L’epistolario sentimentale, Senza gestire l’ignoto, scritto lo scorso anno, con Davide Brullo, scrittore e poeta, diventa oggetto della tesi di Laurea di Anna Maria Domenella, studiosa e blogger marchigiana. Di seguito, pubblico una brano dove spiego alla relatrice l’origine del progetto. La tesi di laurea è uno straordinario saggio ed è più articolata ovviamente, indagando anche altri esempi del genere letterario: Lettere a Bruna di Giuseppe Ungaretti, Gnanca na busia; il libro-lenzuolo di Clelia Marchi.
LA SCINTILLA
Motivo di scrittura. Perché ho scritto?
L’idea di un epistolario sentimentale mi girava in testa da molti anni. Aggiungo la specificità “sentimentale” non a caso. Mi interessava la determinazione di un linguaggio entro una precisa riserva, quella del sentimento e delle Lettere, che forse per loro stessa natura (era quel che pensavo) pretendevano una trasformazione linguistica (non solo, una disposizione dello spirito finanche), nobile, aristocratica, di un altro tempo, e con sottaciuti strascichi di tragicità. Ogni Lettera lo diventa, nobile, tragica. E infine sentimentale. Ancor meglio mi seduceva un progetto, interrogava innanzitutto me stessa, ma credo anche l’archetipo universale che inforca l’umanità, archetipo che restituisce la domanda: l’amore o altrimenti chi siamo in sua assenza? Dunque legare i due universi, affini, fratelli, l’autoreferenzialità eppur innocente di una lettera, lo scarto prevedibile (chi sono e chi vorrei essere), l’autorevolezza, la sontuosità del misterioso universo da cui proviene, e l’amore ingenerato (per autocombustione?), antro pericolosissimo dove gettarsi con crudeltà e fermezza, fino a perdersi, e al limite non ritrovare che una sola risposta: non siamo in sua assenza. Siamo il calco di Qualcosa piuttosto, l’ombra che ci hanno lasciato precipitare dal tergo agli intestini, perché ne sentissimo atrocemente la mancanza. Dentro l’assedio, ho immaginato uno scambio epistolare, d’amore. E questo perché la ferocia non lasciasse scampo all’autenticità, perché la stessa non vi soccombesse, e certo c’era molto da rischiare. Tuttavia non vedevo altra alternativa. Mancava solo un dettaglio: il destinatario. Non un dettaglio minimo, ovviamente. Doveva essere uno scrittore in grado di alimentare l’identica pira. Bruciarvi insieme. Affinità non da poco; l’indole all’autodistruzione momentanea e direi funzionalmente letteraria. Il destinatario lo trovai, quando proprio non ci pensavo più. Nella vita funziona di solito così, per ogni scelta, ogni giro di boa.
IL FUOCO
Contenuto. Cosa dico quando ho scritto?
Dico l’amore. L’amore, l’assenza, l’attesa. Leggevo da qualche parte: la vita è una congèrie di attese, finite quelle, resta un inghippo, un ingranaggio uggioso e vecchio, di cui doversi liberare. Nelle epistole, lei, Vera, ebrea di origini ceche, sfollata a Tel Aviv, nel post bellico, è sopravvissuta a ogni abominio, il campo, il postribolo (il cosiddetto Sonderbau, edificio speciale, dove finivano le ebree più belle per soddisfare i desideri indicibili dei boia e degli oligarca nazisti), la morte, le divaricazioni degli affetti, di una vita, cielo e terra sovvertiti, sopravvissuta dunque esangue per sempre, affetta irrevocabilmente da quella malattia del campo, definita la malattia del “niente”. Irrompe all’improvviso, la descrivono alcuni sopravvissuti, ricordo Nedo Fiano, ne parlava anche lui, Pietro Terracina, ma anche Primo Levi. Sovviene all’improvviso, nel corso di una vita, all’improvviso, mentre ridi, o lavori, o vivi, sovviene il niente. Una specie di morte protratta, una morte per sempre, come d’altronde prometterebbe la morte. Vera è il risultato di una morte protratta, perché è sopravvissuta, in un preciso affondo, di una tale tragicità, incontra Nathan, avventuriero, mercante di carte celesti, si amano subito, una notte a Praga, si perdono subito. Lei ripara a Tel Aviv, lui vaga per l’Europa, in cerca di una identità, una qualsiasi, un altro modo per sopravvivere. Ed è il prologo, o l’antefatto, dell’epistolario, che ho condiviso con lo scrittore Davide Brullo.
Eredità. Cosa lascio con questo epistolario?
Il linguaggio. La forza, le seduzioni del linguaggio, la certezza che le cose accadono perché qualcuno le ha raccontate. L’indefettibile cornice da guardare come a una reliquia, da cui attingere malinconie varie: l’amore. Ripeterlo o invocarlo, pur sapendo che spesso o talvolta risuoni in un giro di cerchi metallici, uno sopra l’altro, o uno sotto l’altro, risuoni, eco metallica, senza altro attendere e promettere. Nelle certezze mondane: insicuro e violabile. E’ l’assoluto quesito, il medesimo che rintrona, dal nostro primo vagito, nascosto nel nostro primo vagito, compagno fedele, fino all’invocazione dell’ultimo giorno. Sarà una rivelazione, la fede ci dice questo.
Cosa lascio? Lascio l’inenarrabile nostalgia, la nostalgia di aver perso quello che non ho mai avuto.
(tratto da: IL DIALOGO BLU DEGLI AMANTI
L’EVOLUZIONE DELLA SCRITTURA D’AMORE
DAGLI SCAMBI EPISTOLARI SU CARTA A QUELLI IN RETE – Tesi di Laurea Magistrale di Anna Maria Domenella – Università degli studi di Verona – luglio 2020).
You must be logged in to post a comment.