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Vodka Siberiana: Il dolore al centro della storia

di Giusy Capone

Sangue di cane;Il polacco Maciej, Feltrinelli; L’altro addioMazzarrona; Vodka siberiana. Lettere epiche e alticce: su quali temi si concentra la sua riflessione?

Il mio sguardo, più che altro, deraglia puntualmente, rovina dove gli altri lo tolgono. Dove per gli altri dimorano le ombre, per me comincia la luce. Quindi sono riflessioni sul filo di una umanità provata di solito, che indugia su luoghi scomodi, sulla porzione di mondo più ostile, se vogliamo. Mi interessa il momento in cui le nostre certezze riparano nell’imperscrutabilità del destino, mi interessa l’uomo nel momento della sua caduta, il bivio in cui mi sembra di sorprendere una qualche verità superiore e sovrana. Il momento in cui l’invisibile si autodetermina e promette ad ognuno la sua parte ultramondana, un biglietto per l’infinito. Siamo stati biologicamente forse concepiti dentro la grande assenza, il grande vuoto, la mancanza che si esplica nella risposta solo nel momento della debolezza, della fragilità, della tenebra che annuncia lei soltanto il suo contrario.

Il suo “Vodka siberiana” gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?

Domanda difficilissima. I rapporti umani sono l’incognita, enorme, sono ambivalenti, grotteschi, crudeli. Dipende. Procedono su strade carraie, mai su autostrade. Non ho alcuna idea di cosa siano i rapporti umani, nemmeno questo romanzo ne indaga le profondità. Soltanto ne prende atto, dell’elenco di pulsioni che lei mi cita nella domanda, nel romanzo si verifica la stoltezza o la straordinarietà dell’una e dell’altra (dell’ossessione, dell’attrazione, di una miseria morale che rinasce sorgiva simile all’araba fenice in procinto di diventare un miracolo), si aprono come un ventaglio, un’affascinante raggiera. Non c’è una questione etica, una domanda sociologica, o peggio psicologica, nel romanzo, in una sottolettura; non sarò mai nei miei scritti pedagogica o esemplare, al contrario. Nel romanzo, le pulsioni, le relazioni umane, succedono, di fatto, come la vita.

“Perché la creatura piange?”: è ineludibile il dolore?

Sì. Il dolore è al centro del destino dell’uomo. Della Storia. La Storia nella storia minima. Il dolore è una lente, è un bisturi, detiene la lucidità sferzante, apre la porta della conoscenza, segreta, da cogliere velocemente, appena un brano, quel poco che ci è concesso. Non è possibile ignorarlo, non contemplarlo. Salire sulla Croce per l’uomo di fede, contemplare il Viso eterno immutabile, riconoscere nei rivoli di sangue sulla fronte, nella contrizione, nel tenero Agnello sacrificato, il viaggio nella salvezza. Pauroso, terribile. Ma questo è.

Perché la creatura piange si chiedeva “Dmitrij” ne I Fratelli Karamazov (come scrive Davide Brullo, nella recensione a Vodka Siberiana, sulle pagine de Il Giornale, nda), perché? Nell’inesplicabile vuoto, o nel pianto inenarrabile, supplichiamo il Padre, Ciò da cui tutto è, tutto inizia e si completa. Il pianto come un vallo, un ponte, un attraversamento, per raggiungerLo.

Quanto sono politici i corpi dei derelitti che popolano le sue pagine? Quanto denunciano il crack morale occidentale gli alticci dell’est dell’Europa?

