Torno a certi inferni, ora che tutto par congiurare verso la lunga notte. Sono giorni molto difficili, credo che a morir prima si sia concluso un bell’affare. E penso ai miei amici. Ieri, torno a assidermi, una piccola sventurata regina delle periferie, indiscussa, assidermi davanti all’insulso coraggio di chi intenda sopravvivere alla stregua di una militanza. E sarei io stessa la sventurata. Sopravvivere, seduta sullo scanno, da cui osservo il male esplicarsi in una estesa campagna brulla. I bambini giocano, malgrado il mondo sia frequentato da idioti o perlopiù giannizzeri, un seguito di ordini mefistofelici connotano la vera natura del delirio, l’ottusità, prevedibile, che si replica. Il male si esplica proprio adesso, adesso negli occhi vuoti e tondi di stralunati per eccesso di perfidia o alacrità al contrario, accidia criminale, di sguscianti soggetti che non riesci a chiamare umanità, null’altro, eccetto pochi, i prescelti, i chiamati, e potrebbero appartenere a un ordine di creature diverso, testé mondato da una scoperchiata era di terrificanti rivelazioni.
E’ pomeriggio, l’ora della merenda per i bambini che giocano in cortile tra mondezza di amianto e sacchi di plastica con rifiuti sordidi, lische di pesce, strafottente ordinarietà. Donne al balcone fissano nulla, una distesa di cemento e mausolei inutili, congetture di una urbanistica malevola, con uno strano senso dell’ironia. Case popolari dinanzi a mura issate come baluardi di antiche fortezze.
Qual è il senso?
I bambini ridono. Ridono di un mondo specioso e infame che non vuole preservarli e non lo riconoscono.
Vorrei provare pietà, qualcosa di simile a un sentimento di quella vecchia guardia chiamata umanità. Eppure ricordo la terra in cui sprofondo simile al cratere dell’Ade, la ricordo appena un giorno prima, è la stessa che regala cespugli di gelsomini e la zagara sul davanzale. E’ la stessa da cui prova a volare un piccolo storno, muliebre, il cuoricino batte. Non sono riuscita a salvarlo e ho pianto due giorni. Penso mentre realizzo un live dell’inferno, calpestio spicciolo, acciottolato, carta di stagnola. Siringhe conficcate su un legno marcio. Un cratere infilato nelle profondità, nella creazione inferiore, quella che serve gli empi, ma perché tutto conduca al fatto iniziale, si dice salvezza.
Ecco che il sole si nasconde, proprio quando mi guardo intorno verso inutili mausolei, il rumore insolente di una motoretta, sbuca da una stradina laterale, una grande nuvola si piazza dinanzi come un monito. Il vulcano lontano gonfia ferocemente il petto, in un lungo conturbante sospiro.
Provo a indietreggiare dinanzi al dolore primitivo, così ho in mente tutti, gli amici, i morti di overdose, visi fanciulli, risate innocenti, una spada infilata in vena.
Ho in mente una bambina, ero io? Leggo avidamente, pagina dopo pagina. Voglio sapere. Sound. Haus der Mitte. La più giovane vittima morta di eroina. Si chiamava Babette, è il titolo di un tabloid tedesco. Io ho soltanto otto anni.
A Berlino piove sempre. Gropiusstadt.
Leggo di nuovo. Christiane aspetta al Bahnhof. Indossa jeans molto stretti, deve cucirli sulle gambe, spesso, l’eroina è il mostro, le gambe sono secche, dure. Indossa scarpe con i tacchi. Ha tredici anni. Batte, con i pederasti della stazione.
Era troppo per me.
Guardo continuamente la ragazza in copertina, il titolo lampeggia di luci paurose, finte, fredde, come quelle dei sottopassaggi della metro.
“Christiane F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino”.
Era troppo per me.
Mangiavano muffin al cioccolato, Christiane, Babette, Stella, dentro una vasca piena di sapone e fuori pioveva e addosso avevano un quartino di ero, la roba saliva come una lava, bruciante, fino alla calma che esplode in testa, una specie di flash.
Era troppo per me.
La memoria è il muscolo dello scrittore, senza alcuna vanagloria ne prendo atto. Se perdessi la memoria, avrei perduto ogni identità, quante ne abbiamo?
Uno scrittore può averne molteplici.
Le perderei.
Sarei salva.
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