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Tel Aviv, settembre 1950
Irina venderà l’uniforme del marito morto. Come fai? Le ho chiesto e sono disturbata da una ostinazione temeraria e impudica che mi parve le colorasse le guance. È un pomeriggio di settembre, abbagliante, c’è un vento furioso, oltre la finestra, lo vedo agire, indefesso, scuotendo il ficus in cortile. C’è un gran caldo. Ma ho chiuso tutto, così che questa polvere ostile rimanga fuori. Figlia della disgrazia, dicono dalle sue parti. Irina ha origini cosacche. Il’ja era nato nel villaggio di Michailovskaja, sul Don, a qualche chilometro da Volgograd. Irina mi volta le spalle. Le ripeto, sillabando: sei la figlia della disgrazia. Irina si gira di scatto: la venderò. Il’ja è morto. Urla. E la sua voce è lacerante, fastidiosa e tragica come il pianto delle prime notti d’inverno quando vegliavamo tutte qualcosa di onesto, speranzoso e buono.
Ora, Nathan, non è rimasto niente delle nostre veglie. Accendiamo le candele il venerdì, il nostro spirito è distratto, non contrito. Non so cosa tu possa ricordare ancora di me. Quel che ricorderai, abbi fede in ciò che ti dico, è soltanto inesattezza. Una sola notte non basta a perdonare le assenze infinite, estenuanti assedi di simulacri (lo sono sì, nella loro eresia), mi irrita moltissimo vivere lo spazio vuoto, dove sorprendermi a desiderare qualcuno, sono sussulti senza sangue, sono singhiozzi che non hanno più il coraggio di indurmi al pianto della commiserazione. Non mi commisero. Preferisco indugiare nell’errore.
Questi giorni sono duri come la terra del Negrev, cretosi, spaccati, simili al cratere che vedo tormentare le nubi più a sud, il Machtesh, fuma suggerendo altre suggestioni, sono vere, verissime, Nathan, ogni cosa frana, nell’attesa. Lascio Irina ai suoi stupidi propositi. Il suo amore arabo le dà alla testa. Se solo volessi, Aadil sarebbe già da me, se solo volessi. Rido. No, no, sorrido piuttosto, con cattiveria. Se solo volessi essere bugiarda, non lo sarei di meno. Cammino a piedi spesso, lunghissime passeggiate, raggiungo Eilat. L’ebreo vuole sposarmi, ti ho già detto. Vuole un figlio, lo chiamerebbe Leon. L’amore non corrisposto è un argomento piacevole su cui affondare gli artigli della nostra meschinità. Non amare Adam, il vecchio ebreo, e riderci con gusto, per un equo risarcimento dei fatti della vita. E mentre lo penso, realizzo che la sabbia sulla mia schiena brucia fino al brivido. E io sono stesa, immobile, sotto il cielo pesantissimo di settembre mentre Ramon o Machtesh fuma terribilmente le terrificanti suggestioni.
Sotto l’abito a fiori, informe e trascurato, non indosso nulla. Sono uscita con i soliti vecchi sandali. Adesso sono libera. Penserò, ricorderò. Vorrei restituirti l’esatto suono della torma di gabbiani. Suoni gutturali, primitivi, a volte del tutto simili ai gorgheggi di un neonato. Non ne ho mai tenuto uno sulle braccia. Non ho ancora ricevuto la tua lettera, per un verso sono abbastanza grata alla promessa che non succede, come l’amore, non succede, non succede. Non mentire, nemmeno tu riuscirai a convincermi del contrario.
Dell’Europa non ho nostalgia, al momento, mi riferisci di luoghi arcani e paurosi che non riconosco. Vorrei soltanto rivedere mio padre, la mia casa, riprendere a studiare. Vorrei avere di nuovo i miei libri e un vestito blu di seta georgette, ripiegato da qualche parte in camera di mamma. C’è ancora la mia casa?
Chiudo gli occhi mentre mi sembra che la torma di gabbiani stia consumando una strana danza sopra la mia testa. Mi addormento e indizi di eternità mi interrogano.
I cerchi che affiorano nell’acqua, ad esempio, sono sulla riva di un fiume, in lontananza immagino cerchi sull’acqua affiorare misteriosamente. Il cerchio. L’inizio e la fine coincidono e questa è l’eternità.
Stringo di più gli occhi. Il sole inforca le mie palpebre. Nella faretra della luce troverò ogni risposta.
Giro il viso da una parte, fisso il breve cono d’ombra che il mio volto disegna sulla sabbia. Lo fisso fino a non vederlo più o a vederlo orbitare, annaspare, dentro scopro altre figure. Dormire è una soluzione.
La memoria solo quando è incauta mi propone i medesimi terrori o le albe spettrali sopra le cime dei faggi. Il campo e una via lattiginosa dove abbandonare ogni identità orgogliosa, precedente.
Potrei sposare Adam, l’ebreo, perché non credo nei ritorni maestosi. No, mai creduto. La vita sconfessa il ritorno, in quanto è un’azione vile e stanchissima. Nel frattempo domandiamoci cosa sia successo nelle nostre vite. Piccolissime e meschine. Ma indugio nell’errore, soprattutto quando mi ostino a coltivare la passione segreta, l’amore che mi riconduce a te, a quella notte. Davvero è trascorso un tempo con un’orbita elefantiaca. Mi sono persa nell’attesa. Dunque stenterei a ricordarmi oltre. Oltre una modesta stanza sul ponte di Praga, cosa accadde quella notte. Non so, forse era l’amore.
Vera
(continua)
La lettera di Nathan qui: http://www.pangea.news/veronica-tomassini-davide-brullo-progetto-letterario-2/?fbclid=IwAR2V2kssRNrshDVPAqi2ADLlLC_3pTO50TKvw7alTF0jv4qBXVT1v8k4ZTA
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