Sono corpi politici; sono il dito puntato contro una coscienza collettiva inesistente, sazia, pingue, involgarita. Posso testimoniarlo con fatti, uomini che morivano in una grotta assiderati, nella città in cui vivo, una città del sud; uomini che morivano in un parco, bevitori, senza tetto, nello sbadiglio generale di quelli che stanno dalla parte giusta. Morivano. Ricordo bene la disperazione, l’impotenza, a provare di salvarne uno si rischiava di impazzire per l’iniquità, lo spregio dell’indifferenza, la brutalità degli altri, distratti sempre, un passo più in là, sempre. Ricordo un bevitore, malato di cancro, dormiva in un parco, al freddo, faceva la chemio e poi andava a dormire in un parco, su una panchina. Sono diventata un’eretica, un’anticlericale, durante le omelie in chiesa, più di una volta, volevo balzare su, sulla panca, sull’altare e urlare: la salvezza è fuori da qui, non vi accorgete che c’è una guerra fuori da qui? Pontificate il vostro moralismo inutile, inapplicabile, ma Lui è fuori da qui, tiene la fronte barbone, lo solleva dai suoi escrementi, è fuori da qui.

Sono diventata un’anticlericale, la chiesa del Gesù rivoluzionario e scalzo non c’entra niente con le gerarchie ecclesiastiche e certi fasti offensivi.

Ex mercenari, ladri, traditori: è un romanzo catartico o redentivo? Serpeggiano intenti morali?

È redentivo, è la storia di un miracolo. Nella stoltezza, la storia di un miracolo. Erano tutti dei perdenti, ma hanno vinto, nella mia memoria, non c’è più nessuno di quel mondo, mi manca terribilmente. A volte penso: ma è esistito davvero? Dove sono andati? Moralismo: no, proprio no. Chi scrive, la voce narrante, è essa stessa la sacerdotessa del deprecabile.

L’originale è uscito qui:

https://giusycapone.home.blog/2021/01/27/vodka-siberiana-lettere-epiche-e-alticce/?fbclid=IwAR1WW1qBKIllZGO2z3Wpd_ka8nhq8GJWB3Uu163r3PLfriy5W8GPnnecjTA

L’epica alticcia di “Vodka siberiana” (Il Giornale)

di Davide Brullo

Come se avessero tagliato la lingua di Dostoevskij, interrandola in Sicilia. Non so quale complicità scaturisca tra Siracusa e Pietroburgo, né se i Karamazov siano degenerati a Catania, eppure nella scrittura di Veronica Tomassini cruda, spinata, come un’agave, dolce come la preghiera di compieta, che lascia fiato alla sera, a compiere ogni cosa risuona la domanda infaticabile, impossibile di Dmitrij: «Perché la creatura piange?», perché l’uomo è infelice, claudicante nel dolore, deriso dal male, eletto al pianto? «Tu hai incontrato i sopravvissuti della terra, seduta sul letto della creaturina», scrive Veronica Tomassini, in Vodka siberiana, ultima porzione di un’opera sinfonica, arrischiato requiem, che va da Sangue di cane (edito dieci anni fa da Laurana) a Christiane non deve morire (2014), da L’altro addio (2017) a Mazzarrona (2019).

Un’opera che ha la grazia tagliente degli abbandonati, la forma perturbante di chi è denigrato per eccesso d’innocenza.

Come una guerriera scalza cammina, Veronica Tomassini, nel sacrilegio dell’editoria italica: Vodka siberiana se l’è stampato da sola, col candore della svergognata, e quel libro, orfano, è diventato un miracolo, chiesto, desiderato, onorato, ristampato. È lei, Veronica Tomassini, con quelle frasi sul ciglio dell’abisso, a stupire le labbra perché ogni frase può essere l’ultima, sempre, in questa specie di incendio bianco: «C’era una luce timida che penetrava dalle fessure dei battenti. Una luce di settembre che suggeriva viali di porpora, la definitezza pacifica, concedeva riposo agli occhi, ed era come indirizzarti alla quiete. E dunque all’accettazione» , l’autentica eroina della letteratura italiana, altro che Elena Ferrante, Veronica Raimo, Teresa Ciabatti… (le è equivalente, nell’ambito della poesia, Francesca Serragnoli, che ha appena pubblicato un libro prediletto, La quasi notte).

