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La storia di un’ossessione – Le mie parole.

La domenica mattina guardavo giù in cortile. Le compagnette andavano alla Messa delle dieci. Erano emancipate, adulte, erano delle signorine. Calzavano scarpe da bambine e ogni profilo era delicato, i loro polpacci teneri e armoniosi, le calze di lana traforate fissate alle ginocchia. Le scarpette di vernice splendevano di abbagli colorati. Avevano capelli chiari e lunghi. Durante la settimana frequentavano l’atelier di una danzatrice francese, la chiamavano famigliarmente Silvie. Indossavano rigidi tutù bianchi, con la corona inamidata disposta su strati di tulle. Sembravano fiori tenui di campo.

I capelli chiari erano lucidi. Un che di musicale doveva aleggiarvi intorno a ricordarmi forse di una qualche innocenza che non mi riguardava completamente; il mio viso era asimmetrico, la mia infanzia si affidava maldestramente a indicibili paradigmi. Avevo conosciuto Christiane, il Bahnhof, era troppo presto, o sempre troppo tardi. Per qualcosa, per frequentare l’atelier di Silvie.

I miei capelli erano arruffati. Le mie gambe ossute. Uno stambecco alla finestra, che avrebbe voluto girare una volta sulle punte di Giselle, con la maestosità di una libellula sul palco dell’Opéra national de Paris, un grand plié alla fine.

La domenica alla messa, le bambine sedevano sulla medesima panca. Le poche volte che andavo, mi impressionava di una mestizia che non potevo indagare il canto liturgico nel momento dell’eucaristia, Symbolum in special modo. Ed io allora, capitava, le rare volte, guardavo su verso gli estremi delle navate, dove i mosaici di vetro rilanciavano le stazioni di una vita sacra, e attraversavo nello stesso momento un viatico sotto gli archi di un edificio, bianco, essenziale, al riparo di un cielo arabo e teso di azzurro. L’azzurro di un tempo smarrito nell’eternità. Può darsi vedessi un uomo passeggiarvi, radente il piccolo muro. E oltre, i dottori del Tempio, severi, osservarlo.

Mi intristiva l’irrevocabilità, non posso dire con esattezza, scaturiva dalle scritture, che seguivo con indolenza, fino a quando non incontravo la liturgia pasquale. La Crocifissione. La morte.

La chiesa sorgeva di fronte le case popolari, dove d’estate piazzavano la giostrina, la ruota che girava nell’insensata follia. C’era la povertà tutto intorno, ma la mia miseria lo era di più, cercava qualcosa, l’innocenza che mancava per chiudere una questione. Io e gli adulti, io e il male che procedeva, infilava le gesta degli uomini, io ne ero a parte, non avrei voluto. Ma avevo incontrato Christiane. Sapevo cosa significasse nel gergo una pera, le due linee di ero, il flash. La rota.

Avevo otto anni.

Le cartine. La stagnola. Il laccio. L’acqua distillata. Un cucchiaio con sopra la polvere. La fiamma di un accendino.

Li ho incontrati tutti, dopo, i miei fantasmi. Gli incubi ebbero fattezze vere, erano gli amici della piazza, non sapevo che la profezia la perfezionavo dentro le pagine di un diario, il diario di una dodicenne che si faceva di ero. Di roba. Farsi.

Farsi vuol dire bucarsi.

Li ho visti gli angeli delle profezie tradursi. Li ho raccolti, guariti a modo mio. Una presunzione sciocca abbastanza da diventare un monolite di ostinazione.

Allora era solo l’inizio di una veggenza. Una fiamma vastissima, che superava gli anni a venire.

Gli anni. Cosa sono stati. Lo scrivo ancora, anni come una giaculatoria. Anni come granuli di rosario sillabati.

Gli anni.

Le stazioni di un rosario. Sono un fiore per la Vergine.

Il pomeriggio gli amici di mio fratello giocavano a poker nella stanza dove papà conservava i suoi libri. In quella stanza conobbi l’intelligenza che arringa il pensiero inaudito, una prospettiva di devianza, il commiato definitivo dalle ipocrisie borghesi. Conobbi tutto molto presto, perché fosse sempre troppo tardi. Persino per essere una fanciulla. Gli amici di mio fratello frequentavano le discoteche di Taormina. Erano gli anni ’80. Dalla consolle andavano moltissimo i Tears for fears, i Depeche mode, i Cure.

Un paio di loro usavano la roba. L’eroina. Uno era diabetico. Sedeva all’ultimo banco, della quinta liceo. Aspettavano che crepasse, prima o poi. Un’overdose. Era diabetico. Un altro tirava su le tre linee. Il sangue schizzava ovunque, sulla collottola della maglietta sportiva.

Un altro sedeva su una panca, le gambe larghe.

Rigide.

La bocca schiusa. Un eschimo. La militanza. Certe idee.

Aveva 17 anni. E le mamme sembravano un coro di pie, battevano il petto, le pie, aveva diciassette anni. Non si può morire a 17 anni. Le solite cose che dicono le mamme quando la disperazione del mondo scapicolla giù sulle vite stordite dalla circostanza che fanno di una banalità la tragedia. Incontri un tizio, non sai che vuoi provare, ma poi lo fai, e poi ci resti. Si muore. La roba tagliata male. Ti scoppia il cuore. O il mondo si ferma, ogni ignoranza diventa giustizia, e la fretta la calma. E smetti di agitarti. Sei calmo, e il mondo è più buono. Il mondo. Genericamente, come si diceva una volta, genericamente della vita, il mondo, o non so. O quando moriva qualcuno ed era giovane. Un ragazzo.

È morto, di roba.

Aveva un fratello, si chiamava Sergio. Lo hai conosciuto. Hai conosciuto il lutto degli altri.

Io piuttosto avrei voluto fare la ballerina, suonare il piano. Ma ero già insozzata degli impicci degli altri e i miei capelli arruffati e corti o sistemati in un caschetto bruno così desueto mi costringevano al pedante discrimine, avrei voluto. Ed è già il destino. Avrei voluto, è un esergo. Basta a se stesso, il rimpianto è geograficamente di solito il luogo di un destino. Invece che ridestare le colpe universali, piegandole al dettaglio.

Il mio destino era sgrammaticato, con patronimici idioti e compagni che non amavano le parole troppo lunghe.

Le mie parole sono diventate un destino, tuttavia.

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