Il tempo della giovinezza. Una stagione. Doveva essere un rifiorire di speranze per l’appunto. Fiori che dormono sotto la neve, che non aspettano altro che il disgelo, le estese praterie o i colli o le radure tremanti di qualche fremito appena adunco su un risveglio. Così devono mostrarsi le ragazze. Non sciupate sulla vita o quel che appare, tanto grossolana, spersa nei chiassi di una periferia, ignobile per magrezza di prospettiva e un abuso di volgarità non necessariamente conciliabili con il parametro della miseria morale. Le ragazze della periferia erano precoci, come le compagne di scuola nel rione delle case popolari. Poi avvizzivano subito. Ma intanto esplodevano, nel mentre che occorreva, splendide corolle turgide, al cui confronto sarei apparsa come un crisantemo, pallida e smagrita, non guardata.
La periferia allora era l’orizzonte bassissimo a cui aspirare. Negli anni a seguire, non era eccitante averlo superato in delusione e frettolosità, da scoprirlo scagionato da ogni illusione. Non c’era nulla di eccitante nemmeno nel riconoscersi finalmente una ragazza, una che d’un tratto aveva rivelato un volto, una distinzione, una grazia. E non se ne faceva un granché, eppure. La grazia era supina o si nutriva, non saprei dire, al mistero di una oppressione che doveva essere, nel segreto di una salvezza, rivelata più avanti. Bisognava che si offrisse l’agnello, il piccolo, l’emaciato. Ma si offrisse.
Non è un fatto peculiare, vorrei aggiungere. E’ possibile che ad ognuno sia dato il medesimo destino, che chiameremo di volta in volta con il patronimico di un accidenti, l’abiura della sostanza definitiva della nostra vita. Che sia chiaro, la scelta e il libero arbitrio, non so in quale preponderanza possa pesare l’una sull’altra.
Ero una liceale. Il fiore sotto la neve sembrava fosse molto bello, dunque ero il fiore dopo il disgelo. Ma è durato davvero poco. Ero ancora una liceale quando si preparava la via verso l’altare e il piccolo sacrificio.
Le ragazze erano ragazze. Occupate da futilità. Levigate da ceroni color fogna che andavano tanto di moda. La domenica sera bisognava andare in pizzeria, il protocollo provinciale della mondanità. Pizze gommose con un orribile impasto e il biancore ingrigito di un formaggio di terz’ordine sopra a rendere ogni dettaglio abbastanza deprimente. Nel parterre di farse indossate male, io ero quella con la marsina fuori posto. Ero già la Bess de Le onde del destino, ma il miracolo si sarebbe aperto simile alla corolla che esplode dimenticando le buone maniere di un virgulto solo successivamente.
Tuttavia con il tossico, l’eroinomane, non sarebbe accaduto. Era un senso di colpa da trascinare. Privo di ebbrezza, quel genere di morte dovevo necessariamente geometrizzarla: cos’era questa morte?
Esiste davvero il desiderio?
Esiste l’amore? Come lo avevo sognato. Come lo sognano le ragazze. La mia tela impoveriva, smagriva nei colori che un tempo erano una celebrazione ridondante dell’azzurro, per tradurre uno sguardo intimo sul mondo, lasciarlo parlare nelle variegate possibilità di seduzioni, ancorché innocentissime. Ma la stagione della giovinezza era quella del sacrificio. Il mondo. Dovevo scoperchiarlo, invece che soverchiarlo nell’entusiasmo mite della creatura incredula o neofita, smessa nell’acquerello sgranato. Finché il mondo diventa non il vaso di Pandora, piuttosto l’estesa impurità, l’uomo un affare grottesco e malmesso, equiparabile alla replica del miserabile eroinomane. Incapace di ispirarmi pietà, se non nella coniugazione avvilita di un tizio con una vertebra aguzza, incurvato e bestiale. La bestialità senza chance, difficile da perdonare.
Dovrei perdonarla, in un salto ascetico che a volerlo adesso significherebbe peccare di superbia, tirare troppo la fune, ma dalla parte sbagliata.
Le liceali, la domenica sera, frequentavano la pizzeria, era l’ultimo anno. Le invidiavo perché erano libere, secondo i canoni adottati perlomeno. La mia cattività era crudele, non ne ricordavo la ragione. Detestavo tutto quel che era diventata la mia vita, un lungo sonno, un terrore protratto e obnubilato, da cui non riuscivo a venir fuori.
La pizzeria era un dammuso. Pochi tavoli, frequentatori eletti, animaletti della notte, giovinette con ceroni color fogna spalmato sul viso.
Le liceali un tempo erano le mie amiche.
Il sacrificio avrebbe previsto la dispensa con fine pena mai dalla socialità, dall’allegria, dalla vita stessa, nel registro più frivolo che ci si possa augurare; e l’abbandono corale. Non potevo rientrare nel giro, come al gioco dell’oca, tornavo a uno start sconosciuto, diventò in fondo l’unico interlocutore da allora: lo start sconosciuto. Ferma a un lento girare d’occhi, il tempo medesimo finiva in monotone orbite di perlustrazione il cui diametro di azione non superava il mio rimpianto.
L’estranea. Disincarnata. Troppo pallida e smagrita per essere parte di qualcosa, benché lo desiderassi, come si può desiderare l’impenetrabile, con aspettative elevate, nondimeno allo stato delle cose verosimile: molto meno, di gran lunga molto meno.
Il cielo sprofondava nella vertigine delle acque agitate, ed è questo a rendermi generosamente il compitare di una solitudine lontanissima, vedete.
Le acque, il sud. I pescatori. O contadini dalla faccia greve appena srotolati da un quadro pittorico sintattico del Pitré; o saranno può darsi i briganti al soldo del bandito Giuliano oppure autoctoni coevi, privi di connotati, alle prese con rozzi congiuntivi da piazzare in volgarissimi monosillabi, in un eccesso di alterigia normanna o borbottamenti da ereditarietà meticce. Siamo molto arabi. Recitavo strazianti oratorie all’unico interlocutore, lo start sconosciuto. Il Sud dell’airone sulla roccia, nella trazzera sul mare impervio, suggeriva profondità e confondimento. Se pioveva baluginava nero, lampi di nero, sul bianco. O era una sfarfallio, un blu marino che sprofondava nel verde crudele delle acque di una rada. La bellezza violenta strozzava la mia noia o il solito dolore sordo di opportunità, quali il riscatto della compassione altrui.
Contemplare il mulinello dell’identico tempo, lento e febbrile insieme.
Esiste l’amore come il solo riscatto.
Esiste?
© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature
Tutti i diritti riservati, trattati da Emmeeerre Letterature
You must be logged in to post a comment.