norma finiscono nel pianto pre-crepuscolare. La giostrina ronzava come un carillon. Le bancarelle di libri vendevano a prezzi stracciati l’opera omnia dei miei scrittori preferiti: Dostoevskij, Gor’kij; i russi tutti; o anche Maupassant.

Le luci dei panfili erano ovattate e intermittenti, languide per una pièce di eccellenza che si svolgeva al loro interno e a nostro discapito; ma nulla che facesse intristire una siffatta vita così preparata ai giorni futuri.

Era l’avvento, allora lo era senza timore.

E guardate miei cari, l’Avvento. Negli stessi giorni lo precedette la sventura, stranissima parabola. La nascita del figlio dell’Uomo nei giorni del mio abbandono: cosa vorrebbe dirmi il segno?

E’ un segno?

Non che adesso lo senta bruciare. L’affare riguarda altri, sembrerebbe, io non posso che disaminare la sventura senza un palpito.

Spesso mi ritrovo a barbugliare qualcosa come: “che finisca subito e presto”.

Nell’attimo che anticipa il crepuscolo, la trama si sfalda, si trasforma, trafitta di bagliori acquavite.

Siedo sulla panca del porto, socchiudo le palpebre perché del resto mi giunga soltanto una vivida dolcezza nella qualità della consolazione segreta, postulata perché mi riprendesse proprio quando avessi smesso di invocarla.

In quella dolcezza soltanto, rimango.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

Tutti i diritti riservati, trattati da Emmeerre Letterature

Vodka Siberiana. Preludio all’intervista su Repubblica Palermo

L’auto-pubblicazione. Una nuova avventura.

 Ho deciso di auto-pubblicarmi una domenica di fine agosto. Uscivo derelitta da un nonsense generale. Fisicamente e moralmente mi sembrava di essere arrivata a un congedo onnicomprensivo, con quanta enfasi e sentimentalismo lo credevo. Eppure avevo scritto molto, vissuto meno, ma non importa. Il mio agente, Patrizio Zurru, poteva al massimo alzare le spalle. Cosa fare di più? Una major  – l’ultima in ordine cronologico – aveva tenuto il testo, infognato aggiungerei, per mesi. Alla fine, nemmeno una risposta, di quelle cose incartapecorita. Niente. Rigettato, senza nemmeno un “grazie, è stato un piacere“. Il testo erano queste lettere, era il romanzo che sarebbe diventato “Vodka siberiana”. Un’amica, grafica, un’artista, Alina Catrinoiu (che poi è la moglie di mio fratello), quella domenica esatta mi è seduta accanto, mi guarda e mi dice: adesso basta, adesso te lo pubblichi da sola. E così in due giorni, io e Alina (Alina si è occupata della copertina, della grafica e dell’impaginazione) abbiamo confezionato un romanzo. Pubblico un post su Facebook, lo annuncio, in un’ora rimedio cento prenotazioni. In un’ora.

Quindi diciamo che questo esperimento – partito con risorse zero – smonta anche la balla della fantasmagorica non meglio identificata “crisi del lettore” o altrimenti detta “l’aporia del lettore che non legge”. Eh no, belli. Il lettore non legge più una forma estesa di deiezione narratologica, che è un po’ diverso. Libroidi, scatole di carta con dentro sfoglie di cellulosa. Eccetera. Questo esperimento raggiunge persino le grazie di Igor Tuveri, al secolo Igort, che mi promette: ti sosterrò sempre, mi piacciono le sfide, chi si avventura in strade strette  e poco frequentate.

L’editoria.

L’editoria tradizionale – i suoi canali ufficiali – forse non mi ama abbastanza, forse il mio vezzo è voler essere amata a tutti costi e proprio per questo il mio vezzo si traduce in un mai severo e irrevocabile. 

Le lettere

Le lettere nascono a ridosso dell’epistolario sentimentale scritto a quattro mani con lo scrittore e poeta Davide Brullo, esattamente un anno fa; iniziate a maggio, finite a agosto (del 2019). E in fondo questo romanzo lo devo a lui. Molta scrittura degli ultimi mesi la devo a lui. Il romanzo gliel’ho anche dedicato per questo.

La memoria è un vascello.

