Monthly Archives: April 2013

lettori su sangue di cane

“Un libro che contiene tante storie: quella dell’amore straziante di una borghese siciliana per un immigrato barbone proveniente dalla Polonia, quella dei dannati dell’inferno dell’immigrazione clandestina, quella di una redenzione sempre sul punto di vincere, sempre sul punto di soccombere. Veronica Tomassini racconta con rigore e forza questa parte, facendo provare al lettore senza veli intermedi la rabbia, la frustrazione ed il senso di perdita dell’immigrato fallito al ciglio della strada. Quando passeggiando per il centro, incontrerò lo sguardo di una anima sfinita che mendica due spiccioli a lato della strada affiancato da un cane fedele fin nella fame, forse lo guarderò con occhi diversi. (…)In sintesi: per chi volesse guadare in faccia il dramma umano dell’immigrazione senza i falsi pudori della borghesia leghista, questo libro è consigliato. Per chi volesse leggere di un amore profondo e drammatico nella sua intensità, con le sue vette ed i suoi neri abissi, libro consigliato.

Per chi cercasse due ore di inrattenimento, lasciate perdere.

A pagina dieci, una stella. Alla fine, tre stelle e mezzo, diavolo di un polacco”. (Gauss 74)

fonte Goodreads

recensire un libro senza leggerlo e altre sciocchezze

Ammetto che, negli anni del giornalismo di provincia, imparai persino a recensire libri senza averli mai letti. Era la fretta del lavoro quotidiano, una fretta della malora, ti consegnavano il libro di un autore ics, dal talento insondabile di solito (certe volte dentro, aprendo a caso, trovavo magicamente periodi senza soggetto, che bello, che sovversione). E allora? Allora niente, mettiamo che il “tomone” chessò me lo consegnavano alle undici del mattino, ecco dovevo leggere e scrivere entro le quindici del pomeriggio, ché poi le pagine si chiudevano eh. Pile di libri, della più svariata specie, della più arbitraria fantasia, anarchici nell’uso delle regole sintattiche, vabbé, grondanti ineffabili sentimentalismi, a occhio e croce, mi perseguitavano. Si impara, si usano le solite parolone, meteorismo per accademici lo definirei, riempitevi la bocca di aria va’, andate sul sicuro.  Temevo i destinatari di quella professione, costipata in un luogo-mondo costipato. Dico, non ne potevo più, ad accontentarmi mi ero proprio scocciata. E le medie prospettive, e gli artisti imbrattatori di tela, gli iperconcettuali denoantri, i romanzieri di stanza in condominio borghese, tediosi pressappoco, ordinari nei segreti recessi del loro essere. Sì, voilà, quanta superbia, è vero, ammetto, lo sono, sono stanca, annoiata, è un problema? Poi arriva un tizio e mi giudica irragionevolmente, senza conoscermi,  sei una snob provinciale, dice. Non cado nell’errore di mandarlo a fan…ci è andato da solo.

Benjamin Fondane, una coscienza infelice

♣Lo scaffale romeno 

                                                                  di

                                                                  Eliza Macadan

Eliza Macadan, nata a Bacau, in Romania, nel 1967. Risiede a Bucarest e a Roma. Ha esordito nel 1988 sulla rivista mensile di cultura romena «Ateneu». Bilingue, fin dalla sua prima raccolta, Spatiu auster (Edizioni Plumb, Bacau 1994), Eliza Macadan ha scritto e pubblicato in romeno e in italiano. L’edizione italiana della silloge del 1994, Frammenti di spazio austero (Libroitaliano, Ragusa 2001) ha ottenuto il premio romano “Le rosse pergamane” nel 2002. Hanno fatto seguito In Autoscop (Edizioni Vinea, Bucarest, 2009); La Nord de cuvant (A Nord della parola, Edizioni Tracus Arte, Bucarest 2010) e transcripturi din constient (trascrizioni dal cosciente, Edizioni Eikon, Cluj Napoca 2011). Giornalista professionista, è stata corrispondente in Italia per varie testate romene. È membro dell’Usr (Unione Scrittori della Romania).Nel 2012 ha pubblicato il volume “Paradiso riassunto” (Joker Edizioni). In uscita: “Anotimp suspendat” (Stagione sospesa), Edizioni Eikon, Cluj Napoca, 2013

