Monthly Archives: August 2023

La storia di un’ossessione – Brillante oscenità.

Se oggi dovessi restituire il rimpianto in una forma precisa, maneggiabile, quasi una statua, un’edicoletta votiva da rimirare con tristissimo sospetto, dentro infilerei la riproduzione di me medesima così come io davvero possa presentarmi alla vita e non saperlo, se non perché qualcuno, un giorno, riferirà il colore dei miei occhi, e non lo farà. Erano i libri ad avermi raccontato in anticipo una vita, non credo fosse la mia, no, mai, malgrado abbia tentato di avvicinarla, con una strana curiosità mista al terrore. E se lo fosse davvero la vita? La madeleine della medesima affiorare da circostanze non esattamente gentili o profumate. Leggendo Miller, Henry Miller, da ragazzina, avevo inteso davvero ben poco, se non una vaga eccitazione infusa da pagine di brillante oscenità. Nondimeno, adesso, in cui tutto appare una nitida ricapitolazione di uno spasimo perduto nei millenni, vigile al suo stato di allerta, il mio vagito in anticipo, direi che sia possibile che io fossi un’idea affamata, una forma dedita a gettarsi smarrita nelle vicende, non conoscendo l’esito e il passaggio dall’una condizione di inconsapevole gloria e leggerezza alla pesantezza del filo a piombo chiamato esistenza consumata, in un modo o nell’altro; o anche: frequentatore del pianeta terra e suoi connessi. Con il provvisorio vessillo a cui promettere fiducia: la salvezza di qualcuno.

Nel più completo, incontaminato, disinteresse.

Alla fine dei sette anni biblici, l’Eterno mi ha liberato. E mi reggevo in piedi appena sorpresa, indecisa se esser in definitiva felice, di quale sostanza fosse incastellata una simile felicità non mi sarei chiesta nemmeno. Piegata per la mancanza assoluta di vigore, non ero che un’idea appunto, un’idea senza cibo direbbe un personaggio di Miller, negletti e infausti detengono verità tali da procurare indignazione. Verità che confliggono con l’idea affamata che portavo in me. Era la domanda. Il tossico alla fine dei sette anni biblici era salvo.

Non mi ispirava l’edificazione dello spirito contrito che finalmente giubila. Piuttosto la mangiatoia di sentimenti deteriori era lì, occhieggiava da qualche parte, cauterizzando l’insulsa mole di pulsioni demagogiche, ad esempio la bontà appuntata dalle cose del mondo, non necessariamente conforme a quanto di segreto sarà rivelato.

Deduco che le nostre ragioni non ragionevoli al cospetto della maestosità che ci è inaccessibile non siano utili se non per guadagnarci da vivere un giorno in più, rabberciare alla meno peggio quel che serve per coprire la distanza, da qui a laggiù. Laggiù è l’infinito o l’eternità.

Il destino. Parola che non può mancare nel dizionario di uno scrittore. In ogni romanzo ne enuncerà una forgia, una suggestione. Serve. A sentirsi inani con autorevolezza. Destino. Il mio comincia dentro le pagine di un diario.

Nomi che accompagneranno molti anni della mia vita. Christiane. Vera. Gropiusstadt. Bahnhof. Kurfustentrasse. Kurfustendamme. Babsi. Stella. Ufo. Detlef. Haus der mitte. Sound.

Lo slang degli eroinomani. Dopo furono solo perlustrazioni immaginifiche. Non credo si possa definire vita calpestata. Eppure sono viva. Non sono l’idea affamata, non più soltanto.

Ho procreato.

Dunque esisto.

I tossici che incontrai erano la somma ignorante di quel che avevo appreso sui libri. Tre, non di più. Libri sull’eroina. Ce n’era uno di Evan Hunter, “Aria chiusa”, fu una rivelazione trovarlo nella piccola biblioteca di mio padre. Musicisti di jazz, eroinomani. Uno lo era. Siamo negli anni Cinquanta, ma non ricordo esattamente, potrebbero essere anche gli anni ’30. Poi lessi la storia di Carlo Grimaldi, “Un lungo flash”. Eroina. Eroina. Eroina.

