di Alberto Alberici
Di Veronica conosco le parole scritte in Sangue di cane (Laurana, 2010) e quelle che la sua voce regala in rete nelle foto animate e nella lettura di alcuni brani tratti dai suoi romanzi. Le prime e le seconde sembrano non provenire dalla stessa persona, eppure si legano ma come opposti, inaspettatamente. Sangue di cane è un romanzo che regalerei a tutti e che consiglio. La scrittura di Veronica mi ha colto impreparato e impressionato. Non ho mai fatto la conta di quanti sono gli scrittori a cui sono grato. In una ipotetica personale classifica direi una decina. Una decina più Veronica. Sangue di cane è in primo luogo un oggetto estetico. Pochi libri purtroppo lo sono, sovente le case editrici dimenticano questo aspetto. La fotografia in copertina, il color prugna diminuito, la quarta con un colore diverso ma appropriato al tutto, poi il primo piano a colori di Veronica che gioca a rimpiattino con il bianco e nero della ragazza in copertina. Hanno qualcosa in comune e va scoperto, sentito, forse un passato e un futuro legati dalla narrazione, aggrappati ad essa. Un oggetto d’arte da esporre. Una meraviglia fuori e dentro. Torno alle parole. Quelle scritte provengono da un posto prima del pensiero e sono come la vita, buone alla prima, senza possibilità di tornare indietro. Un inchiostro carico d’istinto che trae dalla poesia per getto d’impulso e diventa prosa nella cruda descrizione del reale. Un romanzo deve regalarmi almeno una frase da portare via. Da tenere in tasca. Una di quelle che a pensarci conoscevo ma non sapevo di avere, o una nuova al di fuori di me. Sangue di cane ne è pieno. Amo sottolineare queste frasi. Nel romanzo di Veronica ho smesso: troppe! Il libro è un pugno allo stomaco che ti piega, le cui vibrazioni imballano il cuore, salgono alla mente e qui scavano, creano un varco, poi penetrano mescolandosi al contenuto, estraendoti diverso. La scrittura prende e trascina. Veronica ha questo dono, insieme a quello di conoscere quando mollare la presa, liberare il lettore dall’apnea, perché è la sua e non per necessità narrativa. Le pause che arrivano al momento giusto, nelle quali il racconto si apre , sono quelle della sua esistenza. Non c’è artificio, il lettore lo sa, solo genuinità. Un miracolo. Ho invidiato quel polacco, per come è descritto, per l’amore ricevuto addosso, poi sono arrivato ad essere infastidito dalla protagonista, per quel suo procedere senza difese, incurante, senza remore. Uso un termine non mio”senza pelle”. Poi ci sono le parole dette da Veronica, da una voce che non diresti sua di donna, ma ancora di ragazza, e sono parole con un intercalare proprio, come somma di interruzioni, come fossero messe, inserite, in una realtà di sola pausa. Inserite in una pausa e non viceversa. Ogni singola parola proviene da un sospeso e solo alla fine chi ascolta comprende che sono un regalo, un medicamento per colmare quel vuoto concavo lasciato dal pugno nello stomaco. Ci aiutano a tornare alla forma precedente, lasciando a lei, l’autrice, tutto il carico di verità, dolore, inquietudine e schifo.
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