Monthly Archives: April 2018

Romanzo Amore 62

Una donna vestita di nero avanza pesantemente. Il sentiero finisce davanti a un sanatorio. Già spettrale, consumata dallo strazio. Mademoiselle ha i brividi. Legge le ultime ore di Modigliani e di Jeanne Hébuterne. La coglie la disperazione. Considera gli ultimi istanti, l’ottenebramento, non sopravviverà alla separazione. Jeanne si sarebbe arresa o avrebbe riconosciuto semplicemente l’autarchia di una sofferenza. Leggeva le pagine dedicate a Modigliani e a Jeanne. Alla fine di un lutto, Jeanne, il suo corpo devastato, giaceva sulla terra di un arrondissement parigino.

Il dolore sarebbe bastato a se stesso? Deve diventare qualcosa. O altrimenti lanciarsi da una rupe come ultima istanza. No, mademoiselle non lo avrebbe fatto, non per rigore, non per altro che per paura. Sì, paura. C’è un rigore etico nell’immolazione esecrabile, una presunta educazione estetica persino nella sofferenza indomita, ribelle. La sofferenza deve addomesticarsi, bisogna convergerla verso il gesto dell’umile accettazione. Mademoiselle doveva accettare. Era un compito. Un destino. A malincuore pronunciava la parola destino. Dentro ritrovava un mondo irreplicabile. E lei lo rivoleva. Si batteva il petto. Lo rivoleva. “Il mio mondo meraviglioso, ora, è un luogo spregevole”. Con questa mortificazione affrontava i suoi giorni.

Mademoiselle aveva una domenica da combattere, ogni volta. La domenica era l’appuntamento con le cose domestiche. C’era il centro commerciale. La spesa da fare. La coda in cassa.

Lui allegro, lui che prova un brutto dopobarba sul polso. Lui.

Asciugava gli occhi. La combattente. Andava in pellegrinaggio, la domenica, in centro commerciale. Sussurrava le sue suppliche, ricostruiva il suo mondo perduto. Educazione estetica schilleriana. I pensieri venivano interrotti da imprevedibili altri pensieri. Educazione schilleriana. Interrompeva il lutto. Non doveva fare altro in centro commerciale che vagare per corridoi e riprendersi i suoi fantasmi, ricondurli a casa. Andiamo, su. Torniamo a casa. La casa ci aspetta. Torniamo.

Asciugava gli occhi, la combattente.

Cos’era successo veramente?tomassini

Mi hanno detto che sono stata tradita. Sono stata truffata. Mi hanno derubato. Lui era l’uomo che amavo. Lui che mi ha truffato. Ora sono qui che lo racconto. Dunque sono ancora viva. Quanti anni ho? Sono vecchia per sempre. O sono Varvara Alekseevna di Povera Gente. Guardo fuori la finestrella. Pietroburgo è grigia, freddissima. Il crepuscolo si assottiglia in lastre di avorio. Il biancore gelido dilata il profilo delle cose o le confonde nei confini di altre. Non sono mai stata in un risciò. 

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini.

 

 

 

Romanzo Amore 61

Mademoiselle si commuoveva sfogliando le pagine di Dostoevskij. Gli amati russi. Le notti bianche. E quelle evocazioni dapprincipio: “Amabilissimo Makar Alekseevic”. L’antico epistolario, pregno di attesa, di nostalgia. Premure e sollecitudini. La malattia, la convalescenza, i sospiri, sentimenti trapassati. E perciò si commuoveva. Non riusciva a leggerli per intero oramai. I libri, gli amati russi, erano stati indizi di quel che sarebbe sopraggiunto.

Varin’ka, scriveva lui. Creatura fragilissima, dignitosa, meritevole d’amore. L’amore la trovava. Mademoiselle sedeva sul letto e pensava a quante volte l’avessero amata. Chiamata: anima mia cara. No no. Non l’avevano mai amata. Solito cruccio. Non poteva lamentarsene, non doveva, il suo non era lo stesso nobile sentimento antico di Varin’ka. Era un piagnisteo, era commiserazione.

“Io poi, io vivo bene” scriveva Makar.  Mademoiselle doveva cancellare la coltre dei pensieri, riducendoli a schiuma bianca, simile a risacca. Coltre dei pensieri, lo aveva letto mille volte, chissà quante e in quali romanzi, ma non ricordava. Dove hai letto “coltre di pensieri”? Si domandava. Ma ovunque, mademoiselle. Le immagini letterarie non la abbandonavano, certe in special modo. Certe immagini come quella incontrata nelle pagine di Curzio Malaparte. L’immagine del mare che arrancava, ansante, a riva, come una bestia in agonia. Respirava con flutti interrotti, sofferti.

