Monthly Archives: December 2015

domande

Oggi è il secondo giorno senza farmaci. Ho smesso a Natale, a un anno più o meno dall’inizio della terapia. Dovevo regolare l’umore, antidepressivi su, quante storie. Diamo il nome giusto alle cose. Regolare le oscillazioni? Sono tornate. Non se ne sono mai andate. Oggi è il giorno della Sacra Famiglia. La mia l’ho persa e sto sempre a chiedermi le stesse cose, domande uguali, senza risposta, mai nessuna risposta. Ad esempio: c’erano gli estremi per tornare con lui? Aveva fatto il sacco e se n’era andato? Scappato? Avanti, ripeti: scappato. Potevo rimettere a posto le cose come sempre?

Cos’è accaduto veramente?

Nessuna risposta. Andai una sera da un tizio, in un magazzino verso la periferia. Pregai quell’uomo di risparmiarlo, di non rispedirlo in Polonia dentro una bara. Fu l’ultimo terrore. Eppure non del tutto. Lui per strada a Milano, in stazione, Porta Garibaldi,  vagoni morti, lui malato. In un sanatorio. Dio l’ha preso per i capelli mille volte. Dio si è mostrato a lui misericordioso mille volte. Il prossimo romanzo racconterà anche di questo. Del sanatorio. Di Sondalo. Del male. E spesso con le lacrime di tenerezza pensavo a lui di nuovo salvo. Ero sgomenta, ogni volta.

Ieri sera e stamattina ho pianto. Ieri davanti al camino, mentre mangiavo il mio piatto di lasagne. Ieri sera, con un telefilm americano in tv, c’erano dei cavalli che nitrivano e il mio cane in poltrona  rizzava le orecchie mosso da autentica curiosità. Stamani durante la messa, mentre si parlava di famiglia. E quando lui se n’è andato, pensavo alla mia piccola chiesa. Alla luce di quella casa. Sono tornata a casa mia. Le tende si sollevavano sui raggi del sole che provenivano dal mare, azzurrini, sopra l’orizzonte. Ho sentito l’odore di casa. Era un profumo di fiori. C’era un asse da stiro e una camicia ferma ancora sul collo. Il ferro poggiato. Una bottiglia d’acqua sulla mensola, una rosa rossa su un vasetto di ceramica. Scrivo perché le parole mi fanno compagnia, meglio che chiudersi in camera, stendersi sul letto, coprirsi fino 11111136_10205612530785674_3976569648298326409_nal mento e dormire.

storie in cui non succedeva nulla

Raccontavo le mie storie dal tempio, una volta. Quelli che mi seguono qui o nel blog de Il Fatto Quotidiano dovrebbero ricordare. Storie in cui non succedeva mai nulla. C’erano soltanto le mie vecchie, mi sedevo indolente, sulla solita panca, lasciancropped-vera2.jpgdo che le loro premure mi confortassero in un tempo che era perlopiù attesa o inquietudine. Il tempio aveva i suoi frequentatori, ne vedo pochi in giro adesso. L’ebreo che mi riempiva di regali, che diceva di amarmi, inutilmente perché non corrisposto, si faceva chiamare il cavaliere e voleva salvare tutti. Non salvava mai nessuno. Come me. L’ebreo ha trovato una donna. Finalmente. A saperlo le vecchie esulterebbero, a loro non andava giù che l’uomo con la barba si ostinasse con una giovane, ma mica tanto. Ero io giovane. Certo lo ero in proporzione. Le vecchie speravano che tornassi dal marito. Quale marito? Buone intenzioni, il mio destino in tal senso è irrevocabile tuttavia. Al tempio vedevo Fabio, suonava il piano, al liceo, lo studente più sensibile dell’universo-mondo. E finito a farsi di eroina et voilà. La sua compagna è morta. Le vecchie parlavano di queste piccole drammatiche vite. Nessuna di queste piccole drammatiche vite aveva una sua collocazione borghese, né prima né dopo. Nemmeno mio marito. E ho persino un certo pudore a  riferirvene. Il tempio ha ancora il suo leggìo. Non ci sono le vecchie. Sono giorni di festa. Dovrei tornare a raccontarle. Però mi manca la vita, la strada, ed è tutto quel che ha nutrito la mia scrittura. Temo di non aver più niente da dire, perché vivo sempre meno.

Mio malgrado ancora su Fabio Volo e su chi guarda il dito

E’ una questione che comincia ad annoiarmi a morte, eppure sono qui che torno a parlarne; ritengo per una qualche specie di giustizia precisare alcune cose. Pretesto un pezzo di Paolo Zardi nel suo blog. E se Fabio Volo fosse innocente, cita nel titolo in via ipotetica e provocatoria. Abbiamo mai detto il contrario? Scrivere mediamente è una colpa? No, per carità. Peraltro nel post, Zardi, si contraddice almeno una volta: quando osserva che non crede ai capolavori rifiutati dalle grandi case editrici e che piuttosto non arrivino manoscritti interessanti. Nel punto subito prima però cita il caso di “capolavori” rifiutati: da Primo Levi a Flaubert con Madame Bovary.  Scrive tuttavia: “Non credo alla favola del capolavoro rifiutato da tutte le case editrici perché troppo meritevole“. Quindi insomma mettiamoci d’accordo. Ecco lui non crede. Punto.

