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Su Sangue di cane: le parole come la vita

di Alberto Alberici

Alberto Alberici, Castel San Pietro Terme (Bologna). Lavora nella moda. Scrive. Il suo ultimo romanzo è “Ero” (Minerva Edizioni, 2019)

Di Veronica conosco le parole scritte in Sangue di cane (Laurana, 2010) e quelle che la sua voce regala in rete nelle foto animate e nella lettura di alcuni brani tratti dai suoi romanzi. Le prime e le seconde sembrano non provenire dalla stessa persona, eppure si legano ma come opposti, inaspettatamente. Sangue di cane è un romanzo che regalerei a tutti e che consiglio. La scrittura di Veronica mi ha colto impreparato e impressionato. Non ho mai fatto la conta di quanti sono gli scrittori a cui sono grato. In una ipotetica personale classifica direi una decina. Una decina più Veronica. Sangue di cane è in primo luogo un oggetto estetico. Pochi libri purtroppo lo sono, sovente le case editrici dimenticano questo aspetto. La fotografia in copertina, il color prugna diminuito, la quarta con un colore diverso ma appropriato al tutto, poi il primo piano a colori di Veronica che gioca a rimpiattino con il bianco e nero della ragazza in copertina. Hanno qualcosa in comune e va scoperto, sentito, forse un passato e un futuro legati dalla narrazione, aggrappati ad essa. Un oggetto d’arte da esporre. Una meraviglia fuori e dentro. Torno alle parole. Quelle scritte provengono da un posto prima del pensiero e sono come la vita, buone alla prima, senza possibilità di tornare indietro. Un inchiostro carico d’istinto che trae dalla poesia per getto d’impulso e diventa prosa nella cruda descrizione del reale. Un romanzo deve regalarmi almeno una frase da portare via. Da tenere in tasca. Una di quelle che a pensarci conoscevo ma non sapevo di avere, o una nuova al di fuori di me. Sangue di cane ne è pieno. Amo sottolineare queste frasi. Nel romanzo di Veronica ho smesso: troppe! Il libro è un pugno allo stomaco che ti piega, le cui vibrazioni imballano il cuore, salgono alla mente e qui scavano, creano un varco, poi penetrano mescolandosi al contenuto, estraendoti diverso. La scrittura prende e trascina. Veronica ha questo dono, insieme a quello di conoscere quando mollare la presa, liberare il lettore dall’apnea, perché è la sua e non per necessità narrativa. Le pause che arrivano al momento giusto, nelle quali il racconto si apre , sono quelle della sua esistenza. Non c’è artificio, il lettore lo sa, solo genuinità. Un miracolo. Ho invidiato quel polacco, per come è descritto, per l’amore ricevuto addosso, poi sono arrivato ad essere infastidito dalla protagonista, per quel suo procedere senza difese, incurante, senza remore. Uso un termine non mio”senza pelle”. Poi ci sono le parole dette da Veronica, da una voce che non diresti sua di donna, ma ancora di ragazza, e sono parole con un intercalare proprio, come somma di interruzioni, come fossero messe, inserite, in una realtà di sola pausa. Inserite in una pausa e non viceversa. Ogni singola parola proviene da un sospeso e solo alla fine chi ascolta comprende che sono un regalo, un medicamento per colmare quel vuoto concavo lasciato dal pugno nello stomaco. Ci aiutano a tornare alla forma precedente, lasciando a lei, l’autrice, tutto il carico di verità, dolore, inquietudine e schifo.

She is just any girl

The Abject

She is just any girl. He is an abyss.                                                    – Veronica Tomassini

 

This novel is governed by the tones of a tragedy and the narrator’s restless quest for truth. What burned inside the narrator while she loved the Polish immigrant still burns inside her at the moment of composition. It is Christmas time, a time to be happy and serene – but not for the narrator, who feels constantly monitored and judged by her community. We know that, in the eyes of community above ground, she is an Albanian whore. She defines herself as such in the third person.