Le lettere erano sistemate da qualche parte in quel vascello fantasma che a volte è la mia memoria. Abiurano tutti. Nella mia memoria. C’era un’altra angolazione da dover affrontare (dopo “Sangue di cane” e “L’altro addio”), collocandomi stavolta io al centro di un proscenio epocale, che mi ha investito come distrattamente, eppure infilandomi di forza dentro l’attraversamento della Storia. La storia di quegli anni, metà anni ’90, dopo la caduta del Muro, l’avvento della democrazia in estensioni di laconiche lande dell’est, la riproduzione di uomini automi, che riversano nel nostro Occidente pingue e maldestro, d’un tratto soltanto bevitori, d’un tratto il calco ributtante, erano deregolamentazione, scandalo, irreggimentazione. Chi erano questi uomini? Bevitori portatori di una pietà apocalittica, di errori che hanno fondato un secolo, di fallimenti e utopie, chi erano, se non un monito, lugubre e cimiteriale, di colpe anche nostre? Raccontare di nuovo è stato prostrante, mi è costato molto, non pensavo così tanto.

Non scrivo se non quello che conosco.

E’ come se mi fosse stata data una sola possibilità, di vivere un lasso, in quel lasso si sarebbe concentrato tutto il mistero del mondo, il segreto primordiale, la tragedia e la morte, l’ignominia e la risurrezione. Il dolore, la pietà, l’amore. Ma più di tutto, la pietà. Un’eco mistica, la pietà. In quel lasso, in quel solo lasso, ho vissuto, e poi mai più. Non sapendo che già mi avevano indicato la casacca della testimone e che avrei dovuto indossare. E l’ho indossata. Ma non lo sapevo. Guardavo svolgersi le cose, e io dentro, eroi gogoliani, guitti con un ghigno tragico crocifisso in volto, riproducevano il senso più patetico, ridicolo, epico e commovente, che in fondo potremmo destinare a un girone di eventi e casualità chiamati nell’insieme: vita.

Il romanzo guida. Limonov.

Ho scoperto (le rivelazioni mi si presentano spesso sottaciute) che ogni mio testo ha avuto un romanzo guida. Più che Carrére (narrazione orizzontale che, ammetto, non ho amato molto), mi interessava l’eroe discinto, amorale, che fu Limonov. Quel tipo di uomo apparteneva esattamente all’enclave di bevitori, con una confusa identità da esaurire, frequentatori del parco, nella trama, nel filo intessuto delle Lettere. Cioè di “Vodka Siberiana”.

L’autofiction.

Non è esattamente quel che faccio, ma non c’è un altro modo per definire l’autobiografismo. E tuttavia non è nemmeno esatto definire autobiografismo quel che faccio, perché racconto terzi, soggetti terzi portatori di sventure visionarie, tratti da passaggi su tralicci surreali e sovramondani, più o meno. L’ambientazione è una piccola città del sud, una città di provincia siciliana; ma il metauniverso è da tombino, un globo di sparuti alticci che il mondo perbene e borghese stenta a riconoscere o sorprendere nei giorni ordinati e consolatori del resto, il resto sono gli altri. Quindi potremmo essere ovunque, a Berlino o a Bogotà. In un barrìo o in una squat londinese, ma siamo in un parco siciliano.

Reazioni alla nuova avventura.

Reazioni favolose, proprio da favola. Dicevo del sostegno del grande fumettista, scrittore e regista, Igor Tuveri; scrittori, poeti. Lettori di qualsiasi estrazione sociale. E’ come se a un certo punto tutti avessimo capito che sta cambiando il vento. Sta cambiando. Una rivoluzione. Una specie di rivoluzione. E’ finito il tempo dei “walking dead”.

La creaturina.

Oh, la creaturina. Una mistica. La restituzione fedele dell’amore crocifisso. La mia conversione. Con lei ho incontrato un Dio Buono e Sovversivo, con lei questo Dio era Buono e basta (ed è Dio), incapace di giudicare, e frequentava gli imperdonabili, e li amava, e usciva dai luoghi consoni, per sollevare le braccia del lercio, sepolto dai suoi escrementi. Mi ritrovo a pensarla – o a sospirare delicatamente come faceva lei e dire come faceva lei vediamo, speriamo – o a riflettere: ma è esistito tutto, davvero?

Una parte dell’intervista è uscita sulle pagine di Repubblica Palermo, a firma di Eleonora Lombardo, il 14 ottobre 2020.

L'immagine può contenere: 1 persona

Su Sangue di cane: le parole come la vita

di Alberto Alberici

Alberto Alberici, Castel San Pietro Terme (Bologna). Lavora nella moda. Scrive. Il suo ultimo romanzo è “Ero” (Minerva Edizioni, 2019)

