La storia di un’ossessione – Slang.

Conoscevi l’alfabeto dei tossici, già a nove anni. Avevi letto il diario di Christiane Felscherinow, eri stata svezzata. Bisognava da allora che si conformasse il terrore alla verità, ma la verità era di una razza diversa. Non era la verità immacolata.

Trip. Scimmia. Sbrego. Quartino. Robba. Con la doppia, detto alla maniera dei tossici del sud. Non ricordo come Christiane chiamasse l’eroina. Semplicemente, “ero”. Mi guardo allo specchio, quando vi riferisco. E devo usare la seconda persona, perché devo osservare. Devo devo devo.

Avevo un caschetto di capelli lucidissimi, bruni, temevo i giostrai, ma raccontavo ai compagni del cortile del rione popolare che ero nata in una famiglia di zingari. Non esiste la parola: zingari. Non indica un’etnia, non per i rom che ho conosciuto da adulta. Credo di amarli. Apolidi per sempre. Ma questo è un altro discorso.

Dopo aver letto il diario di Christiane, giocavo a fare la drogata, usando le matite di scuola come una spada, la siringa di insulina. I tossici del sud la chiamano “pera”. Non era la premessa di una volontà pia, era la deriva, la curiosità malata che mi abitava, cosicché non volessi salvare, ma capire. O prima ancora: imitare.

Il musicista di jazz del romanzo di Evan Hunter, “Aria chiusa”, si faceva di eroina. Farsi: nel gergo. Mi sembrava impossibile che circolasse roba ad inizio secolo. Ingenuità. Anche Billie Holiday si faceva, per questo calzava i guanti lunghissimi dentro cui nascondeva le deliziose braccia d’ebano. Le braccia ferite dalle piste. Il gergo. Le piste sono il sentiero dei buchi sulla pelle. Questa forma di sapienza avrebbe concorso al disegno finale. Il disegno finale è il destino di una donna avvinto al destino dei molti o dei pochi, e non è poi una gran differenza, giacché c’è l’identico sottile abbaglio a condurci, riservandosi l’immane non detto, la locuzione suprema soltanto alle ultime battute, sul ciglio, vi annunciavo, della meraviglia o anche detto: impronunciabile disvelamento.

Leggevo Carlo Grimaldi, i suoi sbattimenti al Ticinese, al San Gottardo. I movimenti di fumo. Il nero da Kabul.

I viaggi lisergici. L’India. Le casacche di iuta. I poeti della beat.

Pose.

Parco Ravizza. I ricetta. Le borse intrecciate. Si formava un pensiero, così. Un’idea del mondo, il mondo faceva paura. La stessa paura si misurava con l’eccitazione, di una specie ancora sconosciuta; mi paralizzava dinanzi al carrozzone dei giostrai. Eppure la medesima paura non aveva potere sulla seduzione, tra la seduzione esercitata dai giostrai e la paura, vinceva la seduzione.

Ma questo dicevo è un altro discorso.

La curiosità turbata nel tempo assumeva le forme di sentimenti prossimi, il tentativo di comprensione, che nelle vette evangeliche si chiama Misericordia. La pietà, suo simile. La compassione.

La perfettibilità dei sentimenti nascenti non coincideva con il paesaggio sgrammaticato, il disordine, la malagrazia. Malagrazia nel dialetto del sud. Come era possibile? Eppure lo era, l’inconciliabilità era ancora una porta da aprire.

Leggendo il diario di Christiane le suggestioni erano profonde, attenevano a un cielo estremamente supplice, pesante, di grafite. Il pallore nei volti degli adolescenti erano terribili invocazioni, simili a preghiere rotte dal pianto. Ma tutto si compiva nel silenzio, si strutturava tacitamente la poetica che sbandava verso la sconfitta, una apparenza mai sostenuta da ragioni da cui non ne scaturisse l’impensabile. Un miracolo. Una conversione. La porta che si apre, come un velo fragilissimo e perlaceo sollevato dal vento.

Il vento dello Spirito.

Le letture guastano l’idea del mondo, non che sia fondamentale avere un’idea del mondo, come se contasse averne di certezze di solito blande, franano dinanzi all’eternità sapete. Le letture confondono. Perdi la lucidità rispetto a quel che vedi, i volti si sommano, i connotati si inseguono fino a fondersi, un magma stupefacente, diventano personaggi letterari. Mary che si faceva di ero sembrava l’Andreina di Moravia, bella e bianca e perduta sul lungofiume. Non riesco a trovare corrispondenze con i personaggi di Hlasko. L’ubriacone che si ammazza per un abbonamento mancato. Un taglio di rasoio. Kuba impiccato ad una corda perché non smette di bere. Il medico cinico e socialista degli anni di Gomulka si auspica che qualcuno almeno lo faccia per amore prima di squartare la vescica di un alcolizzato.

E poi ci sono gli angeli terrei del Bahnhof di Berlino.

Era la preghiera laconica a sovrintendere le suggestioni future.

Detta così, puoi persino perdonare.

Non sai chi devi perdonare, tuttavia.

Inciampando ad ogni passo, i ricordi non consolano mai, non disvelano. Hanno piuttosto l’odore acre della liscivia in un condominio popolare.

Come in un racconto di Hlasko, la memoria staglia una campitura tremolante, un tremore isterico che si inerpica nel crepuscolo. La provincia è mogia, viscida direbbe un personaggio di Hlasko. E tutto sembrerebbe morte, la fine di qualcosa.

E forse lo è.

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