E quando sono finita nella piazza della mia giovinezza, gli eroinomani malfatti, poco edotti, morirono quasi tutti, non ebbi il modo di capire (ma cosa cosa dovevo capire?). Cercavano una verità? Nutrivano le loro vene dell’oppio di una qualche filosofia abbagliante, a mezzo tra boutade new age e rapide consultazioni di versi pop o altrimenti maledetti, ma irrimediabilmente pop.

E il gusto metallico in bocca? Era l’eroina?

Sembrava che il respiro mi si spezzasse a metà dello sterno soltanto a osservare il patibolo che era il giorno, e poi la notte, il susseguirsi di una precisone anfanante. Non era un delirio dietro l’altro? Una prova, la resistenza, gli inferni prefabbricati di Strindberg? I colori si smorzavano nella terra che vantava la luce delle solenni gouache dei grandi viaggiatori. Ed erano colori luttuosi piuttosto. Non palpitanti, sferzanti enigmi pregni di significati senza via di uscita, ma almeno sgargianti.

Una tavolozza cimiteriale, tradita da verdi opprimenti, bagliori infuocati e fatui. Il firmamento ardeva persino nel blu delle due del pomeriggio, in certi giorni d’estate.

Il tossico era salvo, ebete. Gagliardo. Mi ispirava pietà, una pietà scoscesa verso l’amarezza o nel ghigno nascosto per buona educazione. L’irredento ebete era salvo.

Perché lui? Perché si era infilato nel mio destino un insulso caprone? Perché?

Quale santità nel gesto può mai dimorare se alla fine della ruota del mozzo subentra l’untume risentito che indica l’irredento e sopprime un riso intinto nel disgusto. E sono solo domande, vedete? La vita alla fine rinfaccia soltanto le domande, quando si crede di solito che sia la stagione delle risposte in verità. E sono domande. Una raffica di insinuazioni talvolta se in noi non sia fiorito il bocciolo della fede. In qualcosa. Io spererei in Lui.

Il più bello delle creature.

Che fine ha fatto la ragazzina smunta seduta sotto i portici di una piazza, alle tre del pomeriggio?

Le tre del pomeriggio sono l’ora della tristezza inenarrabile. L’ho appreso in seguito, scritto e riscritto, agitata dalla propalazione verificata. Eccomi. Eccomi afflitta, stanca, sbattuta dalla tempesta.

Sconquassata, in una delle più diffuse traduzioni bibliche. E’ Isaia.

Eccomi. Sono la ragazzina, seduta sotto i portici di una piazza alle tre del pomeriggio. Sono una donna adesso. Non riconosco il mio viso. Contengo molte memorie. Non ricordo nulla.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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La storia di un’ossessione – Il dono.

L’ultima estate mi colse d’un tratto. Con allettamenti e possibilità, come le pioggerelline che anticipano brani di autunno. Diventerò adulta. E indosserò una maglia morbida, di lana, i jeans desiderati, gli stivali con la fibbia come le ragazze dell’ultimo anno. Erano i miei pensieri. Gli allettamenti. Il piacere non indagato di una cartolina sulla roccia. Un paesaggio, ancor meglio. Una casa bianca, il pergolato sovraesposto al vento di scirocco. Si ingrigiva in attesa di settembre, quando le nubi si concentravano sulla sommità, sporte verso le onde arroventate nel precipizio, il grigio si sommava al blu introverso, il blu di Prussia nella tavolozza dei colori. La mestizia che conforta, al riparo del sole fecondo di falde abbaglianti, attese e poi respinte, ogni cosa si sottomette al principio di repulsa quando raggiunge il parossismo dell’innocenza; scaglie vibranti sotto la cuspide azzurra e profumata di incenso, vorremmo, simile ad una rivelazione, gli arcangeli e Maria, il cielo che finalmente ci si mostra, allargando la maglia di tutte le grazie, dentro cui risalire ogni esitazione, piolo dopo piolo; assurgere, leggeri, liberi dal giogo che sconta nella mitezza la prova, il sacrificio e l’abbandono confidente. Ma non avevo idea di altro allora se non che avessi una età in cui la nitidezza imbatteva il tedio fosco dell’errore umano. Lo faceva in anticipo, nello sgomento improvvido, restavo. Lo chiamavo errore forse un po’ sbrigativamente, gettata mio malgrado e quasi subito nella graticola dell’impossibilità, del poco, della privazione che sarebbe tornata a indicarmi la sostanza di un destino. Destino ancor piccolo. Era l’ultima estate. Avevo diciassette anni.