Di Veronica conosco le parole scritte in Sangue di cane (Laurana, 2010) e quelle che la sua voce regala in rete nelle foto animate e nella lettura di alcuni brani tratti dai suoi romanzi. Le prime e le seconde sembrano non provenire dalla stessa persona, eppure si legano ma come opposti, inaspettatamente. Sangue di cane è un romanzo che regalerei a tutti e che consiglio. La scrittura di Veronica mi ha colto impreparato e impressionato. Non ho mai fatto la conta di quanti sono gli scrittori a cui sono grato. In una ipotetica personale classifica direi una decina. Una decina più Veronica. Sangue di cane è in primo luogo un oggetto estetico. Pochi libri purtroppo lo sono, sovente le case editrici dimenticano questo aspetto. La fotografia in copertina, il color prugna diminuito, la quarta con un colore diverso ma appropriato al tutto, poi il primo piano a colori di Veronica che gioca a rimpiattino con il bianco e nero della ragazza in copertina. Hanno qualcosa in comune e va scoperto, sentito, forse un passato e un futuro legati dalla narrazione, aggrappati ad essa. Un oggetto d’arte da esporre. Una meraviglia fuori e dentro. Torno alle parole. Quelle scritte provengono da un posto prima del pensiero e sono come la vita, buone alla prima, senza possibilità di tornare indietro. Un inchiostro carico d’istinto che trae dalla poesia per getto d’impulso e diventa prosa nella cruda descrizione del reale. Un romanzo deve regalarmi almeno una frase da portare via. Da tenere in tasca. Una di quelle che a pensarci conoscevo ma non sapevo di avere, o una nuova al di fuori di me. Sangue di cane ne è pieno. Amo sottolineare queste frasi. Nel romanzo di Veronica ho smesso: troppe! Il libro è un pugno allo stomaco che ti piega, le cui vibrazioni imballano il cuore, salgono alla mente e qui scavano, creano un varco, poi penetrano mescolandosi al contenuto, estraendoti diverso. La scrittura prende e trascina. Veronica ha questo dono, insieme a quello di conoscere quando mollare la presa, liberare il lettore dall’apnea, perché è la sua e non per necessità narrativa. Le pause che arrivano al momento giusto, nelle quali il racconto si apre , sono quelle della sua esistenza. Non c’è artificio, il lettore lo sa, solo genuinità. Un miracolo. Ho invidiato quel polacco, per come è descritto, per l’amore ricevuto addosso, poi sono arrivato ad essere infastidito dalla protagonista, per quel suo procedere senza difese, incurante, senza remore. Uso un termine non mio”senza pelle”. Poi ci sono le parole dette da Veronica, da una voce che non diresti sua di donna, ma ancora di ragazza, e sono parole con un intercalare proprio, come somma di interruzioni, come fossero messe, inserite, in una realtà di sola pausa. Inserite in una pausa e non viceversa. Ogni singola parola proviene da un sospeso e solo alla fine chi ascolta comprende che sono un regalo, un medicamento per colmare quel vuoto concavo lasciato dal pugno nello stomaco. Ci aiutano a tornare alla forma precedente, lasciando a lei, l’autrice, tutto il carico di verità, dolore, inquietudine e schifo.

Un dicembre.

Il sole sembrava un sole di aprile. Ed era dicembre. Ero bruna di capelli. I miei capelli erano forti, arruffati, lunghi.

Il sole bianco era la patina sopra il nostro cielo, personale e disperato, di quella disperazione da liceali che pregusta soltanto sfolgoranti amenità e molto presto. Inciampavamo su scarpe da adulte, ed eravamo ragazze. Ragazze – io credo – oggi lo credo – sia necessariamente una condizione dello spirito, in cima alle pretese o nell’ultimo scranno della gerarchia, un po’ come i portoricani per i newyorchesi. Eravamo sempre sopravvissute a qualcosa, alla notte umida e pregna di gas di scarico, fumo acre da uno chilom, la musica era sordida, da atmosfere clandestine e gotiche.

La mattina c’era la piazza. Ed era Natale. La mia attesa non aveva risorse, l’intimità feconda che è capace di orazioni, non teme la supplica, l’abbandono. Sarebbe la vita a concorrere, alla fine, lo farà lei, disporrà le orazioni. Allora ci limitavamo a essere ragazze.

Gli amici erano gli spostati di una periferia. Bevevo un aperitivo amaro alcolico, il sole era la raggiera, il sole, l’amaro alcolico dell’aperitivo bruciava maledettamente. Che ore sono? Chiedevo all’altra, la faccia sconvolta di una come me. Che ore sono?

Il sottile piacere era bruciare maledettamente. Nell’immane simbolismo potremmo infilarci tutto, ogni privazione, didascalica alle sequenze degli avvenimenti futuri. Ripetitivi, noiosi, fino alla svolta fulminante, l’aver inteso che in fondo non era altro quel tempo che la pioggia sopra l’erba la notte, concentrata in certi visi imberbi, il tedio immobile e severo, il ronzio di un’autoradio, lo stolto avanzare di un amico stravolto.  Le luci di un’automobile sbucare da una sera qualsiasi. Era soltanto un tempo, una stagione. Dicembre con un sole di aprile. Indossavo vestiti corti e leggeri, crudelissimi vestiti da pin up. Sentivo spesso un gran freddo addosso. Fumavo pensando tuttavia con eccitazione al cielo gonfio di novità, simili al baluardo verdastro che finiva al mare, una linea di contiguità tra sfumature e prospettive disordinate. La desolazione era il cilicio vestito con virtù. Era l’alibi inoppugnabile per iniziare una carriera: lo svolgimento degli errori. Cominciai a sbagliare, fui io stessa la ragione di molti errori. Issare la bandiera esultante del pronome, solo e sventurato: me e me soltanto.