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A me pare, più la leggo, una santa, Veronica Tomassini, che usa il verbo come una spada: e la santità abita l’assenza, procede per crudeli tenerezze, nella tana dello spietato. Vodka siberiana è un poema romanzesco, così, di rovine e di rovinati, di perduti alla vita, di icone e di incubi, di «follie consumate per una passione governata male, l’intemperanza», di falò umani («il siberiano voleva darsi fuoco, bruciare davanti a te»).

La scrittura, in questi regni inferi dell’uomo, nell’ustione, è esatta, pare una regola monastica («Lui voltò il suo viso bello ed eroico quadrato, gli zigomi scolpiti, il biancore guastato dal sangue fiammeggiante che ne imporporava il volto a causa dell’ubriachezza»).

Qualcuno, con un film di Emir Kusturica in sottofondo, potrebbe scambiare Veronica Tomassini per una Marguerite Duras, semmai più allucinata, trafitta da profezie. Piuttosto, Veronica Tomassini sa ruotare la rabbia in aristocrazia, sa che si ama solo ciò che muore, certi nella lacerazione.

«Se pure si ama, è amore nascosto, inapparente, non pare amore, ma tutto patire», scrive quell’altra Veronica, la Giuliani, mistica umiliata, vissuta nel tardo Seicento, scrittrice di stravolta grandezza. Insomma: in questo romanzo si entra per adorazione.

L’originale è uscito sulle pagine de Il Giornale (Inserto Controcultura) edizione del 17 gennaio 2021.

Veronica Tomassini. Vodka siberiana. Lettere epiche e alticce

di Roberto Plevano

Un’idea molto tenace fa del libro un’estensione della personalità dell’autore, un’espressione autentica, in un certo modo veridica e definitiva, anche quando la finzione è massima, dell’essere stesso di chi scrive. 

Io credo che un libro sia invece qualcosa di più di un’impresa individuale. Oltre all’autore, vi concorre una pluralità di attori, che trasformano un elaborato privato in libro, che è un fatto pubblico. Il vaglio di una casa editrice che abbia un qualche credito, la selezione, l’editing, i consigli, il blurb, la pubblicazione insomma, e poi il lancio, la trafila delle presentazioni, la promozione, le recensioni, i premi, costituiscono la prima dimensione sociale del libro. Seguono poi i lettori, che sono la vera ragion d’essere del libro. Per questo mi sono tenuto lontano dalla cosiddetta “editoria” a pagamento, anche se i casi possono essere vari e tanti e il confine tra un editore non a pagamento e uno che vende i suoi “servizi” non sempre è definito.  

Frustrata dall’industria editoriale, Veronica Tomassini ha deciso di autopubblicare il suo romanzo, affidando il testo a uno stampatore e distribuendolo personalmente a chi ne fa richiesta direttamente all’autrice. Tomassini è una scrittrice che ha, per quanto posso giudicare, tutte le credenziali a posto: una storia di pubblicazioni alle spalle, premi letterari, riscontro di critica, di pubblico, riconoscimento presso la “società” letteraria nazionale, collaborazioni con testate nazionali. Mi auguro che le circostanze dell’”uscita” del suo testo non precludano l’attenzione che merita. Non si può tacere però la considerazione che alcuni mali che si imputano alle case editrici, spesso generalizzando in modo indebito – la scarsa attenzione verso opere non “etichettabili” e l’essere un mondo autoreferenziale che promuove libri e autori interni al circuito culturale e mediatico – rischiano paradossalmente di ingigantire se l’autore si affida unicamente ai suoi contatti e capacità di fare marketing di sé stesso. Per capirci: questo libro mi è arrivato in mano soltanto perché ho avuto qualche chiacchierata con Tomassini, che è parte della mia “bolla” di social media. 