La casa si ergeva resoluta sul picco della roccia, al di sotto il mare fremeva, ed era trascorsa la stagione e si erano consumati i fuochi fatui, così che ognuno potesse tornare a sperare, o vibrare, nuove seduzioni, durature e plumbee. Il liceo. Gli amici. Le feste. Avevo già perduto il meglio che doveva ancora accadere.

Ed eri tu Christiane. Ti eri infilata nella mia modica esistenza, persino inutile, perché ne modificassi i confini brevi. Gli accadimenti si piegavano al sentimento segreto, la pietà che rifulgeva percorrendo le vie della luce cristallina, nascosta al nostro sguardo, confermava la parola pronunciata nell’Eternità, perché io fossi, può darsi, lo strumento vacillante, la fragilità tanto voluta e per questo amata, la medesima incontrata anni dopo nel diario di Maria Valtorta, in cui il Figlio dell’Uomo mi educava nel senso della santissima nemesi e poi ancora nel diario di Sarah Young: A te ho donato la fragilità(…) Accetta questo dono, è delicato ma irradia una Luce splendente.

Eccomi rivelata. Non basta a guarire davvero. Non ero guarita quando finalmente tornai ad essere una ragazza? Eppure era finita la stagione e per sempre. Il tossico eroinomane era salvo. Trascorsi i sette anni biblici, fui liberata dalla seconda oppressione. Vedete, procedo gerarchicamente, l’esistenza di chi vi scrive fu suddivisa in molteplici oppressioni, perché riparassi all’ombra dell’Eterno, perché confortassi – nel contributo gracile – le piaghe e il pianto nel giardino dei Getsemani.

Era un diario, il diario di Christiane Felscherinow. E invece no, non semplicemente. Una pellicola mortale e incolore avrebbe avvolto ogni scelta, sorretta in una prima versione – la verità sbagliata – da un senso curioso, ipnotico e malato della debolezza, dell’inciampo, del vizio. Ma la pellicola mortale era lo scudo infuocato, la merlatura di berilli, la cinta di Zaffiri, che l’Eterno promette alla sposa abbandonata. Isaia libro 54.

Forgiata nel palmo della sua mano, diventai l’ostia. Consumata nei giorni biblici della mia giovinezza e quando pronuncio la parola giovinezza mi stringe al cuore il rimpianto e il laccio antico della costrizione, dell’abnegazione a qualcosa non più desiderata, il vuoto in cui lasciarsi cadere perché in una legge non riconoscibile, chiamata misericordia, l’orda dei penitenti vi fosse trascinata, non nell’imo profondo, tuttavia nelle alture celesti.

Io credo. Io spero.

Nella delusione amarissima, il calice di fiele, dovevo raffinarmi. Consumata dal luogo arso dall’ignoranza, le frescure rade, la terra divelta – scostante al germoglio o a aiuole di margherite – le ostilità dell’uomo tribolato, meschino; le mattine in cui aspettavo il tossico eroinomane davanti la porta del Sert. Ero anche allora l’ostia. Scarnificata, ne sarei uscita, privata di qualsiasi brama. Sparito il desiderio, la vita, qualsiasi circostanza potesse ricondurre alla comodità, all’appagamento, alla fortuità leggiadra di aver vent’anni o giù di lì.

Potevo salvare ancora qualcuno, ma non per conto di Christiane, il cui secondo nome è Vera.

Era l’ultima estate. Sedevo in una poltrona di vimini, nel giardino barocco di una casa di campagna. Davanti a me c’era un amico, forte e biondo, bello e prossimo. Si chiamava Nico. La nostalgia mi afferrava a ondate, subdolamente. Stavo per lasciare lui, la mia giovinezza, l’ebbrezza dei giorni a venire. Era un congedo. Non era il dettaglio avvertito, se non nel libro della vita.

Avrei dovuto lasciare tutto, una scelta vicina al dogma, alla perentorietà. Nico non lo avrei più rivisto. Parlavamo dei giorni e del futuro. E ridevamo. Era davvero bello illudersi di essere soltanto una ragazza.

E le feste private. E il mio bel visino. Bisognava deporre sull’altare ogni conforto. Avrei dovuto abituarmi alla sottrazione puntuale. Un refrain, la ciclicità del significato all’origine. L’origine era il cerchio.