Eliza Macadan, nata a Bacau, in Romania, nel 1967. Risiede a Bucarest e a Roma. Ha esordito nel 1988 sulla rivista mensile di cultura romena «Ateneu». Bilingue, fin dalla sua prima raccolta, Spatiu auster (Edizioni Plumb, Bacau 1994), Eliza Macadan ha scritto e pubblicato in romeno e in italiano. L’edizione italiana della silloge del 1994, Frammenti di spazio austero (Libroitaliano, Ragusa 2001) ha ottenuto il premio romano “Le rosse pergamane” nel 2002. Hanno fatto seguito In Autoscop (Edizioni Vinea, Bucarest, 2009); La Nord de cuvant (A Nord della parola, Edizioni Tracus Arte, Bucarest 2010) e transcripturi din constient (trascrizioni dal cosciente, Edizioni Eikon, Cluj Napoca 2011). Giornalista professionista, è stata corrispondente in Italia per varie testate romene. È membro dell’Usr (Unione Scrittori della Romania).Nel 2012 ha pubblicato il volume “Paradiso riassunto” (Joker Edizioni). In uscita: “Anotimp suspendat” (Stagione sospesa), Edizioni Eikon, Cluj Napoca, 2013

Benjamin Fondane è stato un esponente di spicco dell’esistenzialismo francese, è autore di un’opera poetica e filosofica che rimane, a settant’anni della sua pubblicazione, poco conosciuta e valorizzata. Benjamin Fondane è stato vittima di uno dei periodi più neri della storia dell’umanità, ma anche dell’oblio della posterità.

Nasceva nel  1898 in una famiglia di ebrei di Iasi. Ha percorso un cammino sinuoso come i tempi che correvano fino alla sua consacrazione nella Parigi avanguardista degli anni trenta. La sua vocazione si è affermata presto, intorno ai quattordici anni scriveva e pubblicava poesie.

Quando si è trasferito nella capitale romena, ha raggiunto l’elite degli avanguardisti e ha pubblicato nella loro rivista “Uno” , che ospitava il fior fiore dell’avanguardia – Ion Vinea, Ilarie Voronca, Marcel Iancu e altri.  Ha debuttato con il volume “Immagini e libri dalla Francia” che ha scatenato una lunga polemica per l’affermazione che conteneva: “(…)la letteratura romena è solo un’estensione della letteratura francese”. Ma la poetica di Fondane era in consonanza con quella degli intellettuali dell’epoca e fanno prova le più di cinquecento poesie e gli articoli pubblicati entro il 1923.

Arrivato a Parigi, rinuncia alla lingua romena e scrive in francese, cerca una nuova identità. Pubblica nel 1929 la raccolta “Paysages” con una prefazione nella quale afferma la sua scelta per l’esilio:  “Questo volume appartiene a un poeta morto nel 1923 all’età di 24 anni. Sono stato zitto quattro anni, come un muto, mutilato interamente dalla guerra”. Si dedica alla cinematografia e viaggia in Argentina.  Scrive molto per le pubblicazioni francesi e dopo l’incontro con il filosofo Lev Sestov si dedica allo studio dei filosofi moderni.

Titolare della rubrica “Cronache della filosofia vivente” nei “Cahiers du Sud” negli anni trenta, milita contro il socialismo di stato e contro la politicizzazione dell’avanguardia, sostenendo che le riforme sociali non possono cambiare le domande esistenziali.

Nel ’36 usciva “La coscienza infelice” , meditazione profonda sulla condizione umana e l’insufficienza della ragione.

Nel ’40, il governo di Vichy stabilisce lo statuto degli ebrei che sono esclusi dalla vita pubblica, ma lui non indosserà mai la stella gialla.  Il poeta continuerà a scrivere e a firmare i suoi articoli, anche se gli ebrei non hanno più diritto di firma. Non smetterà mai di affermare la sua identità. Alla fine del ’41 esce sempre meno della casa dove abita con sua moglie non ebrea e con sua sorella, Lina.

Cioran dirà più tardi che Fondane si era abituato alla sua condizione di vittima e “in complicità con l’ineludibile”  non ha preso nessuna misura di precauzione e non ha voluto cambiare il suo domicilio di via Rollin. E’ stato arrestato insieme alla sorella il 7 marzo 1944. Quando sua moglie, Emil Cioran e Stéphane Lupasco gli fanno visita, Fondane “sta in piedi, in quella luce sporca di pomeriggio d’inverno, guardandomi con i suoi occhi blu e limpidi, brillando, anche se aveva il viso sconvolto, così degno, così calmo, sorridendo calorosamente e maliziosamente, muto davanti alla mia emozione, che non riuscivo controllare” (testimonianza di sua moglie).