L’esistenza di quest’oggetto però pone diverse questioni, in primo luogo sulla necessità e rilevanza dell’industria editoriale. Non credo che sia desiderabile un mondo in cui le case editrici sono sostituite dal do it yourself e dall’iniziativa degli scrittori, anche se spesso le case editrici sono soltanto una tappa, nemmeno la più importante, nella circolazione della narrativa. 

Ho deciso di leggere questo libro prima di tutto per stima verso l’autrice. Non mi pare che le esigenze di Tomassini siano autopromozione o vanità. I suoi lettori – che sono più di venticinque – fanno massa critica e hanno assicurato un primo riscontro di attenzione. Tomassini è nota come un’autrice sincera e onesta, e a pensarci bene, l’onestà è forse la prima qualità che si debba chiedere a un autore. La letteratura è artificio, certo, ma un buon autore risolve l’artificio senza trucchi o scorciatoie: un suo libro è frutto di fatica, serietà, sudore, perizia artigianale. Diamo credito al lettore di accorgersene.

Vodka siberiana. Lettere epiche e alticce non è un romanzo epistolare. Le lettere sono un lungo monologo, come un testo messo in scena, inviato a un tu che è la persona dell’autrice stessa a venticinque anni, arrangiato secondo un filo narrativo che preferisce l’avvicendarsi delle impressioni di una stagione sulle costrizioni di una trama. Non è autofiction, non biografia romanzata.

È vero, a venticinque anni la vita brucia, non si può costringere entro le meschinità di interni piccolo-borghesi di una città di provincia, con i riti, le ipocrisie, le grettezze delle anime morte. L’assolato esterno di un parcheggio apre la scena del dramma passato, mai chiuso. Il tu cui si parla è una giovane donna che si arrangia servendo ai tavoli “di un Club dall’aria decadente”, che molte cose non sa, ma sa che non saranno altri a decidere la sua vita. 

La vita brucia di domande mai poste, di cieche ricerche. La giovane percorre le strade della sua cittadina alla ricerca di rifugi. La casa di un anziano professore di francese, un maestro difficile, consumato dall’attrito della vita, per cui i libri sono, se non salvezza, necessario ristoro. Nella casa vive, confinata a letto da un’indefinita disabilità, la “creaturina”, testimone e custode della commedia umana di visitatori sul palcoscenico della sua camera. I giardini pubblici, dove “il caos era vera perdizione”. Qui incontriamo una variopinta umanità di immigrati dai paesi dell’Est, reduci delle guerre balcaniche, relitti del crollo del sistema sovietico, polacchi disturbati, disfatte prostitute slave, ladri: per costoro “l’ubriachezza fu un sigillo”, la vita sobria un molesto ricordo, il degrado il solo presente. E pure la giovane trova qui accoglienza, e qualcosa che è un momento di puro amore. 

Le lettere epiche e alticce sono un diario di tormenti giovanili e ostinati, timidezze e orgogli, raccontato con onestà e candore. Tomassini è lontanissima da sentenziosità, da condiscendenze sedimentate dal tempo che passa. Sospende il giudizio, la vita è immediata o non è: non è originaria, non è autentica, semmai soltanto riflessa, ma la riflessione viene poi, dalla narratrice in dialogo con il tu della sua giovinezza, che vede sé stessa dal tempo presente, ma questa distanza temporale non è distanza giudicante. È validazione di un’esperienza integrale, vale a dire ciò che deve essere la buona letteratura. 

Ci si lascia trascinare dalla prosa di Tomassini, che è come una fiumara che sgorga improvvisa e travolge quel poco di precariamente stabile che un lettore oppone al testo. Come un aedo, Tomassini non può fare a meno di cantare la vita, tanto più vera nel dolore, negli interstizi, nella degradazione, ai margini della società, rispettabile soltanto per ipocrita convenzione. Il crollo delle società dell’Est mette a nudo la bancarotta morale dell’Occidente: la provincia siciliana, come ovunque, è un tessuto di antica perenne decadenza. 

