Monthly Archives: March 2019

L’epistolario – L’eternità

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Tel Aviv, settembre 1950

Irina venderà l’uniforme del marito morto. Come fai? Le ho chiesto e sono disturbata da una ostinazione temeraria e impudica che mi parve le colorasse le guance. È un pomeriggio di settembre, abbagliante, c’è un vento furioso, oltre la finestra, lo vedo agire, indefesso, scuotendo il ficus in cortile. C’è un gran caldo. Ma ho chiuso tutto, così che questa polvere ostile rimanga fuori. Figlia della disgrazia, dicono dalle sue parti. Irina ha origini cosacche. Il’ja era nato nel villaggio di Michailovskaja, sul Don, a qualche chilometro da Volgograd. Irina mi volta le spalle. Le ripeto, sillabando: sei la figlia della disgrazia. Irina si gira di scatto: la venderò. Il’ja è morto. Urla. E la sua voce è lacerante, fastidiosa e tragica come il pianto delle prime notti d’inverno quando vegliavamo tutte qualcosa di onesto, speranzoso e buono.

Ora, Nathan, non è rimasto niente delle nostre veglie. Accendiamo le candele il venerdì, il nostro spirito è distratto, non contrito. Non so cosa tu possa ricordare ancora di me. Quel che ricorderai, abbi fede in ciò che ti dico, è soltanto inesattezza. Una sola notte non basta a perdonare le assenze infinite, estenuanti assedi di simulacri (lo sono sì, nella loro eresia), mi irrita moltissimo vivere lo spazio vuoto, dove sorprendermi a desiderare qualcuno, sono sussulti senza sangue, sono singhiozzi che non hanno più il coraggio di indurmi al pianto della commiserazione. Non mi commisero. Preferisco indugiare nell’errore.

Questi giorni sono duri come la terra del Negrev, cretosi, spaccati, simili al cratere che vedo tormentare le nubi più a sud, il Machtesh, fuma suggerendo altre suggestioni, sono vere, verissime, Nathan, ogni cosa frana, nell’attesa. Lascio Irina ai suoi stupidi propositi. Il suo amore arabo le dà alla testa. Se solo volessi, Aadil sarebbe già da me, se solo volessi. Rido. No, no, sorrido piuttosto, con cattiveria. Se solo volessi essere bugiarda, non lo sarei di meno. Cammino a piedi spesso, lunghissime passeggiate, raggiungo Eilat. L’ebreo vuole sposarmi, ti ho già detto. Vuole un figlio, lo chiamerebbe Leon. L’amore non corrisposto è un argomento piacevole su cui affondare gli artigli della nostra meschinità. Non amare Adam, il vecchio ebreo, e riderci con gusto, per un equo risarcimento dei fatti della vita. E mentre lo penso, realizzo che la sabbia sulla mia schiena brucia fino al brivido. E io sono stesa, immobile, sotto il cielo pesantissimo di settembre mentre Ramon o Machtesh fuma terribilmente le terrificanti suggestioni.

Sotto l’abito a fiori, informe e trascurato, non indosso nulla. Sono uscita con i soliti vecchi sandali. Adesso sono libera. Penserò, ricorderò. Vorrei restituirti l’esatto suono della torma di gabbiani. Suoni gutturali, primitivi, a volte del tutto simili ai gorgheggi di un neonato. Non ne ho mai tenuto uno sulle braccia. Non ho ancora ricevuto la tua lettera, per un verso sono abbastanza grata alla promessa che non succede, come l’amore, non succede, non succede. Non mentire, nemmeno tu riuscirai a convincermi del contrario.

Dell’Europa non ho nostalgia, al momento, mi riferisci di luoghi arcani e paurosi che non riconosco. Vorrei soltanto rivedere mio padre, la mia casa, riprendere a studiare. Vorrei avere di nuovo i miei libri e un vestito blu di seta georgette, ripiegato da qualche parte in camera di mamma. C’è ancora la mia casa?

Chiudo gli occhi mentre mi sembra che la torma di gabbiani stia consumando una strana danza sopra la mia testa. Mi addormento e indizi di eternità mi interrogano.

I cerchi che affiorano nell’acqua, ad esempio, sono sulla riva di un fiume, in lontananza immagino cerchi sull’acqua affiorare misteriosamente. Il cerchio. L’inizio e la fine coincidono e questa è l’eternità.

Stringo di più gli occhi. Il sole inforca le mie palpebre. Nella faretra della luce troverò ogni risposta.

Giro il viso da una parte, fisso il breve cono d’ombra che il mio volto disegna sulla sabbia. Lo fisso fino a non vederlo più o a vederlo orbitare, annaspare, dentro scopro altre figure. Dormire è una soluzione.