Eravamo sopravvissute a certe feste alcoliche, dove alla fine era avventuroso persino riconoscersi all’alba. La piazza era la traduzione precisa di un ordine sociale e classista. C’era il bar dei tossici, l’arco dove sostavano i fighetti dei licei, con il loro stile borghese e pretenzioso.

Frequentavo il bar degli eroinomani. Aveva un nome volgare, come slabbrato diseducato, detto alla maniera meridionale. Ma ero una liceale. Sedevo sul gradone di un giardino, con il sole di dicembre che sembrava aprile assiso intorno, nel giro sbagliato, la speranza era di là. Il sole, altrove, altrove era un luogo desiderato. Stringevo le braccia alle ginocchia, le calze erano smagliate. Aspettavo sempre qualcosa. La figlia di nessuno.  Dentro la compiaciuta voragine, dilaniata da un esercizio di perfezionamento del risentimento, mi sono formata, nel giogo perfetto dell’imperfezione. Aspettavo qualcosa. Ed era l’amore.

Dibatto ancora, con il patetismo confacente alla bambina, poi la ragazza, poi la donna, interrotta. Forever.

Le altre non erano amiche, erano compagne. Reduci dalla festa alcolica, feste free le chiamavano.

Oggi – e ripeto oggi con una sillabazione tediosa, da vetusta consegnataria di sciocchezze, abbordabili e soprattutto non necessarie.  Oggi sono sicura che abbia perso un mucchio di tempo. Quel tempo ritorna nella scrittura. Non la spada di bellezza fulva, netta, e strumento di rivendicazione, come lo fu per altre, altre scrittrici. Leggo a margine di un testo biografico: sulle donne c’è da congiungere la vita e l’opera.

La vita e l’opera. E non sai mai decidere – mi dico – chi o cosa – abbia perso di più.

Copyright © Veronica Tomassini.

 

 

Una fine imperdonabile

I miei capelli. Erano sottili, adesso. Adesso cadevano. Non è isterismo, il mio è un problema di accettazione. La psicoterapeuta allungò la ricetta, lessi: Seropram. Dieci gocce, disse. Ogni sera? Ogni sera, concluse. Mi alzai,  con in testa un numero. Era il numero della comunità di Sant’Egidio. Proverò a chiamarli. Forse loro possono salvarti e se finisci in stazione ti vengono a prendere. La porta a vetri opachi si chiuse dietro di me.

Sollevasti la sedia accanto al tuo letto, provasti col braccio destro, convenendo che tutto sommato tendevi a guarire, saggiavi la forza che tornava piano piano. In stanza i due compagni dormivano, stavano in ripresa anche loro. Le ragazze le vedevi meno in corridoio, qualcosa non andava per il verso giusto, avevi paura persino a domandare in giro, temevi per la giovane del Kazakistan.

Ti dirigesti in biblioteca, fuori pioveva, passeggiare nel parco non potevi. In biblioteca avevi iniziato a leggere un libro di Marek Hlasko, non credevi ai tuoi occhi quando lo notasti sullo scaffale dedicato ai classici. Ti accomodasti sulla poltroncina di velluto comoda e imbottita e apristi a caso, leggendo a voce alta, con lentezza infantile: “(…)Addio, disse Franciszek. Restò alla finestra finché lo vide uscire dal portone, andarsene lentamente con la sua valigia, in una specie di silenzio ronzante e sospeso(…)”. Chiudesti su quelle pagine, poi serrando gli occhi, il pianto montò con la prepotenza delle cose dimenticate che riappaiono improvvisamente, nel medesimo posto in cui si erano adagiate, illuminate dalla luce brusca della ragione. La ragione ti indusse al pianto. Desideravi la consolazione, una via dove soccombere alla folgorazione del Padre che veniva a cingerti da figlio, raccoglierti dalle tue insensatezze. Padre, mormorasti. Udivi lo scampanio, proveniva dalla chiesa del paese. Scuotevi la testa, ti eri arreso, era vero. Padre, mormorasti ancora, mentre il sonno ti raggiungeva.

romanzo d repub

(L’altro addio, Marsilio – 2017)