Vodka siberiana è percorso da un’ansia tutta femminile di pietà e impossibile redenzione per i suoi personaggi, perché nella realtà la redenzione può soltanto essere invocata attraverso la postura sacrificale dell’innocente. Sono tutti innocenti i personaggi che affollano le pagine, anche quando ex mercenari, ladri, traditori, perché il giudizio non è pronunciato. È innocente il narratore raddoppiato nel suo ego/tu passato: la scrittura di Tomassini s’incammina lungo la via crucis di una redenzione mancata. Gli ultimi sono gli ultimi e non saranno consolati. Estremo realismo e barocca ridondanza. Si affacciano generazioni di perdenti e maledetti, dai Miserabili all’ubriacone Marmeladov in Delitto e castigo, che ha uno sguardo lucido sulla realtà così come è:  “bisogna bene che ci sia per ogni uomo almeno un posto in cui si abbia pietà di lui!”. “Proprio per questo bevo, perché in questo mio bere cerco compassione e sentimento… Bevo perché voglio soffrire il doppio!”, giù giù fino al Jean Genet di Nostra signora dei fiori

La giovane non si unisce alla nebbia etilica di uomini e donne dei giardini, non ne ha bisogno, è empatica per carattere e per destino, è sincera, coem per una missione, fino all’estremo, all’autolesionismo. Altri si danno compulsivamente all’alcol per avere una paradossale lucidità disincantata e definitiva sul “segreto deposto all’origine di tutte le cose, del dolore, della grazia, degli errori, delle croci assegnate per ognuno, anzitempo. Per ognuno.” 

Vodka siberiana. Lettere epiche e alticce. Tra i migliori romanzi (non) usciti nel disgraziato anno 2020. 

L’originale è uscito sul blog letterario La poesia e lo spirito il 16 gennaio 2021

Su Vodka Siberiana: Uno spargimento di vita.


Di Andrea Ponso

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Andrea Ponso, poeta. Dopo la laurea in teoria della letteratura a Padova e il dottorato di ricerca in lingue e letterature comparate (Macerata), si è dedicato agli studi teologico-liturgici all’Istituto di Liturgia Pastorale di S. Giustina (Padova). Ha fatto parte per molti anni del comitato scientifico del Monastero di Camaldoli.

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Molti sono convinti che la misericordia sia qualcosa di dolciastro e
buonista – una sorta di modalità del “comportarsi bene” in senso
moralistico e spesso astratto, cioé rivolto ad un “prossimo” sempre più
addomesticato e a volte addirittura tiranneggiato dalla nostra idea di
“bontà” e dal nostro presunto sapere cosa sia meglio per lui.
Eppure, anche dal punto di vista etimologico, la misericordia è ben altro: la
sua radice greca indica il mostrare le viscere, l’esporre la propria debolezza
e vulnerabilità come spazio per una eventuale condivisione; si tratta quindi
di un ex-porsi, di un porsi fuori di sé, a rischio quindi, e continuamente in
preda al pericolo di venire colpiti proprio nei punti più teneri e vitali. Se
guardiamo invece alla radice ebraica troviamo l’utero: qualcosa che
accoglie e porta dentro una vita in potenza della quale non può sapere e
prevedere nulla – sarà buono, bello, crudele, assassino? Non è dato
saperlo; inoltre, come accade con la nascita, la misericordia, in questo
senso, è sempre un lasciare essere, un lasciare andare e un distacco come
atto d’amore: l’assimilazione, il non voler lasciare andare la vita di cui ci si
prende cura, è un atto che lo stesso Talmud pone tra le azioni negative,
riportando come esempio simbolico il cuocere nel latte della propria madre
l’agnello.
La scrittura di Veronica Tomassini sembra collocarsi pienamente in questo
contesto e in questa pratica misericordiosa che confina sempre anche con
una paradossale e dolcissima crudeltà, anche dal punto di vista stilistico:
essa, letteralmente, espone le sue viscere, brandelli di carne ancora viva
messi sulla carta come si fa dal macellaio: per fame – e la fame non pensa
allo stile ma ha un suo rigore stilistico innegabile, obbligato. Si tratta,
infatti, di lacerti, di “lettere” che, pur rimanendo in una dinamica in
qualche modo circolare – missive che la protagonista scrive a se stessa in
momenti diversi del tempo – hanno la sorprendente capacità di abbracciare
ogni altro personaggio, senza mai ridurlo alle proprie misure, senza mai
costringerlo nel cerchio del suo sapere ma, piuttosto, nel passaggio
accidentato e asintotico che è il ritmo stesso della scrittura e dell’esistenza;
sembrano lettere anche nel senso alfabetico e singolare del termine: ogni
componente della parola viene spogliata dal rigore del grido, d’amore o
disperazione o, meglio, d’amore e disperazione insieme – come se la
parola ritornasse alla sua grafia, alla sua immagine quasi geroglifica senza
tuttavia perdere la comunicatività bruciante del discorso. E c’è un dolore, e
non ci sono gerarchie del dolore perché il ventre di misericordia non
giudica e non può arrogarsi il sapere di chi accoglie nella sua trama, nel
suo tessuto uterino di scrittura.