La memoria solo quando è incauta mi propone i medesimi terrori o le albe spettrali sopra le cime dei faggi. Il campo e una via lattiginosa dove abbandonare ogni identità orgogliosa, precedente.

Potrei sposare Adam, l’ebreo, perché non credo nei ritorni maestosi. No, mai creduto. La vita sconfessa il ritorno, in quanto è un’azione vile e stanchissima. Nel frattempo domandiamoci cosa sia successo nelle nostre vite. Piccolissime e meschine. Ma indugio nell’errore, soprattutto quando mi ostino a coltivare la passione segreta, l’amore che mi riconduce a te, a quella notte. Davvero è trascorso un tempo con un’orbita elefantiaca. Mi sono persa nell’attesa. Dunque stenterei a ricordarmi oltre. Oltre una modesta stanza sul ponte di Praga, cosa accadde quella notte. Non so, forse era l’amore.
Vera
(continua)
La lettera di Nathan qui: http://www.pangea.news/veronica-tomassini-davide-brullo-progetto-letterario-2/?fbclid=IwAR2V2kssRNrshDVPAqi2ADLlLC_3pTO50TKvw7alTF0jv4qBXVT1v8k4ZTA
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Il mondo lacerato di Mazzarrona

di Salvatore Lo Iacono

Fuori dal recinto dell’establishment letterario italiano qualcuno aveva gridato al miracolo quando l’ultimo libro di Veronica Tomassini era stato candidato al prossimo Premio Strega; candidatura avanzata per di più da Giovanni Pacchiano, critico letterario di lungo corso ma non di vecchia guardia evidentemente, che ha fatto in fretta ad accorgersi di quanto le pagine di Tomassini siano piuttosto fuori dall’ordinario nell’attuale panorama italiano. Da quando però è stata ufficializzata la dozzina dei semifinalisti del più noto riconoscimento letterario italiano, tutto è rientrato nei… ranghi. Tomassini, per di più pubblicata da una casa editrice indipendente di Torino, la Miraggi, è rimasta fuori. Nulla di nuovo, tutto previsto. Lo Strega resta un affare fra grandi editori e fra scritture complessivamente (non tutte, ma la maggior parte) più rassicuranti, meno spiazzanti e meno sovversive, più apparentemente «impegnate», che però non scavano disperatamente fra le pieghe dell’esistenza come, invece, fa questa della scrittrice siciliana di origini umbre.
Tomassini vive a Siracusa, dove ha ambientato il suo più recente romanzo, probabilmente il suo libro più siciliano, «Mazzarrona» (180 pagine, 16 euro), come l’omonimo difficile, complesso, quartiere della città aretusea, un pezzo di mondo grigio, buio, lacerato, un deserto diroccato, o almeno così l’autrice lo fotografa tra ultimi anni Ottanta e primi Novanta. Raccontando certamente una e più storie, anche pezzi di vita vissuta, ma facendosi sorreggere da una scrittura che sa carezzare e tagliare, che arriva non alla fine del mondo, ma di sicuro dell’umanità, narrando vite marginali ed emarginate, come pochi altri sanno fare. Il quartiere raccontato e anche trasfigurato, Mazzarrona, finisce per essere l’archetipo di tutte le periferie e di certe delle loro disperazioni. C’è una storia candida e straziante di eroina, un tentativo di salvataggio e riscatto, perché Massimo si buca ed è sempre a caccia di soldi. E attorno a lui una folla di fantasmi dal destino simile, segnato. La voce narrante è un’adolescente che si divide fra il liceo e un gruppo di derelitti tossici, una ragazza sola e inadeguata («Eravamo una loggia di sbandati, ero l’alternativa colta, il parto cieco, quella riuscita male, il corpo estrano, ossuta distratta») che per amore prova a fare i conti con un degrado e una volgarità che non le appartengono.
È una versione riveduta e corretta di quel neorealismo che Tomassini (primo libro nel 2010 per Laurana, «Sangue di cane») colloca fra le letture importanti della sua formazione, un neorealismo 2.0 che però non si nutre di intenti strettamente politico-sociali, che – tra compassione e ferocia – non mira alla denuncia, ma al racconto senza
troppe sovrastrutture. Per lunghi tratti la prosa è abbacinante e visionaria, spesso l’autrice, tra siringhe e alcol, anche solo con un paio di aggettivi, dà un ritmo palpitante alle frasi, molte delle quali vanno sottolineate, anche per comprendere le infinite potenzialità della lingua italiana. «Mazzarrona» è la conferma che la Sicilia ha una scrittrice importante, che merita d’essere apprezzata oltre il piccolo nucleo dei
suoi estimatori. (*SLI*)

La versione originale è uscita sulle pagine del Giornale di Sicilia – edizione Palermo – 27 marzo 2019

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L’epistolario – Il perdono

***

 

Tel Aviv, settembre 1950

 

Non merito il perdono, no, Nathan. Sono una creatura destinata a istigare il fallimento, altrui e mio. Sono una donna che ingenera compassione. Sono deplorevole. Sai, quei legni storti che ti ostini a abbellire, organizzandone i rami spogli come bacheche su cui poggiare preziosi monili, adornarli in una bella casa, perché sono rami storti destinati solo al fuoco. Non perdonarmi Nathan. Non lo merito.