Il bambino bussava alla porta. Mamma?

Sì? Rispondeva schiarendosi la voce. “Apri, per favore”. Lei apriva la porta. Il bambino la guardava interrogandola con i suoi grandi occhi verdi. Mademoiselle non sapeva reggere gli occhi del suo bambino, perché non aveva alcuna ragione. Dolersi sempre era un male, una perfidia. Un terrore indirizzato agli altri. Doveva svegliarsi. Prima doveva capire però. Cos’era successo veramente?

Prese il bambino sulle braccia, un bacino sulla guancia, lo ripose a terra. Sedettero insieme davanti al secretaire. Mademoiselle aveva appena finito una pagina del nuovo romanzo.

Sono una di quelle che ha sempre pensato di essere già troppo vecchia per qualcosa. Oppure troppo avanti o troppo indietro, mai nel posto giusto, nel minuto giusto. Da adolescente ero abbastanza irrequieta. Volevo fare qualcosa di più e di diverso, frequentavo gente parecchio più grande di me, feste esclusive.

 

Non avevo motivazioni, le avevo seppellite con vergogna – senza più ricordarmi dove – perché a mio avviso erano fuori contesto. Leggere come leggevo da sempre era un condizionamento estraneo, guardato persino con sospetto. Usavo parole troppo lunghe diceva un idiota, analfabeta nell’anima, non so come dire. Era un tossico, privo dell’atmosfera magica e impegnata dei tossici di Carlo Grimaldi. Consentitemi l’accostamento ardito con i due aggettivi. Viveva a Mazzarruna, ma era un idiota. Io potevo frequentare i ragazzi ricchi, che mi annoiavano a morte, frequentare le loro belle case, abituandomi subito al lusso come se non avessi mai visto altro; e frequentare i tossici di Mazzarruna, dove ero diversamente stronza, snob al contrario, avida di spiare di capire di confondermi, rubando la capacità di esercizio alla vita misera di quei ragazzi.  Nessuno mi aveva avvertito di quanto fosse crudele l’adolescenza, nessuno mi avrebbe avvertito che i deserti sarebbero passati, che era solo questione di tempo. Qualcuno poteva aiutarmi? Sbrigativamente ci si aiutava da soli. Sono finita da una psichiatra da adulta. Vorrei che per mio figlio fosse diverso, che radunasse ricordi buoni, per la dispensa della maturità, quando serviranno. Mi sono salvata. Ma intorno a me il mio paesaggio – dalle feste esclusive ai cardi di Mazzarruna – non aveva orizzonte. Il tedio aveva il medesimo suono mortale di Sense of  doubt di David Bowie. I ragazzi erano i compagni della valle, erano ectoplasmi, figure esanime, vomitavano bava, avevano le piste sulle braccia e un pallore giallognolo e malsano a cancellarne ogni sussulto. Il sussulto alla vita era l’amore? L’amore era per pochi, durava niente. Io non credo di essere stata amata comunque, neanche allora. Trepidavo perché accadesse, questo mi ha fregato.

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini.

La risposta di Silvia

Cara Veronica,

mi tiri fuori dal mio comodo rifugio per venirti a rispondere. Ti avevo chiesto del genio femminile aspettando che a scriverne fossi solo tu, così che io, come sempre, potessi limitarmi a leggerti.

Ieri ti dicevo che nei tuoi libri trovavo dei passaggi famigliari. Non succede con tutti i libri. Le vicende, i fatti che racconti, ti dicevo, sono avvenimenti che nella mia vita non sono mai entrati, ho una storia completamente diversa da quelle che narri, eppure nei tuoi libri ho riconosciuto qualcosa di famigliare.

Nel riconoscimento c’è già una traccia. È una costante che si coglie a fiuto, la trovo in quelle poche scritture che riescono a toccarmi, o meglio a comprendermi. Ecco, forse quella costante è una misura: solo il più grande riesce a comprendere il più piccolo, e a fare da specchio a chiunque. Nelle scritture che comprendono anche me e mi rivelano qualcosa che in me non avevo ancora visto, riconosco una grandezza.

Adesso viene il bello, perché questa grandezza è tutt’altro che grande. La grandezza che tutto comprende è come quel granello di senape.

Il sanscrito, che è una lingua sensibile, capace di nominare l’essenziale, l’universale e, soprattutto, lo sfuggente, dice “dahara” per dire bambino, e chiama “dahra” una minuscola cavità del cuore dove è custodito lo spirito. Entrambe le parole significano “piccolo”, ed entrambe significano “cuore”.rose

In questo strano mondo ci è stata insegnata o spesso anche imposta la vergogna del cuore.