What is the meaning of this label? Her attachment to Slawek detaches her from her community of origin and turns her into a foreign whore, an “Albanian”, an adjective that still today hold negative connotations among Italians. She is linguistically ex-communicated from her community.Righteous Anger in Contemporary Italian Literary and Cinematic ...

In the letter to Slawek, the narrator  discusses the deaths of many Poles who arrived at the margin of continent, Sicily, only to die there. Slawek’s body is the primary site of the abject. For Hal Foster it is “this category of (non) being defined by Julia Kristeva as neither subject nor object, but before one is the first (before full separation from the mother) or after one is the second (as a corpse given over the objecthood).

Tomassini suggests these tremendous conditions throughout the novel, in wich the narrator details the vomit and other bodily excretions, the blood literally pouring out of Poles who come to Syracuse to die, as if it is an elephants’cemetery. As Foster suggest regarding the representation of the body turned inside out, of the subject literally abjected, thrown out. But this is also the condition of the outside turned in, of the invasion of the subject-as-picture by the object gaze. But the question i s why?zoom_libro_1

It is tempting to work with Kristeva’s abject when dealing Slawek’s character because the narrator offers much evidence that his abjection finds its roots in his intersubjectivity, corrupted even before it had a reason to exist.

(…)Love is a passion that should stir all the loftiest feelings.

(…)We need to explore the intricacies of passion in order to appreciate the value of constructive anger in our artist reassessments o society and attempts to come to terms with it.

Stefania Lucamante (professor of Italian and Comparative Literature at the Catholic University of America).

tratto da: “Righetous Anger in Contemporary Italian Literary and Cinematic Narrative” – Press University of Toronto, 2020

 

Anger and love in space of Otherness (in Sangue di cane)

zoom_libro_1“My study considers the failed heroic tale of Slawek in “Sangue di cane” as a starting point for Tomassini’s broader investigation into the condition experienced by both the Polish immigrant Slawek and the diffeferent communities of imperdonabili (unforgivable) that continues with a second novel, L’altro addio (The Other Good-bye). In a fragmented narrative featuring frequent flashbacks, Sangue di cane racounts a love story in wich the author also examines the imperdonabili, those individuals who either cannot conform to the rules of society, or do not want to. As in Vinci’s case, the entire text is presented in epistolary form, but in Tomassini’s, the letter is written as Christmas, a significant time for many. The confused tones underlyng the text illustrate the impact of the trauma of the narrator’s tragic experiences with Slawek, seemingly preventing the narrator from properly ordering the various segments of her love story.(…)Two narratives run parallel in the novel: the narrative of the love story of the narrator and Slawek; and the narrative of the failure of the community to grant to the undesiderables guests – the immigrants – the “right to hospitality” that would enable them to integrate into Syracuse’s community. While Tomassini’s fictional narrative centres on human beings and their complex relationship, the charachters grapple with the external forces of a morally oppressive society. The relative flexibility of the textual form appears to alter the modalities of novelistic expression by wich the aesthetic act speaks to us.(…)In any dirty, abject, miserable individual, the narrating voice of Sangue di cane recognized the meaning of existence, the almost mystical meaning of pain. Yes, as the Gospel says – in every face wrinkled by grief, she ricognized the face of the Christ. The love letter to the proscribed reveals the Christological aspect of the martyrdom of the discriminated against. She appropriates this non-novelistic discourse, a form of hagiographic discourse and weaves it  into an icastic novelistic text in winch the civil passion and the sense of outrage against the proscription of the Poles in the city of Syracuse seep through the subjective experience of love”.

(Stefania Lucamante, Righteous Anger in Contemporary Italian Literary and Cinematic Narratives, University of Toronto Press, 2020, Euro 91,66)

Copertina anteriore

Sangue di cane, una nota a margine di una lettura veloce.

di Francesca Serragnoli

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Francesca Serragnoli, bolognese, considerata una delle maggiori poetesse italiane.

Potrei dire anche io: non la conoscevo. O meglio, l’ho conosciuta nella scia della sua imperdonabilità. E poi i manifesti, le riflessioni e tutto ciò che verrà.