Sono andata a Hatikva. È un quartiere poverissimo, arabo. È pieno di arabi. Hanno uno sguardo insolente o febbrile come certe tue lettere. Ti fissano, Nathan, come se fossi un trancio da divorare. I lori occhi brillano, sono sacrificati e insieme scaltri. Sono arabi. Percorro strade sconnesse, strette e pregne di spezie, di odori di domestico o di oscenità. Cerco Irina. Non è vero. Non la cerco. La odio. È finita con quel giovane, sono giorni che si vedono in gran segreto. Lei vorrebbe mentire, non è capace, è troppo stupida, abituata all’onestà del suo dolore, non sa mentire. Si vedono a Hatikva. Attraverso le vie lastricate di laidezza, qui la vita è clandestina, sento i sussurri o immagino anche. Non faccio altro. Odio Irina, perché sta prendendo quel che non dovrebbe, con la sfrontatezza della vita quando esordisce con lusinghe pericolose. Irina è eccitata perciò. Ne noto i segni sulla pelle, esplode, non so come spiegarti, splende (riluce) grata alle carezze. Le sue labbra sono umide del rossetto che indossa e della sua stessa indecenza. Lui, quel giovane, glielo toglierà, a furia di baciarla, i baci di quell’uomo le strapperanno ogni pudore. Irina smetterà di lagnarsi. Lo ha già fatto. La vedo curarsi ogni mattina, amarsi ancor prima, stendendo morbide creme di aloe lungo le sue gambe turgide perfette. Le sue gambe hanno preso vigore.

Io la guardo dalla porta, non entro. La guardo davanti la toilette, sistemarsi i bei capelli biondi, lucidi, giovani. Sono forti, non posso entrare nel tempio della fortezza, della vita, dell’amore, del desiderio, quando tutto si avvera. Io resto fuori. Nel mio destino dedicato all’attesa, all’attesa che diventa rabbia o inquietudine e mi spinge a liberarmi della mia indole oscura e ribelle. Io sono il legno storto.

Questo giovane si chiama Aadil.

Cerco lui, devo parlargli. O forse cerco Irina. Le case sono basse. Le mura franano, alle finestre si gonfiano per il vento da est le tende ruvide simili a tele grezze e dai colori cupi, pesanti. Arrivo a Kerem HaTeimanim, è opprimente, il suk emana afrori lugubri, yemeniti ovunque. Li riconosco. Cerco Irina, Aadil, tra i volti foschi, diffidenti. Busso alla porta, è una piccola dimora, dimessa e buia. Viene ad aprire Aadil. È lui. È Aadil. Rimango in silenzio, sono a disagio, non parlo, non chiedo. Aspetto ancora una volta. Guardo le mie scarpe, rovinate. Vorrei morire per la vergogna e la propensione al tradimento che mi investe. Non è il calco rassicurante di un errore altrui, la nobile ragione di una colpa che mi è finita addosso, il riparo di memorie mortali, il Sonderbau. No. Sono io e basta. Io.

Aadil. Mi alza il viso con le sue mani abituate al sacrificio, a dare il piacere o a prenderselo.

Oltre le sue spalle, noto una donna con il seno scoperto, su una specie di canapè. Accanto un uomo fuma il narghilè. Aadil non smette di guardarmi. Forse sorride, si prende gioco di me. Mi faccio coraggio. Chiedo di Irina. Lui non capisce. Dice qualcosa, un suono che confonde. Mi libero dalle sue mani, non avrei voluto. E sono andata via. E sono andata via, Nathan. Non perdonarmi più. Non lo merito.

Sono tornata a casa. Mi sono chiusa in stanza. Magda bussava alla porta con impazienza. Mi irritava finanche la sua voce. Il mio corpo era sudato, percorso da un fremito, qualcosa di incompiuto.

Vorrei morire. Il tempo mi sfugge. Non ho la giovinezza di Irina. Nel mio viso stanco scopro nuovi segni. Non sono bella, non più. Devo prendermi adesso quel che resta. Non posso aspettare. Poi raggiungerò la cima di quella roccia che vedo ogni mattina quando mi reco a Eilat. E da lì finirò nella dimenticanza, lascerò che tutto venga dimenticato, e io non avrò altro da patire o da temere.