Mi rendo conto che ho più pudore a pronunciare in pubblico la parola “amore” che un vaffanculo.

Vedo che chi non teme di aprire il proprio cuore o di amare (ma che non sia un amore sentimentale, da romanzo rosa), chi, come scrivi anche tu, non teme il pregiudizio, è costretto a schermarsi oppure a farsi sbranare. In particolare le donne sono prese per pazze, lunatiche, malgrado ogni talento.

Io ne ho conosciute almeno un paio, di ragazze, che per un’intelligenza acutissima che era il frutto di un cuore libero, pagavano lo scotto di mutevolezze d’umore, crolli vari. Di loro si notava soltanto questo, “poverine”, dicevano i conoscenti. Sono certa che ai loro fratelli sarebbero stati riconosciuti anche i pregi, le stranezze passando in secondo piano, come effetti collaterali dell’eccellere in altro. E ne sono certa perché ho visto.

Perciò ti chiedevo tu cosa ne pensi?

Immagino non ci sia una risposta, ma solo un dato osservabile: Nietzsche è prima di tutto Nietzsche, e poi un pazzo che abbraccia i cavalli. A un uomo si diagnostica più facilmente la genialità, gli effetti collaterali sono secondari. Mentre per le artiste morte in fondo a un fiume, o con la testa infilata dentro un forno, o magari, e molto più spesso, per quelle rimaste solo delle anonime, povere criste, a definirle è spesso soltanto l’effetto collaterale. Su questo sarebbe bello aprire una finestra e cambiare aria. 

 

Ti abbraccio, grazie per le rose del tuo giardino.

Lettera a Silvia

Siracusa 26 aprile 2018 

giovedì ore 10.43

Cara Silvia,

ti scrivo questa prima lettera con la speranza di ottenerne risposta. Ti scrivo dal mio giardino pieno di luce. Non sono sicura di riuscire a spiegarti cosa sia un genio femminile, se lo abbia mai incontrato e riconosciuto. Se per assolvermi casomai potessi prometterti falsamente: lo sono, perché ho coltivato il vuoto attorno a me, per la mia eccelsa miseria. E invece non saprei.

Pensiamo alle donne che abbiamo amato, le antesignane della parola che salva, ognuna avrà tentato di addomesticarla. Virginia Woolf. Silvia Plath. Emily Dickinson della quale vorrei imitare l’innocenza e la sobrietà. Nella mia ignoranza, sono come una pastorella, poco istruita, istruita male, compromessa da letture precoci disordinate e scandalose. La propensione allo scandalo è il mio vizio. Inconsapevole. Un esercizio di resistenza in una pruderie diffusa. Aprire Il Delta di Venere a pochi anni. Sai, non mi scandalizzò più altro, né Lawrence, né Henry Miller. Bukowski, oh Bukowski era un pallido provocatore al confronto di quanto la vita mi misurò in tal senso.  Berciante ladruncolo al confronto di quanto ad esempio lessi persino nel romanzo protofemminista della Rochefort, Il riposo del guerriero. Perché il femminismo non diventi una fustigazione. Amare come Genevieve amò Renaud  ha il sapore di una rivoluzione, la loro diseducazione amorosa intendo. La donna che non teme il pregiudizio è una dissidente. Ho imparato a infrangere tutte le regole anche io. Nella mia castigatezza.

Una forma di miseria nobilitata dal fattore ics, che si chiama scrittura. Il genio. Cos’è? Mi hai chiesto ieri.

Sto riflettendo sulla mia solitudine, può bastare? Attraverso cui leggere la disdetta di altre. Ma prima vorrei aggiungere su Bukowski: non era niente la sua volgarità da pensatore con la cinta slacciata, l’America puritana ha avuto Bellow, il russo di Odessa nelle origini, Herzog, con l’atroce disincanto con cui racconta la crudeltà della classe media, la povertà, un neonato sbattuto contro una parete, paralizzando ognuno alle proprie vane convinzioni, inchiodando il genere umano ad un terrore senza assoluzione.

Sono uomini. Tu mi chiedi: cos’è il genio femminile? Finisce al Mc Lean Hospital, come Susanna Kaysen. Con pietroline nella tasca come Virginia Woolf. A dormire per sempre come la Plath. A saltare da un faouborg all’altro come la poetessa Renée Vivien, con le sue viole intrecciate tra i capelli, l’oscurità e la desolazione che la nutrì di ribellioni fino alla morte, a 32 anni. Morì a Parigi,  il 18 novembre 1909 nella sua abitazione di avenue Du Bois de Boulogne. La sua storia viene raccontata nel romanzo del mio amico Luigi La Rosa, “Quel nome è amore”. Storie di amori tormentati e parigini perlopiù, come piacciono a me.