L'immagine può contenere: una o più persone, il seguente testo "VERONICA TOMASSINI TOMASSINI Voiker ŠIBERIANA LETTERE EPICHE E ALTICCE"


Chi si manifesta, chi si ex-prime, dovrebbe essere aiuto a se stesso in un
senso ben preciso che ha sottolineato Levinas a proposito del volto e,
appunto, delle sue “espressioni”: “chi si manifesta porta soccorso a se
stesso. Egli infatti disfa ad ogni istante la forma che offre”, sfuggendo così
alla fissazione dell’unico volto e dell’unica espressione, passando dal
giudizio all’etica, dall’idolo alla vita, dalla banalizzazione alla complessità.
Non si tratta di scrittura romanzesca, non si tratta nemmeno di scrittura
poematica sul modello dei poemi in prosa novecenteschi: la sensazione
spaesante è quella di trovarsi nel mezzo di uno spargimento di vita –
potremmo prendere in prestito, seppure in senso meramente antropologico
e simbolico, la figura del logos spermatikos – e allora ciò che sembra
dissoluzione di ogni forma diventa seme generativo di forme e di
esperienza: esperienza e forma come evento, cioè come in-forme, come
potenza in atto e, quindi, in-potenza e speranza disperata.
Così, anche in questo senso, sarebbe valida la metafora dell’utero di
misericordia: in senso femminile come capacità di ricevere e generare, e in
senso maschile come dono di nuova vita. Come se la protagonista volesse
ridare vita, letteralmente, a se stessa nel tempo passato e viceversa – e con
essa ridare esistenza a tutti i personaggi e i momenti che ha incontrato.
Nella tradizione messianica si dice che nemmeno un frammento, nemmeno
una cellula sarà risparmiata dalla salvezza.

COME LA TOMASSINI È TORNATA AL SELF-PUB

di Elisabetta Cipriani

Torneremo al samizdat, perché no. Ciò che è bello e vero e importante tornerà a circolare clandestinamente, con buona pace dei trucchi dell’editoria, dei roghi di ogni psicopolizia bigotta, dello scialo di bava pavloviana di una critica servile e politicamente corretta. Veronica Tomassini in questo è stata profetica, decidendo di autopubblicarsi, riprendendosi la libertà e il rischio di scrivere per poi lanciare il proprio messaggio in bottiglia, a sfida dei marosi.
Sostiene Dostoevskij in “Delitto e castigo” che alle volte sia dato incontrare persone per le quali proviamo istintiva fiducia, prima ancora che sia stata scambiata una sola parola. Ma c’è una fraternità fatale persino tra coloro che non si sono mai visti e hanno scambiato solo poche, essenziali battute d’intesa. Una simile fraternità – lasciamo dire ‘sorellanza’ a chi non sa cos’è un essere umano – mi lega a Veronica Tomassini, che non conosco eppure oso affermare di comprendere.