Non ho i miei libri, qui. Non ho niente che mi ricordi di me un tempo. Chi ero allora?  Ma sai, non credo io sia mai stata la creatura virginea che Petr o mio padre credeva di conoscere. No, non lo sono stata mai. Altrimenti il mio destino sarebbe stato diverso. Io sarei morta. Io non sarei la sopravvissuta, no, sarei morta.

I miei vestiti candidi. Chiari, ricamati. Che ipocrisia. Il vaso di balsamina sul davanzale, le tenere mani di mamma che raccoglievano le fragili foglioline sparse sul piano di terra, il tepore della decenza, la normalità delle cose buone, che non subiscono l’ira degli avvenimenti futuri. Non ancora. Era la mia vita. Nathan. La mia vita mentiva anche allora.

Ricordo le mie amate letture quando sono abbastanza lucida da non soccombervi come al richiamo che induce al terrore, stabilendo la prossimità tra i fatti, prima e dopo quella notte. Ma tutto oramai è terrore. Il passato o la memoria è tutto quel che abbiamo? È una faccenda che compete ai saprofagi. O agli scrittori.

Ai poeti.

Agli amici noiosi del caffè Paris.

Makar Alekseevic di Povera gente scriveva alla sua Varvara con l’amore tiepido e affettuoso che rischia di durare per sempre. Varvara era simile a un uccellino donato dal Buon Dio per la consolazione degli uomini.

La mia rabbia e la mia inquietudine confina con l’avidità di un rapace. Non di un’aquila che vola sola, di un corvo, di una civetta, del più misero e ambizioso dei rapaci.

 

Non riuscirò a perdonarmi, Nathan. Malgrado tutto,

ancora tua

Vera.

(continua)

La lettera di Nathan qui: http://www.pangea.news/veronica-tomassini-davide-brullo-progetto-letterario/?fbclid=IwAR24KIzWCRmJ_C6xar_gDaJIA26WVPYO-J5O7hzMYrvi2VzDNfmgEIer5rA

Copyright © Davide Brullo
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L’intervista su Pangea: Mazzarrona

di Davide Brullo

I più, penso, resteranno lì, non vedranno altro oltre l’insolente insolazione della ‘denuncia’, al sole del ‘neorelismo’ di facciata, che sfacciati. Insomma, la scrittrice dei drogati, della periferia di Siracusa, che è poi anima di catrame, l’isolamento dell’uomo, catabasi, catarsi, etc. etc. Sarebbe come considerare Il processo di Kafka un legal thriller Moby Dick un baldo romanzo d’avventure a bordo di baleniera e l’Ulisse di Joyce una guida turistica della città di Dublino, che idiozia. Con Mazzarrona (Miraggi Edizioni, 2019) Veronica Tomassini – già autrice di libri importanti, cito solo Sangue di cane L’altro addio – va al di là del gergo linguistico di Altri libertini, è in esilio dalla ‘denuncia’ – propria dei burocrati della provvidenza, dei puri di cuore – redige l’implacabile epica dei rimpianti, dei persi senza pianto, dei tossici, degli indifesi, degli indegni, degli indimenticabili dannati senza aura, senza beneficio di pietà (senti qua: “I fiori degli aranci restituivano la leggerezza della stagione. Oggi mi sembra un fatto straordinario assistervi senza dover pagare un prezzo, sentirmi indegna. La primavera è per tutti. Anche per noi in quel tempo. Il nostro inverno perenne disconosceva la primavera”). Ci sono tante frasi da sottolineare e una bellezza così candida – del candore che si ottiene soltanto dopo il massacro – in questo romanzo, lo prendi ed è come se un pezzo d’ombra e un pezzo di sole fossero conficcati sotto i mignoli, a spalpebrare il senso del tatto. Ma non è questo. Veronica Tomassini scrive facendo scempio di sé, come i pittori d’icone che murano la propria vita nel carcere del Volto – per Veronica, ogni volta, scrivere è sudario, pazienza, perdizione – si scuoia per dare grammatica di fiamme al nostro caos. Ne parlo, è certo, con un giudizio sghembo, di Veronica, perché ho il privilegio di dialogare con lei, fino a sfinirci, fino all’ultimo lembo emblematico di fiato. Veronica significa colei che ‘porta la vittoria’, ma il nome, storpiato, ha a che fare con la vera immagine (icona) di Cristo. Il volto è vittoria; lei porta il tuo volto con una grazia indecente. Attraversi Veronica per trovare te stesso – e l’esperienza non è indolore. (d.b.)

Cosa bisogna avere per scrivere, per te: compassione o ferocia? Amore per sé o desideri per gli altri? Necessità di perdersi, definitivamente, o di risorgere, luminosamente?