Io non sono stata molto amata. Così ho potuto scrivere. Ho scritto perché non sono stata amata, come avrei voluto. Da un uomo. Un marito un fidanzato. Cosa conta la bellezza? Ma poi chi lo è stata mai?

Vorrei dirti della mia solitudine. Irragionevole. In essa trovo le mie folgorazioni. Anch’essa è una qualche specie di genialità o vocazione. Le parole a volte affiorano da luoghi inauditi. Dov’erano? Dove riposavano? A volte le parole affiorano e non ne conoscevo l’esistenza. E sono estranee che mi tendono la mano, vogliono spiegarmi, tranquillizzarmi, è stato già scritto, già detto, la nostra esistenza nel libro dell’Eternità. La nostra debolezza custodita nel Mistero della perennità come la perla in grado di trasformare. Guariamo nella debolezza. Salviamo nella debolezza. Anche se la chiamiamo miseria. Moriamo a noi stessi, quando moriamo a noi stessi, stringiamo al seno pietosamente l’empietà del mondo. Ho ancora altro da dirti.

Aspetta la mia, domani.

p.s. Ti dedico queste rose, sono del mio giardino, vivono, poche e forse trascurate, ma è il meglio che ho da offrirti.rose

 

 

I libri che raccontava Stas’ Gawronski

Avrei voluto pubblicare – quando ancora non era successo che in forme minori – anche solo per immaginare di essere raccontata da Stas’ Gawronski, così come in Cult Book, con i grandi autori contemporanei. Quella magnificenza mi faceva venire i brividi. Ricordate Cult Book? Ogni mattina, su Rai Tre (in un secondo momento fu trasferito a Rai Cinque), non volevo perderne una puntata, sbrigavo le mie faccende domestiche e nel frattempo ascoltavo Stas’ e le meta-narrazioni di libri che mi sembravano inarrivabili. Non avrei trovato un’ovvietà nella costruzione filmica e musicale e nello storytelling utilizzato (termine passato alla storia così renzianamente, ma con Gawronski aveva una maestosa legittimità). La letteratura con Gawronski diventava il ponte lanciato verso il mondo, interrogando la curiosità di ognuno di noi, ma non avrebbe mai perso in aristocraticità. Il talento è aristocratico. La scrittura che diventa letteratura ha dei parametri esigenti, non c’è un filo d’oro a recingerla se non per separarla dalla medietà. Quanto mi è mancato Cult Book.

stas gawronski

Stas’ Gawronski durante una puntata di Cult Book

Ricordo quegli anni di speranze come i più belli nell’insieme, per me, per quello che erano la mia vita e le ambizioni che mi circondavano ancora vergini. Avrei scritto per incontrare intellettuali come Gawronski, ma anche come Michele Mari e Loredana Lipperini, che ascoltavo ogni pomeriggio in Radio, su Radio Tre Rai. La Lipperini che come Gawronski ha inventato un modo di raccontare i libri, personale e contagioso. E non ci sarà qualcos’altro in grado di sostituirli, se non ingenerando una assoluta mancanza. Tutto questo per me ha rappresentato la scrittura che ho attraversato seguendo la voce buona calma profonda di questi pensatori ed entrambi – Gawronski e la Lipperini – ho avuto la fortuna di conoscere qui. Allora ricordo quegli anni, mi commuovo, perché di quella vita ho perso tutto, ma c’erano loro che non conoscevo, e oggi li ritrovo vicini ancor di più in un modo o nell’altro.

Loredana

Loredana Lipperini, scrittrice

So che Stas’ Gawronski torna su Rai Cinque, ogni lunedì, alle 21.15. Loredana Lipperini (che è una scrittrice) la possiamo ascoltare ogni pomeriggio a Fahrenheit sempre su Radio Tre Rai.  Se molti di noi hanno ancora voglia di provarci, di esporsi e farsi anche male è grazie a intellettuali di un tale valore.

Romanzo Amore 60

Sedeva sul letto. Il bambino cresceva. La vita andava. La vita di prima le era stata strappata. Fu proprio una lacerazione, repentina; il brano di un tessuto estorto dalla  nobile trama. Perché?

Sedeva sul letto guardando un documentario su Rembrandt, ripeteva in mente le parole che udiva pronunciare dalla voce fuori campo: vigore marziale; immaginario glorificato. Le avrebbe riutilizzate. La vocazione a essere il corifeo di una sventura in fondo non era male, ne avrebbe scritto fino a non poterne più, fino a perdere il senso di una esistenza, qual era il senso? Oltre il davanzale della sua camera da letto ogni tanto le tornava la vocina del figlio, giocava in giardino, circondato dalle bianche calle. La sua commovente innocenza. Forse un giorno sarebbero tornati a casa. Aveva appena appena comprato un divano, un mese prima della disfatta – e le venne in mente la Sagan – era un divano azzurro. Le piaceva l’azzurro, i colori nella sua semplice casa erano tenuità, le tende blu o bianche ricamate. Era tutto molto povero e amato. Povertà e amore.