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Leggere “L’altro addio” e “Mazzarrona” è stata un’agnizione. I suoi uomini dell’est, i suoi spostati, il suo spasmo per la redenzione e il suo tormento avevano un analogo marchio impresso nella carne.
Ma chi è la Tomassini, questa ragazza fragile eppure indistruttibile, questa scrittrice che respira l’indole tragica dei russi, la loro aria assiderata e ulcerante? Una ex candidata
al Premio Strega, appena un paio d’anni fa con “Mazzarrona”, che ora decide di fare da
sé, di tornare al punto zero della visibilità, giacché solo l’invisibile è libero. Solzenicyn
aveva una sola poetica, il gulag. Tomassini ha una sola poetica, il diseredato. Il balordo,
senza alcuna apologia. Solo testimonianza. Come Solzenicyn ha testimoniato l’inferno concentrazionario, Tomassini attesta la geenna dello sregolamento, la deboscia dei perduti: la prima generazione di immigrati dall’Europa Orientale, esuli alcolici di una distopia realizzata. Polacchi, ucraini, balcanici, grotteschi come personaggi di Kusturica epperò dannatamente reali. Memorie di sbronze, di sfasci e tracolli, di umiliazioni, di sottopassaggi “luridi come orinatoi” che squadernano dostoevskijani sottosuoli. Il tutto filtrato da una voce narrante straniata e inerme, che su quella umanità si piega, si prostra in gesti di autodistruzione e angoscioso soccorso. La stessa essenza della sua scrittura ha questo etimo oblativo, è una scrittura epistolare; e la scrittura epistolare, la lettera, è necessariamente apertura all’Altro, offerta di sé. La Tomassini ha questo modo incantato di scrivere, di metter fuori le parole in una ridondanza salmodiante che scava la realtà, non solo la rappresenta. Sono lacerti di illuminazioni di una Rimbaud che non ha mai lasciato la provincia, che ha scambiato l’Africa con la Siberia senza mai visitarla, però conoscendola biblicamente. E in questa intimità amorosa riscatta il mare di melma in cui si inabissa:
“Era una conversione, lo sai? Questo Dio era sempre più vicino. Ma non dove pensavi di
trovarlo, non nell’irreprensibilità. No. (…) Che non sapevi ancora ma avresti chiamato
un giorno persino quel caos, misericordia”.

Ecco, Tomassini sceglie di condurci in simili periferie esistenziali senza pagare dazio alle regole dell’editoria, che costringono a spacciare storie edulcorate in stili precotti,
obbligano il difforme in camicie di forza e non credono all’impossibile perché hanno della realtà una concezione meschinamente mercantilistica. Chi voglia accompagnarla in questo tour dantesco dove le stelle son rare e nebbiose e la burella pare non avere fine le scriva direttamente, ché la letteratura autentica non è mai stata (a maggior ragione non è più) un volume patinato in vetrina ma un intreccio di corrispondenze e un manoscritto pericoloso che passa di mano in mano; una consegna, e un riconoscimento.

L’originale è uscito sulle pagine del quotidiano La Croce edizione del 14 gennaio 2021

Vodka Siberiana: una danza ipnotica e polifonica, confusionaria, slava.

di Mauro Garofalo

Cara Veronica, mi permetto di mandarti una lettera qui.