La compassione è lo sguardo che finisce dove gli altri lo tolgono; la luce che si fa strada dove per tutti ripara l’ombra. L’ombra e non le tenebre. Il mio sguardo è compassionevole anche quando è feroce, serve alla scrittura, il dolore laconico, l’ho imparato dai nostri maestri russi, è la grande lezione russa, il dolore non si ribadisce, lo devi mortificare, ignorare, così lo esalterai nel suo potere di salvezza. È il riso con il suono del singhiozzo, persino, capace di seppellire il lettore nello sgomento e nella tristezza. Il dolore nella pozzanghera mirgorodiana di Gogol’. E alla fine l’uomo risorge, sì. E tuttavia non per questa ragione io sia nobilitata, migliore, dedicata all’altro, no, si può essere creature mostruose, fuori quello sguardo, fuori la scrittura.

Tu sei la santa dei sottosuoli, la regina virginea degli inferi della periferia: con un linguaggio visionario, da apocalisse gnostica, garantisci una consistenza narrativa a quella “loggia di sbandati” che è l’umanità di Mazzarrona. Mi pare, però, che la tua lucidità non preluda a una facile ricerca di ‘riscatto’. Dimmi. Dimmi perché quei luoghi sono la tua materia narrativa.

Racconto solo la mia vita. Tranche de vie. Non so fare altro. Sono finita nei luoghi sbagliati, tra gli imperdonabili, fino ad amarli. Io stessa lo sono, imperdonabile. Sono fuori dal mondo colpevolmente, una brutta copia della Bess di Von Trier de Le onde del destinoHo letto Christiane F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino a nove anni. Mi ha cambiato la vita, forse me l’ha rovinata. Da allora quello sguardo di cui ti dicevo “deragliava”, illuminava i segreti e la laidezza della vita, mi sembrava di averla già conosciuta così marcia e finita a pochi anni. Ero preparatissima, a pochi anni conoscevo già l’abbecedario del tossico. Gropiusstadt, Haus der Mitt, il Sound, David Bowie, il trip, l’acido che devi calare con un succo di ciliegia, Sense of doubt. Era il mio paesaggio a nove anni. Allora ho capito che c’era una verità, dovevo trovarla, non l’ho ancora trovata. Devo capire ancora, non so cosa, quel tossico forse con l’ago infilato nel collo, Riboldi Gino chino sul cesso di un bagno pubblico (In exitu, Testori) o l’altro che muore steso su una panchina. Così è andata. E da adolescente e poi da adulta sono stata fedele a una militanza funesta, una vita in pezzi forse. E invece no, perché poi tutto mi è stato restituito, gloriosamente, tutto è diventato scrittura. Sono diventate parole, quelle parole che a Mazzarrona non si usavano, erano ridicole, troppo lunghe.

Ami dal culmine dell’abbandono, forse perfino in una compiaciuta estremità ed eresia. Il narcisismo dei perduti. È così? Contestami.

Sì, amo dal culmine dell’abbandono. L’amore è il grande assente. Il narcisismo dei perduti: mi piace. Mi sta bene. Ma devo essere perdonata e voglio solo perdonare in fondo, così sopravvivo.

C’è più denuncia sociale, rivolta civica o atto sacro, liturgia dell’amare e dell’accettare nel tuo romanzo, nelle tue intenzioni?

No, non c’è una denuncia sociale, mi annoia solo l’idea di un romanzo da denuncia sociale. Qualcosa da tessera di partito, inefficace, inutile come una posa. Soltanto racconto (non mi importa delle intenzioni, agiscono per i fatti loro, non le riconosco), poi io stessa divento simbolo di qualcosa magari. Quella che scrive di periferie o di ubriaconi, vagabondi, disadattati. Senza pietismo, però, per carità. Lo faccio e basta. Il resto mi annoia. La noia è un problema. Ho vissuto così.

“Era solo la morte degli altri, che avanzava implacabile e lenta, ad avermi contagiato”: che cosa significa?

Eroinomani, creature esangui. Erano la negazione della vita, una provocazione, un parto cieco. Frequentare eroinomani, sentir parlare solo di ‘roba’, di overdose, spade, rota, Aids, mi aveva fatto ammalare. Frequentare l’ignoranza che per me equivale a una volgarità morale, una volgarità tout court. Mi aveva fatto ammalare. Dimagrivo, avevo smesso di mangiare, non del tutto però. Non vedevo altro, solo questo orizzonte, pesto, greve. Solo la morte. Non c’era leggerezza. Era un castigo.

Da dove arriva questo tuo linguaggio che brucia i cliché di certa narrativa contemporanea, che affila il coltello con cui ti punisci? Che cosa leggi, intendo? Che cosa ti piace leggere, dell’oggi?