Vado oltre, mi preme spiegare. Di questa polemica all’incirca non me ne faccio nulla, se non perdere del tempo qui a scriverci sopra e come dice bene Fabio Volo lui fa cose, noi invece non abbiamo molto da fare evidentemente se pensiamo al suo successo. Lunga vita al tuo successo, amico. Libero ci chiama rosiconi. Penso al povero Stefano D’Arrigo, alla fine che farebbe se fosse ancora in vita. Rosicone, gli urlerebbero dietro gli accoliti dell’editoria che funziona, delle migliaia di copie di Volo, e meno male. Insopportabile ingiustizia, manipolazione, chiamatela come vi pare, soprattutto se governata dalle più spregiudicate conventicole, quelle con in mano il potere enorme della comunicazione su larga scala.

Siamo rosiconi. Tutto va bene, ma non confondiamo i piani per favore. Quando Fabio Fazio lo ingaggia come ospite fisso nel suo programma, noi micragnosi autori delle 800 copie ( a esser buoni) certo non esultiamo per Volo, non abbiamo questo privilegio delle grandi platee, al limite invochiamo il diritto a una giusta distribuzione del merito e delle opportunità. Quindi siamo rosiconi, ok. Ma quando sempre Fazio, dalla stessa platea, negli studi di un programma su reti pubbliche, reti che vanno avanti grazie anche al nostro contributo, per celebrare il suo amico lo paragona nientedimeno che a Italo Calvino, il suo ultimo libro “da centomila copie in tre settimane!!!!” alle Lezioni americane per una certa forma di resistenza (ma dove, ma chi) ecco in quel momento si commette una pericolosa scorrettezza. Si mente. Su cose serie, se per qualcuno ancora ha un valore bellezza, letteratura, talento. Qualcuno ci può credere. Le opinioni si possono indirizzare. Non è piacevole, ci si può ridere sopra forse, ma neanche tanto. Cioé di questa paraculaggine ci ridono solo loro. Bravi bravi. Chi ce l’ha con Fabio Volo, ma chi se ne importa? Dico solo: sono registri diversi. E tanto deve essere distinto. Sapete quante copie, milioni di copie vendono i romance book, le collane di Harmony, le autrici, con un seguito considerevolissimo di pubblico? Numeri elefantiaci. La differenza è che negli Usa o in Inghilterra o non so dove ancora nessuno si sognerebbe di paragonare Brenda Joice o Diana Palmer alle sorelle Bronte  o a Jane Austen. Sì vabbé dicono i benealtristi di professione. Sì vabbé un corno.

Fabio Volo scrive, senza pretese. Confortando i vari “vorrei ma non posso” e trasformandoli in “posso eccome se posso”. Scrive. Non so  come io canto, senza una grande estensione. Con una vocina. E mi domando (la curiosità non ha malizia): chissà se la sua passione è uguale a quella dei noiosissimi fanatici autori delle 800 misere copie? Medio e grande talento implicano la medesima passione, il medesimo furor cieco? Immagino una gran risata dei benealtristi di professione. Mi intesto l’ennesima battaglia persa: la Resistenza ai benealtristi. Difendo la bellezza, la capacità e la libertà  perlomeno di distinguerla dal resto.

Un dandy chiamato Enrico Dal Buono

Del suo romanzo d’esordio ne stanno parlando moltissimo, “La vita nana” per Baldini&Castoldi. La vita nanaForse anche perché Enrico Dal Buono, classe ’82, ferrarese, destabilizza il tedio consapevole dell’intellettuale di riferimento. Immagine quella di Dal Buono affatto consolatoria. Con questo aplomb un po’ da bello e dannato, da honnete homme dei nostri anni anonimi, ha conquistato subito parterre trasversali, salotti bene e pagine di copertine eccellenti, salvo accorgersi che la sua ironia è la sua cifra stilistica e la scrittura un tam tam incessante, che assedia il lettore e un paesaggio grottesco, visionario, un universo terrificante e circense insieme, retto da un’ enclave di piccoli uomini, artefici della Storia. Enrico Dal Buono è il borderline con una tunica turca e una fascia in vita. Avete presente? Nicolai Lilin lo definisce un filibustiere pieno di brillante ironia.