Guardava in tv la vita di Rembrandt, con la voce fuori campo. In certe giornate con la luce netta, i colori palpitanti, le veniva il desiderio di vivere di nuovo. Vivere. Uscire di casa, il bambino, la vita. Era come se un velario la avvolgesse, la stritolasse. Era pesante vivere, dov’era la leggerezza, cos’era? Nessun accidente ebbe la vigoria di farsi ricordare. Tutto era cenere, non c’era un prima e un dopo, emergeva trionfante la cima della disfatta. Un giorno a raccoglierli tutti, a renderli vani tutti. cropped-vvvvvv.jpg

Oggi la gente fluiva a man dritta verso il mare. In auto ascolto una bella voce raccontare il viaggio di Goethe e questa voce recitava a un certo punto ” a man diritta”, o ” di buon mattino”. Qualcosa di antico e rasserenante pronunciava questa bella voce. Ho camminato moltissimo. Qualche volta siedo sulle scale del Duomo, o al Tempio, parlo con chi capita, difendo la mia introversione. Eppure sorrido, sembrerebbe il contrario a vedermi. In auto ascolto una strana musica tedesca, fa da base alla bella voce che riferisce del viaggio di Goethe. Spesso cammino al buio e invece c’è il sole.

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini.

Romanzo Amore 59 (come una ragazza interrotta)

Al tempio, l’amico ebreo le consegnò un pacco, annodato con un nastro viola. Lo ricevette con indolenza, con l’amico ebreo poteva permettersi l’insolenza e sarebbe stata perdonata. Quando tornò a casa lo aprì e vide la copertina chiara, una farfalla sul davanzale. Lesse “La ragazza interrotta” di Susanna Kaysen. Sedette sul letto.  Rifletteva sul fatto che come Susanna Kaysen, un giorno, per una visita sommaria e distratta, avrebbe potuto trovarsi in una condizione simile, chiusa, interdetta, con una diagnosi irreversibile. Conosceva quel romanzo, vita vissuta. A lei piaceva l’idea che a scrivere ci si dovesse sporcare le mani, altrimenti perché dovrebbero leggerci, deduceva. Senza immolarsi a qualcosa, a qualcuno, il genio si ritrae, lo slancio e la generosità che si avvicenda con la fustigazione, il dolore. E’ così, si sa. Ricordava in special modo un brano di quel romanzo, lo avrebbe cercato, riletto, ma questo l’amico ebreo non poteva sapere, cioè che lei conosceva già il romanzo di Susanna Kaysen, la sua vita vissuta. Il brano del romanzo riferiva di un uomo, le spalle alla finestra. E’ il Mc Lean Hospital. L’uomo – scrive la Kaysen – ha spalle accademiche. I capelli dardeggiano sul suo capo. Dardeggiano, ripeté. Aspetta la ragazza interrotta. L’uomo è un amico. L’uomo un giorno avrebbe scoperto il segreto della vita. E a quel punto, mademoiselle avrebbe letto e riletto la frase: avrebbe scoperto il segreto della vita. Qual era? Si domandava. Quale sarebbe stato il disvelamento? Finalmente avrebbe capito, il segreto della vita, e avrebbe sofferto meno. L’uomo era James Watson. Era il biochimico premio Nobel. Il segreto della vita era un dato scientifico. La struttura a doppia elica del dna.  Non scaturiva da complessi e invertiti ragionamenti di oratoria, ma da raffinate figure matematiche, ordinate, imperturbabili. L’ordine era il segreto della vita, alla fine di un sentiero complesso (quello sì) di formule e orchestrazioni rigide e valide per sottrazioni o magmatiche deduzioni, non replicabili, non sovvertibili. E lei perdeva la ragione. Ma il segreto della vita era: sì sì, no no. Tutto il resto era menzogna. L’amico ebreo voleva proteggerla. Per questo era irritante l’amico ebreo. Era solo amore. Ma a lei interessava l’amore di qualcun’altro.

Al tempio stava con le sue vecchie. Poi sarebbero morte, una per una.  Teneva la piccola mano premuta sul ventre. La consolava. Stringeva il tessuto con la sua piccola mano. Sedeva sulla panca. L’ebreo era andato via. Lo aveva rassicurato: leggerò Susanna Kaysen. Grazie, aveva quindi aggiunto.