Oggi leggo solo testi sacri o classici dello spirito. Ho amato molto i russi, il neorealismo, alcuni autori americani, ma se vai a vedere scopri che sono poi russi o giù di lì, tipo Saul Bellow (origini lituane).

Ora cosa ti attendi? Lo Strega, un nuovo libro, uno che ti porti via da tutto bruciando i ponti, niente, tutto?

Uno che mi porti via da tutto, bruciando i ponti.

L’originale qui: http://www.pangea.news/sono-stata-fedele-a-una-militanza-funesta-fino-a-strapparsi-le-ossa-verbali-con-veronica-tomassini/

davide brullo

Davide Brullo, scrittore, poeta, critico per Linkiesta e Il Giornale

L’epistolario – La collina di Petřín

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Tel Aviv, agosto 1950

Stanotte ho sognato come quando ero una ragazza. Nathan. Era un sogno e non un incubo. Mi sembra di avvertire un anticipo di guarigione. Eravamo insieme. Era un miracolo. Io e te insieme. Sedevamo all’ombra di una quercia. Tutto intorno il sole splendeva sulle cime dei virgulti. Sai dove eravamo? Eravamo sulla collina di Petřín , nel giardino delle rose, oltre la torre svettava il castello di Praga. Abbiamo superato il fossato, la passeggiata degli amanti, vedo corone di peonie. Noi sediamo sotto l’ombra di una quercia. Tu poggi il tuo capo sul mio grembo. Non dormi. Ma sei in pace, perché sei con me. Poggio la mia mano sulla tua guancia.

Era un bel sogno.

Oggi sei più stanco che mai, vero? Ma la vita, la vita ti travalica, propone i suoi componimenti, arbitrari ma non privi di una sottomessa e armonica libertà. Tu scegli, non arrangiarti a seguire l’arroganza delle vicissitudini. Quelle sono margini che spariranno, alla fine di tutto, affiora il progetto reale, noi, io e te. Lo troveremo, ne faremo parte, smetteremo di dibatterci, finanche realizzando che l’antico componimento non preveda te e me, insieme.

Non possiamo sapere. Ma esiste una quercia sulla collina di Petřín? Non ricordo più.

La vita ci supera. L’ho scoperto ieri pomeriggio. Era caldissimo, un pomeriggio agitato da venti torridi. Eravamo in spiaggia, c’erano Irina, Magda, Magoska. Abbiamo dei costumi da bagno nuovi, li ho comprati con i soldi dell’ebreo. Sì, Nathan. Sono spregevole. E questa è la vita, Nathan, persino la mia spregevolezza.

Eravamo in spiaggia. Io sedevo sulla rena calda così da percuotermi la pelle. Avevo i brividi che mi assalivano, come da bambina, nel contatto sprezzante tra freddo e caldo, il Baltico è molto più gelido però, la sabbia soffice e bruciante, mi pareva anche allora, alla stessa maniera. E c’era mamma che rideva come una matta, papà le urlava dietro le raccomandazioni, “stai attenta, non allontanarti troppo!”. Lei rideva. Agota leggeva un libro noioso. Era fatta così, severa, e tuttavia magnanima, il gran cuore della mia buona sorella.

Non temere, Nathan, la vita ci supera. Nel nostro buio, lei divampa, a modo suo. Quando non vuoi, quando non credi.

Ci sono stati giorni in cui il desiderio di non essere mai esistita era la più feroce delle consolazioni. E ci sono stati giorni in cui essere nata era l’arcano prodigioso che mi avrebbe promesso te, il tuo amore. La notte in cui io e te eravamo qualcosa fu come raggiungere il nodo di tutti i misteri.

Capisci? Dimmi, allora, cos’è la vita? Cosa vuoi preferire? Eppure, non dura niente per sempre. Si avvicenderanno comunque, a dispetto di noi, le aurore e i crepuscoli, le albe e il torpore della notte. E sui rami, nel buio, udiremmo comunque il fruscio tormentato delle foglie o delle creature che a seconda del nostro spirito, provato o glorioso, tradurranno il lamento degli assenti o il loro rimprovero, bisbigli o singulti o sorrisi dentro mormorii benevoli.

Ci ameremo o meno. Nel tuo buio o nella tua luce, esisteremo in ogni caso. Il tempo ci supererà, la vita. Sì. Ed è terribile a volte. A volte, no.

Il buio è sempre il risultato di un’assenza.

Possiamo illuderci di difenderci da essa, io e te. Io voglio difenderti. Non credo di riuscirci, siamo così lontani. È una promessa che non manterremo, forse, il nostro amore. È il nostro destino, può darsi.

