di Giusy Capone
Sangue di cane;Il polacco Maciej, Feltrinelli; L’altro addio; Mazzarrona; Vodka siberiana. Lettere epiche e alticce: su quali temi si concentra la sua riflessione?
Il mio sguardo, più che altro, deraglia puntualmente, rovina dove gli altri lo tolgono. Dove per gli altri dimorano le ombre, per me comincia la luce. Quindi sono riflessioni sul filo di una umanità provata di solito, che indugia su luoghi scomodi, sulla porzione di mondo più ostile, se vogliamo. Mi interessa il momento in cui le nostre certezze riparano nell’imperscrutabilità del destino, mi interessa l’uomo nel momento della sua caduta, il bivio in cui mi sembra di sorprendere una qualche verità superiore e sovrana. Il momento in cui l’invisibile si autodetermina e promette ad ognuno la sua parte ultramondana, un biglietto per l’infinito. Siamo stati biologicamente forse concepiti dentro la grande assenza, il grande vuoto, la mancanza che si esplica nella risposta solo nel momento della debolezza, della fragilità, della tenebra che annuncia lei soltanto il suo contrario.
Il suo “Vodka siberiana” gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?
Domanda difficilissima. I rapporti umani sono l’incognita, enorme, sono ambivalenti, grotteschi, crudeli. Dipende. Procedono su strade carraie, mai su autostrade. Non ho alcuna idea di cosa siano i rapporti umani, nemmeno questo romanzo ne indaga le profondità. Soltanto ne prende atto, dell’elenco di pulsioni che lei mi cita nella domanda, nel romanzo si verifica la stoltezza o la straordinarietà dell’una e dell’altra (dell’ossessione, dell’attrazione, di una miseria morale che rinasce sorgiva simile all’araba fenice in procinto di diventare un miracolo), si aprono come un ventaglio, un’affascinante raggiera. Non c’è una questione etica, una domanda sociologica, o peggio psicologica, nel romanzo, in una sottolettura; non sarò mai nei miei scritti pedagogica o esemplare, al contrario. Nel romanzo, le pulsioni, le relazioni umane, succedono, di fatto, come la vita.
“Perché la creatura piange?”: è ineludibile il dolore?
Sì. Il dolore è al centro del destino dell’uomo. Della Storia. La Storia nella storia minima. Il dolore è una lente, è un bisturi, detiene la lucidità sferzante, apre la porta della conoscenza, segreta, da cogliere velocemente, appena un brano, quel poco che ci è concesso. Non è possibile ignorarlo, non contemplarlo. Salire sulla Croce per l’uomo di fede, contemplare il Viso eterno immutabile, riconoscere nei rivoli di sangue sulla fronte, nella contrizione, nel tenero Agnello sacrificato, il viaggio nella salvezza. Pauroso, terribile. Ma questo è.
Perché la creatura piange si chiedeva “Dmitrij” ne I Fratelli Karamazov (come scrive Davide Brullo, nella recensione a Vodka Siberiana, sulle pagine de Il Giornale, nda), perché? Nell’inesplicabile vuoto, o nel pianto inenarrabile, supplichiamo il Padre, Ciò da cui tutto è, tutto inizia e si completa. Il pianto come un vallo, un ponte, un attraversamento, per raggiungerLo.
Quanto sono politici i corpi dei derelitti che popolano le sue pagine? Quanto denunciano il crack morale occidentale gli alticci dell’est dell’Europa?
Sono corpi politici; sono il dito puntato contro una coscienza collettiva inesistente, sazia, pingue, involgarita. Posso testimoniarlo con fatti, uomini che morivano in una grotta assiderati, nella città in cui vivo, una città del sud; uomini che morivano in un parco, bevitori, senza tetto, nello sbadiglio generale di quelli che stanno dalla parte giusta. Morivano. Ricordo bene la disperazione, l’impotenza, a provare di salvarne uno si rischiava di impazzire per l’iniquità, lo spregio dell’indifferenza, la brutalità degli altri, distratti sempre, un passo più in là, sempre. Ricordo un bevitore, malato di cancro, dormiva in un parco, al freddo, faceva la chemio e poi andava a dormire in un parco, su una panchina. Sono diventata un’eretica, un’anticlericale, durante le omelie in chiesa, più di una volta, volevo balzare su, sulla panca, sull’altare e urlare: la salvezza è fuori da qui, non vi accorgete che c’è una guerra fuori da qui? Pontificate il vostro moralismo inutile, inapplicabile, ma Lui è fuori da qui, tiene la fronte barbone, lo solleva dai suoi escrementi, è fuori da qui.
Sono diventata un’anticlericale, la chiesa del Gesù rivoluzionario e scalzo non c’entra niente con le gerarchie ecclesiastiche e certi fasti offensivi.
Ex mercenari, ladri, traditori: è un romanzo catartico o redentivo? Serpeggiano intenti morali?
È redentivo, è la storia di un miracolo. Nella stoltezza, la storia di un miracolo. Erano tutti dei perdenti, ma hanno vinto, nella mia memoria, non c’è più nessuno di quel mondo, mi manca terribilmente. A volte penso: ma è esistito davvero? Dove sono andati? Moralismo: no, proprio no. Chi scrive, la voce narrante, è essa stessa la sacerdotessa del deprecabile.
L’originale è uscito qui:
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