Al tempio restava fino al tramonto, se era estate o primavera. E i giorni erano uguali, un succedersi severo di albe e tramonti.cropped-tomassini1.jpg

Ero al tempio, popolato dalla solita gente, dal clamore grossolano, da bancarelle dedite al cattivo gusto, loro malgrado, ambulanti di orribili arredi finto stile impero. Un orrore diffuso in cui in fondo mi trovo perfettamente a mio agio. Su una panca siede K. polacco di Ostrowiec. E’ ubriaco. Era un amico dell’uomo della vita di prima. Non si vedono da anni credo. Quando K. mi incontra ed è ubriaco, K. piange. Perché è ubriaco. Forse soltanto perché è ubriaco e l’alcol lo induce alla commozione. 

 K. ha un taglio vistoso sotto al mento, mi spiega che è stato uno sloveno, immagino anche chi sia, con un collo di bottiglia. E posso immaginare la circostanza, il caos, l’orrore.

Bevo il mio caffè adesso. Penso: sono stata liberata dagli empi. Poteva andarmi peggio. K. Si gira e alza la maglia sui fianchi, sui reni, è pesto, nero, violaceo. Mi abbraccia, piange sulla spalla, lacrime sudicie, pietose. Ha bisogno di una donna, posso andargli bene persino io. Ma sei come un fratello, gli dico. Lo sai. Ci conosciamo da sempre, così mi sembra.  Lui ricorda tutto molto bene. Sono passati anni, oh mamma. Ero giovane. E l’uomo della vita di prima gli chiese allora: dove la porto? Cosa vuole da me? Volevo solo un caffè, forse solo un po’ d’amore. Ero pazza. 

K. ricorda tutto. E piange, ubriaco.

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini.

Sud

Stamattina mi sveglio con la solita Bortone in Tv. Il suo salotto di opinionisti che conversa amabilmente del fallimento di un paese, di governo, esploratori, di strategie, solita Bortone, solite cose, mi si stringono le budella per la frustrazione. Nel parterre c’è una scrittrice, la solita Serena Bortone, che sta al paese reale come i Pokemon al genere umano, le chiede genericamente un parere (interessa a qualcuno?), la scrittrice risponde: sto girando l’Italia, da un mese, per presentare il mio libro, alla gente premono altre cose. La solita Bortone passa oltre, non dice “ah”, niente. Ricomincia con gli altri a riparlare di nulla, di nulla che conti per noi. Di questa vuotezza mi sto avvelenando. In questi giorni in special modo, di impotenza personale. Traduco la tragicità dei neet del pianeta. Ho bisogno di lavorare, la necessità mi serra il respiro. Chiedo in giro, a conoscenti che in passato mi hanno dimostrato una certa stima, ne approfitto per umiliarmi e chiedere. Come sempre in questa città non rimedio niente, solo l’isolamento, una gentilezza di facciata, la disperazione.

Finire a vivere qui è stato un castigo. In borsa tengo il mio curriculum, a volte sorrido con amarezza, mentre cammino lungo il corso e mi guardo intorno in cerca di un’idea. Intorno ci sono agenzie di scommesse, negozi vuoti, miseri outlet. Africani ovunque a elemosinare, indigeni centenari. Però dovrei dare un colpo di reni, non arrendermi, omelie pedagogiche da cui prendo le distanze, per non impazzire. Mi dico: stai calma. Non puoi fare molto. Quando la ruota gira male spariscono tutti. I tuoi estimatori lo sono sempre meno, prudentemente. Io non so cosa fare.

La città è in mano a poche persone. Non c’è spazio per altro, per le idee, per il talento, ma questo si sa. Arrestano politici collusi, nel frattempo. Nessuno sussulta. E allora? Siamo al Sud. Tornano vecchie facce con una mise da repulisti. La città è un tripudio di inanità. Deambuli o ti lanci dalla rupe dei monumenti dove vado a correre e a volte penso quanti lo abbiano fatto davvero, proprio da lì. Guardo giù verso l’insenatura, il mare che esplode in gorghi schiumosi, sbattendo contro le rocce. Fiori selvatici scendono dai fianchi del declivio. Quanta gente – penso – da qui ha osato…

Cosa me ne faccio del mio cervello? A chi serve? Se non a guadagnarsi ruffianerie di circostanza. Questo è il paese, questo è il polso di un paese. Prendete me come campione moltiplicatelo all’infinito, il risultato è la somma di tutti i neet. Dovrebbero distribuire medaglie al valore agli uomini in fila nelle mense dei poveri, a quelli consapevoli della meschinità in cui hanno trovato riparo. elide

Non è un commiserarsi ab aeterno. Faccio testimonianza, perché è nel mio mestiere. Allora lo dico, lo scrivo. Mi sento offesa – a nome di tutti i neet – da programmi come Agorà, da conduttrici distratte, da argomenti pretenziosi che distolgono criminosamente da un malessere vero, pericoloso. La schiuma del mare al fondo del declivio monta, si ingrossa similmente a una metafora che ci riguardi.