La vita ci supera, l’ho capito in spiaggia, Nathan. C’era questo giovane palestinese. Irina, vedessi, Irina quella che tormentava le sue viscere con il pianto, lo stridore pedissequo per il suo Il’ja. L’avessi vista, Irina, con questo giovane palestinese. Ci avrei giurato, distante da com’ero, che gli occhi di Irina brillassero di una gioia violenta e repentina e che il suo desiderio fosse irriconoscente e immemore. Dov’era Il’ja?

Li ho veduti andare insieme, Irina e quel giovane arabo. Vibrava qualcosa in me, allora. Vibrava qualcosa che mi bruciava, stringevo le gambe, una sull’altra. Sì, Nathan. Sono spregevole.

Questa è la vita. Vedi, Nathan? Funziona così la vita.

Io non ho capito niente di questa vita.

Li ho veduti andare via. Sparire. Oh lei sarebbe ritornata, sola. Certo, sì. Soccombeva al suo momento di diletto. Avrebbe gemuto finalmente. Avrebbe smesso di lamentarsi, sotto il vigore di braccia nuove e nuovi ardori.

E dimenticare. È un obiettivo. Voglio dimenticare.

Magda e Magoska giocavano come ragazzine in acqua. La loro pelle delicata, bianca, era infuocata, color porpora per il sole furioso di quel pomeriggio. Ridevano, come sciocche. Ridevo anche io. A tratti mi adombravo, invidiando Irina.

Perché sono spregevole.

La mia vedovanza mi sfinisce. Non ne posso più.

Torno l’impaziente studentessa di un tempo. Non la giovinetta noiosa, quella che frenava le mani indecenti di Petr.vestitoveri

Papà sapeva di me che lo ero, incostante e capricciosa, non umile, ma altezzosa. Io che nelle mie più nobili aspirazioni avrei tanto voluto somigliare alla Varvara Alekseevna di Povera gente. Come sono soavi le donne di Dostoevskij, o anche volitive, ferine, come Lizaveta Nicolaevna che amava Stavrogin, crudele e bellissimo. Infelice, carnefice. Ero talmente confusa dalle mie letture che immaginavo consessi febbrili, con i miei inesistenti amanti. Guardavo verso il davanzale, dal mio comodo letto, ricoperto di stoffe pregiate, ricamate dalla pazienza affettuosa di mamma. Trepidavo in un sogno facile e desto. Accendevo la radiolina. Sorridevo al pensiero di felicità da aspettare. Al cospetto delle quali prepararmi, indossando il mio abito più bello, sistemando i capelli con nastri di raso e stendendo sul viso la cipria chiara di polvere di riso.

E adesso?

Sono sola. Sono sola, da morire. E devo consolarti. Invece, lo so. Devo devo. Nathan. Abbi cura di te.

Tua

Vera.

(continua)

La lettera di Nathan qui: http://www.pangea.news/tomassini-brullo-letteratura-scrittura/

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Copyright © Veronica Tomassini

 

 

 

 

 

 

L’epistolario – Soltanto che è la vita

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Tel Aviv, luglio 1950

Mio adorato,

le tue lettere mi fanno tremare. Nel tuo delirio, sento prossima l’apocalisse e la fine di tutti i giorni. Eppure non voglio credere che nella luce bianca di Tel Aviv un giorno non possa sorprendere il tuo passo sicuro, annunciarsi come piuttosto all’inizio di una guarigione, incontrandoti, riconoscendo la presa salda, la mia casa, nuova. Tu sei la mia casa, sai? Alla fine del viaggio, dentro una lunghissima notte. Eccoti lì, nella penombra, in una stanza fredda e malinconica, la musica di Monteverdi e noi. Io la ninfetta provata, non credevo ai miei occhi. Così ti avevo quella notte, come nessuno mai ha potuto con me. E i tuoi occhi, il verde chiaro e cangiante simile a una specie di metallo che batte per un raggio violento finito in una sferza verticale, e dentro scivolano coriandoli di fiori blu. I tuoi occhi, mio adorato, adesso il mio sentimento prenderà il sopravvento per il troppo amore, i tuoi occhi – dicevo – mio adorato – sono in grado di penetrare me, da parte a parte, cerco di scrutarli adesso ancora, a loro voglio estorcere ogni verità. Estorcere, sì, persino sottrarne a tradimento il segreto che non mi rivelano. E tu devi rivelarmi ogni cosa, tu lo devi fare.tomassini1

Alla finestra, siedo e guardo in cortile, ho la lettera tra le mani, ripeto a mente la crudeltà delle tue innocenti descrizioni, che mi riferiscono di un caos primitivo, tribale. L’esotismo che gronda sangue, le donne mutilate che mi restituiscono la più vergognosa delle memorie. Le donne seviziate, oh mio adorato, quando avremo la pace? Sarà la morte ad accoglierci, allora? Ma non senza un’ultima volta. Devi avermi ancora un’ultima volta e io devo avere te.