Io sono l’alfa e l’omega.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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Noi poveri giù al Sud (Il Fatto Quotid.)

La città del sud in cui vivo è tornata nel medesimo ronzio. Il giorno dopo la dichiarazione un po’ cafona che ha raggiunto i pusillanimi con un sms. Il fedifrago che non sa mollarti e si dilegua con un messaggino. Vi piace la metafora? Il ronzio si concentra sulle panche divelte del centro storico, unte e imbrattate di guano. Il suq nauseabondo. Siedo con i venditori ambulanti, sono sinti, vengono da Noto. Gli anziani sono pochi e fanno spallucce. Ma quale rivoluzione? Stiamoci calmi, dice qualcuno. Ché tanto sulla soglia della morte, voglio dire, abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno. Nel senso, in dialetto: “cchi mi stai cuntannu?” (che mi stai raccontando ormai, traduco, nda). I vecchi tornano a casa, quando si fa sera, voltano l’angolo con i colli di mondezza e salutano un altro inutile giorno. Ed è sufficiente. Cosa facciamo? Vorrei urlare. Chi sono i miei sodali? Una donna appena più giovane, vive in borgata, spera con cuore acceso in un assalto armato vero e proprio. Inforchiamo roncole, manganelli. Spariamo, bruciamo il mondo? Siamo al sud, dobbiamo tornare dove niente mai cominci. Al sud. Il posto migliore dove lanciare i poveri, le disgrazie, la malarazza, la chiamano così i siciliani. Siamo noi? La sventura, la povertà. D’un tratto mi coglie un dissidio, piangere o imprecare: si sgrana nella mia homepage la foto luccicante del premier e della figlia, durante il volo privato (verso gli Usa?). La malarazza. La premier scrive qualcosa a proposito del camminare insieme, mano nella mano, verso il mondo, si improvvisa Prévert de la Garbatella; nel frattempo però sul medesimo mondo ha fatto già pipì (in concorso). Qualcosa di torrenziale. Poteva dircelo, noi credevamo davvero che fosse pioggia.

E siamo al giorno dopo. I servizi sociali sono un concetto misterico. E chi li ha visti mai? Ma ndo stanno? Non sanno come mettere insieme il pranzo con la cena, per dire; mò si devono occupare di una torma di miserabili? Per carità. Ne hanno a tonnellate da smaltire, pratiche marcite, passato presente e futuro incollato nell’identica inedia, messa a tacere in qualche cassetto che geme per la lunghissima degenza nell’inattività. E questi nuovi? Ultracorpi informati, educati a strane forme di speranza che passano per parole mai pronunciate ma assunte con coraggio rinverdito: ammortizzatori sociali; sussidio per la causa dignità o piccola libertà, ancor meglio. Il sindaco, leggo da qualche parte, è bloccato su un letto, pare abbia mal di schiena. Ma la sinti con cui siedo, senza sapere l’entità della sua rivelazione, sostiene di averlo visto ballare in un paesino, appena fuori Siracusa. Cassibile. Noto alle cronache per aver avuto un serial killer nei suoi annali. Bisognerebbe disseppellire le vecchie cabine telefoniche, per consolare il signor Meloni, sull’autenticità del povero: il povero deve telefonare da un telefono a gettoni, altrimenti non è povero. Ma tanto al sud non abbiamo voglia nemmeno di telefonare. A chi? Siamo tornati nel luogo dove non comincia niente. Ognuno nella destrezza che gli compete, l’antinomia della verità: una monta di sopruso e diffrazione della legge. Qualsiasi cosa sia confinante con la violenza, l’infrangimento del diritto in generale, ecco quello è il sud. Quello faremo. Quello è ciò che vogliono da noi. Cercheremo di fregarci l’un l’altro, cioé sopravviveremo. Torneremo a difenderci dalla brutalità di una solitudine geografica, sociale, politica, ammutoliti. Lasceremo il solito euro al fumatore di crack posteggiatore abusivo; torneremo nello stato di guerra che è il nostro senso civile del vivere. Stato di emergenza perenne. Ovunque giri lo sguardo: è guerra. Anche quando non si spara. E da noi si spara. Forse torneranno a farlo. Vorrei dire di no. Ma non ne sono sicura.

L’originale è uscito sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, edizione di mercoledì 2 agosto 2023