Ci tenevo a leggere il tuo libro, non riesco a farne recensione occupandomi io di ambiente, ma. “Sangue di cane” mi ha sempre ‘chiamato‘ e così questo tuo Vodka. Da lettore, in tempi di semplificazione, il tuo raccontare a sbalzi, il continuo cambio di registro, mi ha fatto ricordare l’amata Clarice Lispector, per certi versi anche Anna Maria Ortese. Credo che il fatto di essere understatement (come dicono gli anglosassoni) sia sempre bello e faticoso. Fatto di alto e bassi a cui, di fatto, non ci si fa mai troppa abitudine. Eppure c’è una grazia e uno stile, nella Vodka, la scelta del tu così ‘inabituale’, personaggi tratteggiati a puntini, gli slavi e i perdenti, la scelta dello stile senza virgolette, Terni, l’Italia minore, il passato remoto coniugato al metanarratore, e il continuo bellissimo richiamo ai “sopravvissuti” ma a cosa?, ci si chiede. Senza che, per fortuna, vi sia mai risposta. Stucchevole è la protervia più d’ogni cosa, oggi. Così la necessità di didattica educazione che in molti social imperversa, i perdenti coi perdenti, i vincenti idem e viceversa. Ma che cos’è vincere, e cosa perdere, oggi? Cosa vale la pena? E’ un continuo rimandare domande questo tuo scritto, qualche tempo fa ho scoperto il doppio termine visage/paysage, e così sono i tuoi personaggi, perdenti di un mondo estinto (i paesi satelliti dell’ex URSS), viventi oramai ridotti dalla vita a emaciati spettri. Si segue uno squarcio temporale a volte faticoso, le elegie duinesi, l’uso di termini forti – “puttana d’Albania” – e lo stesso tutto svela indizi di eternità, tutto è metafora interiore, ha cose da dire, e le dice: “Ho fatto quel che ho potuto, e hai perso” – questa vena impietosa, questa verità senza finzione, è preziosa, soprattutto in questa contemporaneità mediata, spesso mendace, fatta di apparire più che essere, uomini e donne vengono mostrati nella loro semplice smania di vivere per due soldi, la vergogna esibita che provoca e contemporaneamente dispone all’obbrobrio verso se stessi, soprattutto. E c’è caos primigenio poi, il mondo per come va, a salti appunto, singhiozzi di vita. Mi è sembrato in alcuni casi di leggere sai cosa una continua danza sufi, che vorticasse su se stessa, di nuovo, i balli tzigani, Gogol e i russi, una danza ipnotica e polifonica, confusionaria, slava. Credo di qui tu abbia avuto l’intuizione del titolo, forse, ma che ne so io. Il testo è asincrono, è vero, lo stesso mi ha interessato la violenza, questa tua creatività aurorale, fragile, come di chi è caduto nel fango e non sa rialzarsi: una ballerina dell’est, una nuvola, un blocco di cemento, una vergine, pozzanghere dopo un acquazzone, Sarajevo. Non c’è storia, è vero, in Vodka Siberiana ma dipana scorci, e la prosa è sempre elegante e sconcia. Potrebbe essere una formula nuova, metà romanzo metà epistola, metà poesia metà monologo teatrale. Il mondo capovolto, immaginifico, personale, alticcio, un mondo irreale fatto di un linguaggio singolo anche quando tenta di essere collettivo. Dici cose tremende con dolcezza, poi: e questo in effetti per alcuni potrebbe essere imperdonabile. Ecco, ho finito questa mia. Insomma a volte leggo il tuo cadere e, che dire, si cade un po’ tutti in fondo, solo che alcuni mentono. Ecco, tu no, continua a non mentire.

Grazie.

L’autore

Mauro Garofalo, Il fuoco e la polvere - Rai Scuola
Mauro Garofalo è nato a Roma nel 1974, vive a Milano. Scrittore, giornalista e fotoreporter, è autore di due romanzi, entrambi editi per Frassinelli. È titolare del corso di Scrittura del Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano, collabora con La Stampa Tuttogreen e tiene il corso di Storytelling alla Civica Scuola Cinema Luchino Visconti. L’ultimo suo romanzo è “Ballata per le nostre anime”, pubblicato da Mondadori, a maggio 2020.