Poi le ho appunto chiesto: anche tu scrivi? Una sfilza di romanzi. Io che avevo scritto appunto su imperdonabilità nella scrittura. E che avevo scritto di come fosse incauto e approssimativo, forse, ogni giustificato esempio di canone o di resoconto di ciò che è il talento.

Avevo scritto e ora mi trovo a scriverne.

Il talento nella narrativa, cosa di cui conosco ben poco. Quindi il talento non confrontato con i talenti, tipo valutazione dei diamanti, del gioielliere che apre la sua stuoia di velluto e muove l’oggetto davanti agli occhi per far vedere quanto brilla. E dice giustamente, stringendo l’occhio brillante come un dente d’oro: io ne ho visti tanti di gioielli, li conosco, li ho comprati tutti a caro prezzo.

Io no. Ne conosco pochi di gioielli anche se di tanti ne ho sentito parlare.

Dunque ho comprato il libro di Veronica sul Kindle perché non l’ho trovato nelle librerie di Bologna, a Euro 5,99. E l’ho letto. Posso dire che è autobiografico, come mi avevi accennato? (sì, puoi, ndr)

Non ho sottolineato nulla perché non mi piace sottolineare sul tablet e quindi non riesco a recuperare le parti che mi hanno attraversato come una croce. Ne scrivo a caldo, come credo sia stato scritto il libro (lo inseguo con lo stesso ritmo, credo).

E’ infatti, primo appunto, una scrittura orizzontale certo, ma anche verticale, a forma di croce. Ogni tanto viene tirata quella linea in giù che si pianta in terra.

Quindi non ho sottolineato, ma mi ricordo lo stesso. Cosa? Tipo un luogo, un paese, un piccolo viaggio, ci si trova altrove, ci si sposta. Ti trovi dove lei esattamente è, la protagonista, nel suo presente.

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Ogni opera vera manipola il tempo, gira la clessidra e te la fa cadere addosso.

E’ una storia d’amore, certamente, fra una giovane ragazza e un semaforista polacco. Di polacco, mi sembra di ricordare, c’è qualche accenno (la parola ricorre almeno tre quattro volte ogni pagina) e non è una parola, solamente. E’ un uomo, un profumo, un cattivo odore, un vestito, un cibo, una panchina.

Mi sono ubriacata di polacco, anche se l’autrice non credo sorriderebbe. Anzi mi manderebbe a quel paese. Appunto, il suo.

Ed è un grande amore carnale che, come tutti gli amori carnali, forti, vivi, sguscia via dalle mani come un animale selvatico. Porta altrove, vaga, dopo aver attraversato, però, tutto di una donna. E anche di un uomo.

Io non voglio rendicontare la storia del libro, bisogna guadagnarsela e non posso dire che è il romanzo più bello che abbia mai letto perché non sarebbe credibile. E che cosa hai mai letto? Qualcuno, poi, mi chiederebbe.

Che cosa è credibile allora, in un consiglio di lettura fra i tanti? E’ fatto da chi non ha nulla da perdere perché ne scrive uno ogni mille anni?

E’ che l’amore fa innamorare, anche se è dannato e santificato. Non si tratta di fare riflessioni sull’argomento, di dire: la penso come a pagina 30. Oh a pagina 55 hai reso così bene il martirio e la redenzione.

Oppure: l’amore, è vero, è come una corda dove un equilibrista, appena ti guarda, cade.

Infatti è così ed è questo che mi ha più colpito. L’odore dell’amore seguito fino in fondo, senza guardare mai al lettore e tu segui come un cane fino ad alzare gli occhi e a non riconoscere dove ti trovi. Il lettore vero non riesce a intervistarti, riesce solo a seguirti e corre dietro il tuo dolore, sempre sporcato, mai perfetto. E per fortuna. Dove ci sono macchie di vomito, c’è sempre un punto in cui il vomito non è caduto.