Qui le donne vigilano le ombre degli assenti, fosse finanche l’ombra stentorea del ficus in cortile, in una sorta di bolla sospesa, un lutto, sai la festa delle Tre Settimane, la celebrazione del cordoglio, tutto insieme, la distruzione del Bet Hamikdash. Io ho smesso di ricordare, se non te e quel che ti riguarda, alcuni dettagli della mia vita a Praga, e il tormento non osteggiabile che affiora nelle tenebre, sai, il campo. Sai, la morte, o la tristezza che colpisce i segnati, il niente che conquista la normalità, la seduce, la divora. Il niente. Mio adorato, mio tormentato amore.

Ho un vestito verde, un verde sbiadito, non è il colore dei tuoi occhi. È sbiadito. Magda dice: è uno straccetto cimiteriale. Mi è confacente, le rispondo risentita. È confacente all’attesa laconica. Cosa aspetti? Chiede Magda. Lui? Insiste. Non torna, ripete, severa, come le mani delle contadine di Jasna Gora. Perché deve tornare lui e non Il’ ja e non i nostri?

Perché voi siete morti e tutti i vostri stupidi fantasmi d’appresso che sono io io io a rinfocolare, come la brace aguzza e spenta nel tinello, messa lì a marcire con la pioggia e l’umido di questa dimora estranea e buia. D’inverno. Siete morti. Tutti. Magda sorride come dentro una smorfia. Io forse sto piangendo. Ma è un pianto dimesso, anzi discreto, introverso. Qualcosa che interroga me, procede ma esclude, non si mostra. No, non vedrete le mie lacrime. È un sussurro, un’accusa lanciata non so a chi, a chi non importa.

Sono molto plateale, tragica fino al patetismo, Max Brod odiava la mia teatralità. Prometteva: non farai nulla di buono perciò.

In cortile osservo la figura che si muove impacciata da un canto all’altro. Il vecchio Adam. Povera anima. Stai concludendo la tua vita – gli dico in un ipotetico dialogo tra sordi – e nondimeno non paventi la disgrazia di una tale illusione amorosa. Ne è in ostaggio, caduto nel laccio dell’infallibile negazione tanto da guadagnarne una mostrina per il coraggio. Gli dirò no, mio adorato. No. Non finirò nel suo letto di nuovo. Rido, tutto sommato. La questione si riduce a molto meno. Non finisce in un sussulto o puoi chiamarlo piacere – è una domanda – piacere o non so cosa.

Tu piuttosto. Tu devi desiderarmi, devi ammalarti della mia assenza e guarire soltanto quando avrai esaudito qualsiasi indicibile pensiero. Dovrò tremare allora e non sarà un nuovo terrore.

Tremare per amore, come in un bel romanzo d’appendice. Soltanto che è la vita. E la vita non è così sprezzante e insulsa certe volte come la raccontava Brod nel suo superbo conversare, dietro le lenti sudicie dei suoi Lorgnette d’oro 14 carati, al caffè Paris. Non mi avrebbe ispirato altro che un dispetto. Finirci a letto mai. Ero una ragazza e ancora molto carina. Indossavo vestiti cuciti dal sarto migliore di Praga, ottima fattura. Non erano macchiati d’unto, come il suo bavero. O forse ricordo male.

Io ti avrò davanti, stringerò le tue mani, poi mi abbandonerò a te. Tienimi così più che puoi.

Il vecchio Adam invece pretende che sia io a spogliarmi. Lui mi guarda. Guarda il mio piccolo seno. Questo gli basta. Io chiudo gli occhi o guardo il pavimento, sono scalza e spesso ho freddo, anche se è estate. Tiene le imposte accostate. La luce filtra appena. Il suo desiderio mi dà la nausea come molte altre cose di lui. Alla fine desidero anche io liberarmi, non riesco a spiegare. Liberarmi di questo amore che coltivo nella distanza. Sei tu.

Adam mi ordina di vestirmi, lui sistema i suoi pantaloni, stringe la cinta. E io sento estinguersi ogni esultanza, avvincermi uno strano torpore, l’allucinazione della fine, la suggestione mortale.

Infilo le scarpe e corro via. Lontano da quell’insulto. Vecchio barbogio.

Riesco solo ad odiarlo perché ingenera un bisogno meschino.

Vieni da me subito, presto. Vieni a salvarmi, Nathan.

Tua per sempre

Vera

(continua)

La lettera di Nathan qui: http://www.pangea.news/di-azzurro-non-ho-visto-altro-che-la-mia-fame-di-te/?fbclid=IwAR05dEqTqG0zN50ErUtxDL6wRCzCSnyqHVNGwNdlIESTMMha627LNTOF1vg
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