Una donna vestita di nero avanza pesantemente. Il sentiero finisce davanti a un sanatorio. Già spettrale, consumata dallo strazio. Mademoiselle ha i brividi. Legge le ultime ore di Modigliani e di Jeanne Hébuterne. La coglie la disperazione. Considera gli ultimi istanti, l’ottenebramento, non sopravviverà alla separazione. Jeanne si sarebbe arresa o avrebbe riconosciuto semplicemente l’autarchia di una sofferenza. Leggeva le pagine dedicate a Modigliani e a Jeanne. Alla fine di un lutto, Jeanne, il suo corpo devastato, giaceva sulla terra di un arrondissement parigino.
Il dolore sarebbe bastato a se stesso? Deve diventare qualcosa. O altrimenti lanciarsi da una rupe come ultima istanza. No, mademoiselle non lo avrebbe fatto, non per rigore, non per altro che per paura. Sì, paura. C’è un rigore etico nell’immolazione esecrabile, una presunta educazione estetica persino nella sofferenza indomita, ribelle. La sofferenza deve addomesticarsi, bisogna convergerla verso il gesto dell’umile accettazione. Mademoiselle doveva accettare. Era un compito. Un destino. A malincuore pronunciava la parola destino. Dentro ritrovava un mondo irreplicabile. E lei lo rivoleva. Si batteva il petto. Lo rivoleva. “Il mio mondo meraviglioso, ora, è un luogo spregevole”. Con questa mortificazione affrontava i suoi giorni.
Mademoiselle aveva una domenica da combattere, ogni volta. La domenica era l’appuntamento con le cose domestiche. C’era il centro commerciale. La spesa da fare. La coda in cassa.
Lui allegro, lui che prova un brutto dopobarba sul polso. Lui.
Asciugava gli occhi. La combattente. Andava in pellegrinaggio, la domenica, in centro commerciale. Sussurrava le sue suppliche, ricostruiva il suo mondo perduto. Educazione estetica schilleriana. I pensieri venivano interrotti da imprevedibili altri pensieri. Educazione schilleriana. Interrompeva il lutto. Non doveva fare altro in centro commerciale che vagare per corridoi e riprendersi i suoi fantasmi, ricondurli a casa. Andiamo, su. Torniamo a casa. La casa ci aspetta. Torniamo.
Asciugava gli occhi, la combattente.
Cos’era successo veramente?
Mi hanno detto che sono stata tradita. Sono stata truffata. Mi hanno derubato. Lui era l’uomo che amavo. Lui che mi ha truffato. Ora sono qui che lo racconto. Dunque sono ancora viva. Quanti anni ho? Sono vecchia per sempre. O sono Varvara Alekseevna di Povera Gente. Guardo fuori la finestrella. Pietroburgo è grigia, freddissima. Il crepuscolo si assottiglia in lastre di avorio. Il biancore gelido dilata il profilo delle cose o le confonde nei confini di altre. Non sono mai stata in un risciò.
(continua)
Copyright © Veronica Tomassini.
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