Imperdonabile, nella scrittura, questa indecente altra via. Altro viaggio, mentre nei salotti si discute sul tipo di carta o sull’emozione di un tè o su come amare la letteratura. Chi ama è già dentro, o ha già dentro il seme che fa vivere e morire, sempre e comunque nella stessa estasi.

Non è un libro per alcolizzati o addetti alla caritas. E’ per chi ha cercato nell’alcol (e lo sa) quel tanto di vita che fa morire. Ma tutta insieme, come l’amore fa, in un unico gesto la cui fine che sembra esagerata e completa, non è forse solo che un inizio.

l’intervista su Vertigine

 

Veronica Tomassini, Sangue di cane (Laurana Editore, 2010): intervista

Sangue di cane, la sorpresa del 2010
di Rossano Astremo

Uno dei romanzi italiani più belli dell’anno, a detta di molti addetti ai lavori. Il titolo è “Sangue di cane” (Laurana Editore). L’autrice è la siciliana Veronica Tomassini. Il romanzo racconta la storia dell’amore impossibile tra una ragazza di Siracusa e un uomo che di professione fa il semaforista e che per sopravvivere chiede l’elemosina. È con lui che divide la sua quotidianità: Stawek è un alcolizzato, dorme nelle case occupate o nei vagoni morti. Alle spalle dell’uomo c’è un matrimonio contratto in patria e un passato in cui il suo mestiere è stato quello della violenza, nel futuro invece ci potrebbe essere la costruzione di una nuova famiglia, anche perché dall’unione con questa ragazza siciliana è nato Grzegorz. La storia, però, non concede nessuno spiraglio di consolazione.
Come e quando nasce il suo incontro con la scrittura?
La scrittura è stata la ragione segreta. Voglio dire, ho letto molto, da subito, da bambina, senza filtri, spesso, disordinatamente, mio padre aveva una libreria pazzesca. Lessi il diario di Christiane F. (“Christiane F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino”) che avevo nove anni. Dammelo adesso quel libro e lo chiudo sconcertata a pagina 20. Lessi Henry Miller (“Tropico del Cancro”) che avevo dieci anni. Lessi Moravia in fase preadolescenziale, ecco quella era la scrittura che interferiva, a mia insaputa. Ad ogni modo, si presentò ufficialmente con i primi sfoghi intimistici nei diari di scuola, è un classico, o con i temini in classe, prendevo buoni voti e capivo che mi piaceva combinare le parole, incastrarle, assecondare un flusso misterioso (da adulta lo chiamerò flusso di coscienza), seguendo una strada intestina, scoprendola salda e enigmatica. Poi dimenticai la scrittura, subentrarono anni bui. Ad un certo punto fu la scrittura a ricordarsi di me. Avevo vent’anni, giù di lì, si ripropose con il lavoro di redazione (collaboro con il quotidiano “La Sicilia” dal 1996). E da lì è ricominciato tutto.
Quali sono gli autori che più hanno contribuito a farle amare il mondo dei libri e perché?
Considero gli scrittori russi i grandi padri della letteratura mondiale; ogni scrittore deve qualcosa al realismo russo. Gorkij, Dostoevskij, Gogol, Tolstoj, Cechov, Puskin. La loro straordinaria capacità di raccontare la miseria umana attraverso un ghigno che ha suono di singhiozzo, un sorriso amaro che seppellisce il lettore nell’amarezza e nella disperazione, mantiene una perenne attualità, assolutamente loro. La distanza dal dramma che lo stigmatizza definitivamente, la laconica certezza dell’irreversibilità della defezione umana, è una grande lezione morale, prima che narrativa, stilistica, letteraria. E’ la grande lezione russa.
Come mai la scelta di pubblicare il suo romanzo con un editore nascente quale Laurana?
La scelta di Laurana è stata l’unica possibile per me: chi mi avrebbe dedicato il primo titolo e una tale attenzione? Laurana di Calogero Garlisi nasce come costola di Melampo, editrice specializzata in saggistica e in testi di letteratura civile; dunque non è che Laurana fosse nata lì per lì, ha già un background di tutto rispetto, con una struttura importante. Dentro c’è il valido sotegno di uno dei maggiori scrittori contemporanei, cioé Giulio Mozzi, e del giovanissimo e ottimo autore Gabriele Dadati, che in Laurana si occupa di editing, della valutazione dei testi e infallibilmente dell’ufficio stampa. Insomma una scelta la mia niente male.
Il suo libro è stato lodato da più parti, da critica e pubblico. C’è stato un complimento che più d’ogni altro l’ha segnata?
Quel che è capitato con la critica per me ha del prodigioso. Da Giovanni Pacchiano del “Sole 24 Ore” a Gian Paolo Serino ne “Il Giornale”, da Antonio Carnevale su “Panorama” a Francesca Frediani su “D Repubblica”, e tutti i blogger, da loro mi sono presa ogni parola, gratificata, le conservo quelle parole, le conservo casomai per i tempi di magra, per quando l’imponderabile dovrà retrocedere e i riflettori si spegneranno. E’ davvero tutto molto bello e intenso adesso.

