Se oggi dovessi restituire il rimpianto in una forma precisa, maneggiabile, quasi una statua, un’edicoletta votiva da rimirare con tristissimo sospetto, dentro infilerei la riproduzione di me medesima così come io davvero possa presentarmi alla vita e non saperlo, se non perché qualcuno, un giorno, riferirà il colore dei miei occhi, e non lo farà. Erano i libri ad avermi raccontato in anticipo una vita, non credo fosse la mia, no, mai, malgrado abbia tentato di avvicinarla, con una strana curiosità mista al terrore. E se lo fosse davvero la vita? La madeleine della medesima affiorare da circostanze non esattamente gentili o profumate. Leggendo Miller, Henry Miller, da ragazzina, avevo inteso davvero ben poco, se non una vaga eccitazione infusa da pagine di brillante oscenità. Nondimeno, adesso, in cui tutto appare una nitida ricapitolazione di uno spasimo perduto nei millenni, vigile al suo stato di allerta, il mio vagito in anticipo, direi che sia possibile che io fossi un’idea affamata, una forma dedita a gettarsi smarrita nelle vicende, non conoscendo l’esito e il passaggio dall’una condizione di inconsapevole gloria e leggerezza alla pesantezza del filo a piombo chiamato esistenza consumata, in un modo o nell’altro; o anche: frequentatore del pianeta terra e suoi connessi. Con il provvisorio vessillo a cui promettere fiducia: la salvezza di qualcuno.
Nel più completo, incontaminato, disinteresse.
Alla fine dei sette anni biblici, l’Eterno mi ha liberato. E mi reggevo in piedi appena sorpresa, indecisa se esser in definitiva felice, di quale sostanza fosse incastellata una simile felicità non mi sarei chiesta nemmeno. Piegata per la mancanza assoluta di vigore, non ero che un’idea appunto, un’idea senza cibo direbbe un personaggio di Miller, negletti e infausti detengono verità tali da procurare indignazione. Verità che confliggono con l’idea affamata che portavo in me. Era la domanda. Il tossico alla fine dei sette anni biblici era salvo.
Non mi ispirava l’edificazione dello spirito contrito che finalmente giubila. Piuttosto la mangiatoia di sentimenti deteriori era lì, occhieggiava da qualche parte, cauterizzando l’insulsa mole di pulsioni demagogiche, ad esempio la bontà appuntata dalle cose del mondo, non necessariamente conforme a quanto di segreto sarà rivelato.
Deduco che le nostre ragioni non ragionevoli al cospetto della maestosità che ci è inaccessibile non siano utili se non per guadagnarci da vivere un giorno in più, rabberciare alla meno peggio quel che serve per coprire la distanza, da qui a laggiù. Laggiù è l’infinito o l’eternità.
Il destino. Parola che non può mancare nel dizionario di uno scrittore. In ogni romanzo ne enuncerà una forgia, una suggestione. Serve. A sentirsi inani con autorevolezza. Destino. Il mio comincia dentro le pagine di un diario.
Nomi che accompagneranno molti anni della mia vita. Christiane. Vera. Gropiusstadt. Bahnhof. Kurfustentrasse. Kurfustendamme. Babsi. Stella. Ufo. Detlef. Haus der mitte. Sound.
Lo slang degli eroinomani. Dopo furono solo perlustrazioni immaginifiche. Non credo si possa definire vita calpestata. Eppure sono viva. Non sono l’idea affamata, non più soltanto.
Ho procreato.
Dunque esisto.
I tossici che incontrai erano la somma ignorante di quel che avevo appreso sui libri. Tre, non di più. Libri sull’eroina. Ce n’era uno di Evan Hunter, “Aria chiusa”, fu una rivelazione trovarlo nella piccola biblioteca di mio padre. Musicisti di jazz, eroinomani. Uno lo era. Siamo negli anni Cinquanta, ma non ricordo esattamente, potrebbero essere anche gli anni ’30. Poi lessi la storia di Carlo Grimaldi, “Un lungo flash”. Eroina. Eroina. Eroina.
E quando sono finita nella piazza della mia giovinezza, gli eroinomani malfatti, poco edotti, morirono quasi tutti, non ebbi il modo di capire (ma cosa cosa dovevo capire?). Cercavano una verità? Nutrivano le loro vene dell’oppio di una qualche filosofia abbagliante, a mezzo tra boutade new age e rapide consultazioni di versi pop o altrimenti maledetti, ma irrimediabilmente pop.
E il gusto metallico in bocca? Era l’eroina?
Sembrava che il respiro mi si spezzasse a metà dello sterno soltanto a osservare il patibolo che era il giorno, e poi la notte, il susseguirsi di una precisone anfanante. Non era un delirio dietro l’altro? Una prova, la resistenza, gli inferni prefabbricati di Strindberg? I colori si smorzavano nella terra che vantava la luce delle solenni gouache dei grandi viaggiatori. Ed erano colori luttuosi piuttosto. Non palpitanti, sferzanti enigmi pregni di significati senza via di uscita, ma almeno sgargianti.
Una tavolozza cimiteriale, tradita da verdi opprimenti, bagliori infuocati e fatui. Il firmamento ardeva persino nel blu delle due del pomeriggio, in certi giorni d’estate.
Il tossico era salvo, ebete. Gagliardo. Mi ispirava pietà, una pietà scoscesa verso l’amarezza o nel ghigno nascosto per buona educazione. L’irredento ebete era salvo.
Perché lui? Perché si era infilato nel mio destino un insulso caprone? Perché?
Quale santità nel gesto può mai dimorare se alla fine della ruota del mozzo subentra l’untume risentito che indica l’irredento e sopprime un riso intinto nel disgusto. E sono solo domande, vedete? La vita alla fine rinfaccia soltanto le domande, quando si crede di solito che sia la stagione delle risposte in verità. E sono domande. Una raffica di insinuazioni talvolta se in noi non sia fiorito il bocciolo della fede. In qualcosa. Io spererei in Lui.
Il più bello delle creature.
Che fine ha fatto la ragazzina smunta seduta sotto i portici di una piazza, alle tre del pomeriggio?
Le tre del pomeriggio sono l’ora della tristezza inenarrabile. L’ho appreso in seguito, scritto e riscritto, agitata dalla propalazione verificata. Eccomi. Eccomi afflitta, stanca, sbattuta dalla tempesta.
Sconquassata, in una delle più diffuse traduzioni bibliche. E’ Isaia.
Eccomi. Sono la ragazzina, seduta sotto i portici di una piazza alle tre del pomeriggio. Sono una donna adesso. Non riconosco il mio viso. Contengo molte memorie. Non ricordo nulla.
© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature
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