Prima di mandare in onda il  salotto-canapé politico del mattino dovrebbero passare un cartello sovrimpressione con su scritto: programma e immagini offensive, si consiglia la visione ai sacchi vuoti, alle mani da signorina, ai detentori di tonnellate di pelo sullo stomaco.

Su Liberi di Scrivere

di Giulietta Iannone

 L’altro addio di Veronica Tomassini (Marsilio 2017)

Dopo la caduta del Muro di Berlino, parlo per intenderci del periodo che va dalla fine degli anni Ottanta del Novecento all’inizio degli anni Novanta, molti ragazzi e ragazze dell’Est lasciarono gli ex paesi della Cortina di Ferro (Germania Est, Cecoslovacchia, Albania, Polonia, Ungheria, Romania etc…) in cerca di fortuna nel nostro edonistico e consumistico Ovest.BannerTomassini
Anche l’Italia fu terra di approdo di questi flussi migratori e se molti trovarono una nuova sistemazione legale e favorevole, impiegandosi come badanti, infermieri, taxisti, tecnici informatici, o aprendo piccole attività dal negozietto alimentare sottocasa, a ditte di import export magari verso i propri paesi d’origine, altri finirono nella zona d’ombra della criminalità, dell’accattonaggio o della prostituzione.
Questa marginalità trova dignità letteraria nei libri della siciliana Veronica Tomassini, come in quest’ ultimo L’altro addio, edito da Marsilio.
Della Tomassini ricordiamo già Sangue di cane, caso letterario del 2010, edito da Laurana Edizioni, in cui per la prima volta il personaggio del polacco Slawek prendeva vita nelle pagine di un libro in bilico tra autofiction, e ritratto sociale, che per potenza e asprezza ricorda uno Zolà, dove le storie degli ultimi assumono valenze epiche e universali, non tralasciando i lati più sordidi e dolorosi di una umanità reietta ma sempre umanissima e vera.
Sebbene forse più che al naturalismo francese, forti sono gli echi verso il verismo tutto nostro di scuola siciliana di un Capuana per esempio, per sensibilità e sincerità di intenti, e per il suo assillo continuo verso la malattia e la morte.
Tuttavia la Tomassini si scosta da queste scuole strutturate e teorizzate, per spontaneità e per l’uso prevalente del flusso di coscienza, strumento che nello stesso tempo è la parte più affascinante e il principale limite della sua scrittura.
Limite perché non è facilmente comprensibile da un lettore distratto, privo degli strumenti idonei per capire la complessità della sensibilità dell’autrice, che si espone quasi senza filtri, superando anche alcuni limiti di opportunità per il suo tendere verso l’aderenza al vero (se non fattuale e oggettivo, sicuramente psicologico e morale).
Insomma non è un libro facile, può scoraggiare, se non respingere, ma se si superano questi ostacoli concettuali, allora si può apprezzare con più consapevolezza il coraggio, la fede (sì, anche nella letteratura oltre che nella umanità o in Dio), l’autenticità di questa autrice che ignora mode, atteggiamenti arroganti o scuole di pensiero.
Il suo tipo di scrittura è molto personale, quasi sovversivo: alterna periodi involuti, ad altri molto piani e immediati, proprio seguendo le onde del pensiero.
Il dolore, l’amore, la malattia, la marginalità si aggiungono all’ universale difficoltà del vivere, del comprendere gli altri, del perdonare. Tanto che l’amore tra la ragazza siciliana e il “migrante” (uso con consapevolezza questa parola che ormai quasi per tutti ha un’ accezione unicamente negativa) polacco, acquista in breve tutte le valenze e le sfumature di uno scontro incontro tra due opposti difficilmente conciliabili. Fino al punto che al lettore, terminata la lettura, non restano che due certezze: il loro è un amore senza futuro, e nello stesso tempo destinato a non estinguersi mai. Doloroso e scorticante.