Articolo per il Nuovo Quotidiano di Puglia

 

 

L’originale qui: https://vertigine.wordpress.com/2011/01/11/veronica-tomassini-sangue-di-cane-laurana-editore-2010-intervista/

intervista su Libri Consigliati

Mariella Sciancalepore per Libri Consigliati

 

Published: 13/04/2011

Sciancalepore Benvenuta, Veronica. Il suo primo romanzo, Sangue di cane, è stato molto apprezzato da critica e pubblico, due “entità” che non sempre camminano con lo stesso passo. Sono dell’idea che sia proprio quel sapiente mescolarsi di scrittura alta e personaggi umili ad aver messo d’accordo tutti. Lei quale pensa sia il “segreto del successo” del libro?

Veronica blogTomassini Non saprei. Posso provare a immaginare che questo libro, come peraltro  qualcuno mi ha già detto, ha un potere, una forza che non dipende da me, che va al di là delle qualità letterarie del testo. È quel che c’è dentro, quel che si racconta, forse,  il senso di pietà e di misericordia, che permane nelle pagine, ad aver nutrito una strana, straordinaria empatia. Le stazioni del dolore del personaggio narrante hanno incontrato una sensibilità pronta, corale direi, quella dei lettori e di certa critica.

Sciancalepore Sangue di cane racconta una storia attualissima, ambientata ai margini di una Siracusa indifferente, tranne poche belle eccezioni, ai propri “ultimi”. Qualcuno ha scritto che avrebbe potuto ambientarsi in qualsiasi città italiana. Io trovo, al contrario, che Siracusa sia un elemento imprescindibile e che la storia non sarebbe stata la stessa in una altra città. Lei cosa ne pensa?

Tomassini Anche questo è possibile. Tuttavia Siracusa è un elemento funzionale alla storia, compare molto pallidamente, molto noiosamente, lontana da connotati meridionalistici, come d’altro canto la mia scrittura. Siracusa si staglia insicura e fragile, dietro il mondo marcio che i personaggi, gli amanti del romanzo, attraverseranno insieme fino alla fine.

Sciancalepore Il suo non è un libro che lascia indifferenti. È commovente, nel senso che davvero muove qualcosa dentro. È la storia di una passione. Quella della protagonista per Slawek ma anche quella dell’autrice per gli emarginati, ed è straordinaria la sua capacità di raccontarci tutto un mondo fatto di “vuoti a perdere” e di metterci di fronte a una realtà scomoda.
Come mai la scelta di rendere i “polacchi” protagonisti della sua storia, un popolo fiero, capace di grandi slanci ma vittima della sua Storia. Da dove nasce questa attenzione agli ultimi, come nasce, in definitiva, il suo romanzo?