L’ho intervistato:

Enrico Dal Buono, ogni scrittore ha la sua ossessione, che viene chiamata poetica, puoi ammettere la tua?
Vorrei andare in paradiso, ecco la mia ossessione. Anche se non ho la minima idea di che cosa possa essere. Più o meno scrivo solo e sempre di questa roba.
Ami la letteratura russa, in cosa ti ha influenzato?
Enrico Dal Buono

Enrico Dal Buono

Influenzato è la parola giusta. Perché è una letteratura assolutamente malata, febbricitante. Come quando hai la temperatura corporea a 39 gradi e vedi San Pietro che picchia un bambino. Nei miei autori preferiti, Dostoevskij in testa, i personaggi sono capaci dei più alti slanci mistici e delle più grosse porcherie. E’ l’effetto Stavrogin, protagonista dei Demoni. Non penso, tra l’altro, che sia una prospettiva arbitraria. Penso piuttosto che sia un paradosso insito nell’essere umano. I russi l’hanno estremizzato, reso più evidente. E io cerco di fare altrettanto, col materiale che mi ritrovo in mano nell’Italia del 2015.

C’è stato un momento in cui hai capito che la scrittura poteva diventare il tuo destino?

La scrittura come destino è una cosa grossa. Anche se lo fosse, va riconquistata ogni volta, in ogni parola che scrivi. Posso dirti però quando ho capito che la lettura sarebbe stato il mio destino. Avevo 18 o 19 anni, la sera prima mi ero preso una sonora sbronza e mi ero appena fumato una canna sulle mure medievali di Ferrara.

Dal Buono

Enrico Dal Buono scrive per Vanity Fair, Marie Claire, La Repubblica. Docente di scrittura creativa all’Accademia di Belle Arti di Milano.

Mi viene la nausea, poi un attacco di panico (uno dei primi). Allora prendo dalla tasca del cappotto l’Anticristo di Nietzsche e inizio a leggere. Dopo un po’ mi perdo nei pensieri di quell’altro scoppiato e non penso più ai miei, di pensieri (che nello specifico erano: “morte, follia, colpa, vomito”). Da allora ho capito che l’entusiasmo per le idee altrui è terapeutico.

C’è molta attenzione intorno al tuo romanzo “La vita nana”, malgrado gli stati generali dell’editoria non siano i più illuminati…
Se qualcosa non si illumina perché magari c’è blackout o non pagavi le bollette, si può sempre appiccare un incendio. Sono arcistufo di tutta la mia generazione, che si piange addosso. Le cose non sono piovute dal cielo per nessuno, nemmeno per le generazioni precedenti. Se vuoi davvero una cosa, se hai il talento per prendertela, vai lì e te la prendi. Bussando e ribussando, sfondando la porta a testate o dandole fuoco, non importa. Se non s’illumineranno vorrà dire che saranno morti e arrivederci ma c’è sempre qualcuno che sopravvive e che raccoglie la staffetta. L’uomo ha bisogno di parole e di idee, questo bisogno ci sarà finché ci sarà l’uomo.
Sei felice (domanda fondamentale)?
Anche se lo fossi non potrei ammetterlo. Poi gli dei si incazzano e ti puniscono. Vado a momenti, come tutti. In certi momenti forse sì, lo sono. A volte capita anche quando scrivo e le parole vengono fuori da sole una dopo l’altra per qualche pagina e intanto senti che stai facendo la cosa che da senso alla tua vita. Poi magari vai a fare la spesa, torni a casa, rileggi, e ti rendi conto di avere imbrattato Word di cagate.

 

il viaggio

Sono partita per tornare in via dei Penitenzieri. Nella Chiesa della Divina Misericordia, quel che accade è sempre molto forte, mi induce al pianto, a inginocchiarmi davanti alla tela immensa di Gesù così come apparso a Suor Faustina Kowalska. GesùA Roma non mi aspettava nessuno, nessun uomo o nessun avvenimento mondano. Mi sembra sempre più interessante la circostanza: partire e tornare senza che qualcuno mi aspetti o senta la mia mancanza, eccetto mio figlio (forse), i miei cagnolini, i miei congiunti. Niente febbre, abbracci disperati, aneliti nutriti dalla distanza. Niente. A Roma la gente mi sorride, congiunzione molto rara, non ci sono abituata, al sud la gentilezza è scambiata per dabbenaggine o stranezza. Meglio lo sguardo basso al limite, o cattivo. Ho camminato moltissimo, in via della Conciliazione c’era l’esercito, i soldati con i mitra. San PietroMa ho pensato: chissenefrega. Io sono qui. Ho raggiunto la chiesa, poi il canto delle suore si è alzato teneramente raggiungendo da parte a parte il mio spirito provato. E lì credo che ve ne fossero molti. Volevo tornarci e ci tornerò ancora. In piazza Risorgimento, studenti e turisti consumavano  un pasto frugale seduti sulle panche o all’ombra dei chioschetti. La sera a Trastevere ho comprato un vestito desiderando che mi si ammirasse, chi non saprei, è il mio modo infantile di procedere.Veri Roma Era il mio compleanno. RomaNon ricordo quanti anni ho. Dovete credermi. Non lo so. Il pomeriggio sul lungotevere la luce si spalmava maestosa sui palazzi, dorati fino all’imbrunire. Non ho bisogno di altro, non avevo bisogno di altro: sentirmi felice e estranea, felicemente sì. Con quel solito sussulto improvviso veloce: ma sono a casa, spaesata e a casa.