L’originale qui: https://liberidiscrivere.com/2018/04/15/laltro-addio-di-veronica-tomassini-marsilio-2017/

Romanzo Amore 58

La domenica mattina era un giorno come un altro. La domenica era il giorno delle famiglie anche. Era aprile. Oh quale dolcezza sprigionava tutto intorno, le finestre aperte, il glicine sul davanzale. Talvolta poggiava la mano sul mento e stava un tempo infinito a guardare oltre il davanzale, oltre la terrazza di fronte, il salice,  i cespi di oleandro. Vibrava come se fosse in attesa, come se davvero qualcuno dovesse arrivare, o fosse ancora l’oggetto di un desiderio, di un amore. Invece era assolutamente sola. Badava alla sua piccola vita, accudiva il bambino, chiudeva la porta della sua camera da letto dopodiché. Sedeva al secretaire. Girava le pagine di un libro qualsiasi. Leggeva alcuni appunti su un saggio di Guy Debord. Era aprile.

Ridevamo un tempo. Pensava mademoiselle. Tendeva alla commiserazione similmente a una forma di consolazione. Efficace nel giusto dosaggio, fintanto non si fosse trasformata in rancore, avvitato su se stesso non produceva altro che se stesso.  In centro commerciale notava la pacifica routine di mani braccia gambe, avventori tediati o appesantiti dalla normalità, dalla noia che causa la normalità, al riparo da ogni tempesta.

La normalità. Se fosse stata ancora la moglie nella vita di prima, avrebbe indossato un paio di pantaloni comodi, le scarpe sportive, un maglione morbido e leggero adatto alla stagione, avrebbe annodato i capelli, usato un rossetto acceso. Avrebbe sorriso. Avrebbe avuto molte cose da fare, camminato con vigore, osservato con sincero interesse una vetrina di articoli per la casa. O accarezzato la stoffa di una tenda, la praticità di una pentola, un vasetto di terracotta dove innestare nuovi germogli. Girava per i corridoi di un centro commerciale in un giorno d’aprile. Era domenica. Il solito peso sul cuore. L’intollerabile oppressione. E capì d’un tratto – quasi spaventata dalla crudeltà della rivelazione – che quel peso aveva un nome e un volto e avrebbe voluto liberarsene, non reggendone più la mestizia che le procurava. La causa della tristezza era quel volto quel nome, voleva eliminarlo, seppellirlo. Capì più che altro che il peso intollerabile non era la condizione diffusa di un essere vivente, la condizione morale, che la vita non era quel peso intollerabile, tanto da invidiare la superficialità degli altri, come se ridere o sorridere o conversare di futilità fosse un vizio, una colpa. La sua vita piuttosto era una inondazione perpetua, era l’ingenerarsi del senso di catastrofe, era irrevocabile l’inquietudine che a intervalli la coglieva. Ogni azione, ogni accadimento, rimandava al senso di una catastrofe ed era diventato un automatismo, vivere e provare lo smarrimento e la paura per un terrore vicino prossimo. Terrore che magari non si sarebbe mai tradotto in altro che in terrore.verito

Sono stata una donna fragile. La fragilità è una connotazione che non mi piace, induce al pietismo. E io sono una che si commisera. Per mia fortuna scrivo. 

Tornata a casa, sedette davanti al suo scrittoio. E finì una pagina, la pagina del nuovo romanzo.

“Nie ma, kurwa” urlava qualcuno. Erano connazionali di quell’uomo della vita di prima, li aveva trovati davanti a un supermercato. Trovati, scovati. Litigavano per cose misere, pochi spiccioli, un cartone di vino, una ciotola di rognosi centesimi lasciati da qualche cliente distratto, irretito dal cattivo odore. Erano botte da orbi. Uomini impossibili. L’uomo di prima doveva difendere sempre un’idea, una kurwa, una donna di strada, e finire coi coltelli o con le mani e poi in questura o peggio in guardiola al pronto soccorso. Quando lo vidi – era maggio, un giorno di maggio –  mi prese un colpo, aveva il volto pesto, il naso rotto, era spaventoso. “Torno a parco  e lo mazzo”, tagli sua testa. Sibilava su una barella. Lo aveva pestato un tizio di Strachowice. Alzava il pugno contro un poveraccio, un austriaco vestito di cenci che dimorava nelle grotte. I connazionali davanti al supermercato blateravano, quindi rotolavano – ridendo – contro qualcosa, i denti sporchi di sangue o vino. E la gente passava di fretta, temendo un contagio di non so che tipo, la  loro brutalità. Un anziano berciò con astio tutta la sua paura: pusillanimi, via, tornate a casa vostra. Allora all’uomo della vita di prima prese l’inutile orgoglio, e da giù, dalla sua fossa, gli intimò di chiudere il becco: vecchio, tu conosci a polacchi? Strisciava con le mani luride davanti alle porte del supermercato e cantava Mury, che per lui era Solidarnosc. 

Questo scriveva, mademoiselle. Le tende rosse inondavano la stanza di una speciale luce color dell’ambra.

(continua)

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