Tomassini Sono una slavofila. Ho amato gli scrittori russi da ragazzina, amo i film di Kusturica (ho pianto fino a rovinarmi gli occhi sulla fine di Perhan, il rom  de “Il tempo dei gitani”), amo la musica balcanica, tutto questo in tempi non sospetti. La Polonia l’ho scelta perché nella mia vita ho incontrato un uomo fiero, coraggioso, segnato col fuoco, in tutto simile a Slawek di “Sangue di cane”, ed era un uomo polacco. Racconto di eroi capovolti che ho conosciuto davvero, immigrati, clochard, malati di alcol e nostalgia, molti polacchi, dell’Est Europa. Erano i primi anni ’90, incocciavo un fenomeno epocale, un fiume di uomini, provenienti dai paesi dell’ex Cortina, era appena caduto il muro, la democrazia sopraggiungeva rapidamente,  trovando impreparato un popolo di proscritti, i polacchi di Walesa. Riconobbi un uomo del tutto simile a Slawek, dovevo raccontare di lui, un giorno. Amo le differenze, amo i vuoti a perdere, i fiori nel fango.  È così. Ho cominciato ad amarli dopo aver letto “Christiane F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino”, avevo solo nove anni. La mia vita da allora cambiò profondamente.

Sciancalepore In un’intervista lei ha detto: “la letteratura non mente, per questo deve sporcarsi le mani”. C’è qualche autore che ha avuto come punto di riferimento per questo romanzo e per la sua scrittura in generale?

Tomassini Ce n’è più di uno. Su tutti però,  Marek Hlasko, scrittore polacco degli anni di Gomulka.  La sua Polonia disumana e straziata si mostrava dentro un dolore laconico, ed era un dolore storico, un ghigno col suono del singhiozzo, come nelle storie di Cechov.

Sciancalepore Era circolato il suo nome quale possibile candidata al Premio Strega. Immagino sarebbe stata una bella soddisfazione per lei e per Laurana, la casa editrice che l’ha sostenuta. È delusa che tale possibilità sia sfumata? Qual è la sua idea  riguardo ai premi letterari?

Tomassini Mi piacerebbe vincere un premio. Non ho mai vinto un premio. E i premi servono, secondo me. Lo Strega era un desiderio troppo esigente, troppo alto, avevo paura persino ad esprimerlo. Ci ha pensato Giulio Mozzi per me.

Sciancalepore Le hanno fatto molte interviste di recente. C’è una domanda che non le è stata posta a cui le piacerebbe rispondere?

Tomassini Sì: da uno a dieci, quanto sei felice?

Li abbiamo lasciati qui (da Sangue di cane, Laurana editore, 2010)

(…)

Arrivasti con andatura lenta, la cicca sul labbro, dietro di te camminava Tadek con una busta in mano. Ti corsi incontro. “Avevi detto che non avresti bevuto, sangue d’un cane” ti urlai. Sputasti la sigaretta.“No bevuto, pierdolic” reagisti con rabbia. Poi hai allungato la mano fino a sfiorarmi la guancia. “No arrabi, prego, misek. No arrabi, io ti amo te”.

“Allora andiamo, polacco del diavolo” ti scongiurai. I nervi stavano per cedere, ne avevano diritto: la mancanza di sonno, l’apprensione per Grzegorz, i sensi di colpa per Grzegorz, quel che avevo visto in poche ore della mattina. Il latte mi induriva il seno fino ad esplodere come uno zampillo di fontana, macchiai il vestitino di ciniglia, il latte colava, svuotando le mie mammelle di giumenta sciupata. Abbassai gli occhi sul mio petto, dannazione, li rialzai, era il latte di Grzegorz, imprecai. Ti sorpresi a guardarmi con uno sguardo nuovo, diverso, accerito, ravvisai tenerezza e insieme impotenza. vera scarp de tenisTi sei inginocchiato: “Dove andare, misek?” ti sentii singhiozzare, era il pianto di un bambino, anche la tua voce rauca era nuova, rauca come quella di un ragazzino, e il tuo pianto era disordinato come quello di un ragazzino.

“Dove andare, vedi me, misek, dove io cazzo andare?”.

Tadek era rimasto in piedi per tutto il tempo, indifferente, non una smorfia nel suo viso misurato, ebbro, ma composto.

Mi abbassai anch’io, in ginocchio, ti abbracciai, ti asciugai le lacrime con le dita sudice, mi baciasti con forza, con l’impeto dei tapini, sapevi di vino, mi ritrovai in bocca lo stesso retrogusto alcolico e amaro. Ma amavo anche questo di te, perché riconoscevo te in questo.

Il nostro amore mondava il reo e redimeva all’inferno. Non ho altro da aggiungere, nemmeno a coloro che talvolta ci tentano: dimmi, cara, come mai proprio lui? Non ho risposte, al limite pierdolic! Al limite ‘fanculo.

Ero nella valle dei dannati, ma ero a casa, Slawek. Stanca e affamata della tua stessa fame di esistere sopra ogni preoccupazione, sopra l’ignominia, sopra l’arrogante distanza tra noi e la decenza. Siracusa procedeva oltre, noi eravamo ratti nel tombino, il nostro squittio avrebbe detonato vanamente. Fuori le mura del nostro recinto di sciagurati, redivivi sullo Stige, avremmo trovato un’uggia criminale, il modico affannarsi di una città amena, che avrebbe sbadigliato tutto sommato dinanzi al vituperio.

Fuori le grotte o la casa dei morti, Siracusa sobillava l’Averno, lanciando dardi dalla cinta della neutralità. Neutrale e salva.

C’era una guerra in atto, con i suoi morti, e il fronte della resistenza era vuoto.

Tu eri il soldato più coraggioso, il tuo archibugio non aveva cartucce. Credi al destino?

La lettera di Luba

Milano 11 dicembre 2010

Cara, cara, cara Veronica,

ho appena finito di leggere il suo primo romanzo. Vorrei subito chiedere scusa per il mio italiano. Sono solo una signora russa trapiantata da 15 anni in Italia. E sappia che ogni volta si imbattesse in un mio errore, io silenziosamente le chiedere scusa.

Leggevo da sempre, leggo molto e sono piuttosto veloce nel farlo. Per il suo romanzo invece ci ho messo due settimane. E non perché sia difficile diciamo “tecnicamente”. E’ scritto magnificamente. Il tema questo sì che mi lacerava l’anima perché nonostante non sono mai stata una profuga, rimango pur sempre un’immigrante. E si sa che il pane dell’immigrante è sempre amaro.

Fui sposata con un italiano e anni fa mio figlio, all’epoca neanche ventenne, davanti all’ingiustizia nei nostri riguardi mi ha chiesto con rabbia “perché?”. Cosa potevo rispondere? “Perché siamo immigranti”. Lui si è quasi offeso: ma noi non siamo immigranti! Intendendo “non siamo illegali”. Ho precisato: non siamo profughi tesoro, ma immigranti sì.

Sono piuttosto timida, ma capace anche di diventare forte e nonostante ciò non avrei mai trovato il coraggio di avviarmi sul terreno di clandestinità. Non ho intenzione di raccontarle la mia vita. Volevo solo spiegarle fino a che punto sono dentro la sua storia. Volevo dirle grazie. Lei ha scritto un romanzo meraviglioso: meraviglioso nello stile, meraviglioso in questo avanti-indietro della storia, meraviglioso nel linguaggio, in questo straziante monologo-preghiera. Non era suo intento immagino scrivere per una lettrice praticamente profuga, ma le dico senza vergogna che mi venivano lacrime agli occhi. Mi soffermavo, guardavo la sua foto. Lei ha un viso bellissimo, intenso. Per me un volto espressivo sia delle donne che degli uomini valeva sempre molto più della semplice bellezza. Mi dispiaceva di non poterle parlare. Sono persona schiva e abbastanza introversa. Scrivere ad una persona sconosciuta per me è una roba ardua. Ma adesso all’età di 62 anni mi sono detta “allora bellezza, adesso ce la farai o come sempre?…”. E così le scrivo. Morirei di vergogna se lei si annoiasse leggendo queste righe(…)

(continua)