Nel campo di concentramento di Drancy è arrivato intorno al 20 marzo. Le visite sono proibite, ma gli interventi delle persone vicine e della Delegazione Romena a Parigi riescono a convincere le autorità francesi a non mandarlo in Germania. Anzi, Cioran e Lupasco ottengono la sua liberazione. Tutti lo aspettavano a casa, con la tavola pronta. Ma lui si rifiuta di lasciare il campo senza sua sorella. Così, all’inizio di ottobre  del 1944 verrà gasato, insieme con lei, a Auschwitz-Birkenau.

Ne “L’esodo”, poesia che lo rappresenta nel miglior modo, la critica ha identificato l’espressione più trasparente del destino di Fondane.

All’entrata nella “Sala dei nomi” del museo Yad Vashem di Gerusalemme stanno scritti, in inglese ed ebraico, questi versi tratti da “L’esodo”:

“Remember only that I was innocent
and, just like you, mortal on that day,
I, too, had had a face marked by rage, by pity and joy,
quite simply, a human face!”

Benjamin Fondane

(Iasi, 1898 – Auschwitz, 1944)

BENJAMIN_FONDANEBenjamin Fondane, alias B. Fundoianu, nato Benjamin Wechsler  il 14 novembre 1898 a Iasi (Romania) e morto il 2 o 3 ottobre 1944 in una camera a gas del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, è stato un filosofo, poeta, drammaturgo, saggista, critico letterario, cineasta e traduttore ebreo di origine romena, naturalizzato francese nel 1938.

Collegamenti consigliati:

http://mondodomani.org/dialegesthai/ago02.htm

http://www.orizonturiculturale.ro/it_recensioni_Alice-Gonzi.html

Sangue di cane su Il Pickwick

Antonio Russo De Vivo ha recensito il mio romanzo d’esordio Sangue di cane (Laurana, 2010); ammetto che, a distanza di tre anni dalla sua uscita,  è stato in un certo qual modo emozionante. Così scrive nel sito di letteratura Il Pickwick:

“Dal principio di Sangue di cane (Laurana, 2010), Veronica Tomassini sbatte in faccia al lettore alcune parole chiave che ritorneranno spesso: morte, merda, sangue. Si capisce subito che questo libro mal si presta a chi è in cerca di qualcosa di rassicurante, positivo, imbellettato di quieto vivere e di perle di saggezza. Sangue di cane è umorale, putrido, purulento, popolato di emarginati. Una donna qualunque racconta la sua storia d’amore con un polacco randagio. La storia si erge a saga polacca, e i polacchi bevono, si prostituiscono, muoiono; si muore tanto, tra queste pagine”. Per continuare a leggere la recensione di De Vivo linkate qui: http://www.ilpickwick.it/index.php/letteratura/item/393-veronica-tomassini-sangue-di-cane.

Era un vile

Ci sono anni che vorrei seppellire, sono il feltro dell’inutilità di cui mi sono ammantata stupidamente, la bandiera di un modo inane di stare al mondo. Anni persi, soltanto perché senza amore. Lui era un vile, secondo me, vista da qui oggi, uno che tenta il suicidio è già morto prima. Cosa c’entrava con me, sapete certi vampiri; le mattine al sert con lui erano un pellegrinaggio verso la terra dei morti, di subumani, non so come spiegare. Io ero una ragazzina. Mi ammalai di solitudine, smisi di mangiare. L’idiota mi indicò la strada, vai e fottiti, mi disse. Ancora adesso, mi capita di svegliarmi terrorizzata dal solito incubo: una specie di prigione da cui evito accuratamente di fuggire, lui è il carnefice, subumano dalle spalle curve e le braccia segnate dalle piste. Le piste sono le cicatrice dei buchi, se ne era fatti tanti. Non riesco a liberarmi dal tanfo di carne morta, la sua, benché oggi viva eccome. Per me è carne putrida, residuo di un’umanità che detesto. E lo dico così senza censure, senza convincermi a ragionare, a compatire.

i propalatori

Seduta al tempio.  Le mie vecchine parlano tra loro di piccole cose, una fuma, l’altra aggiusta il centrino ad uncinetto che tiene tra le mani. Stand di candidati urlano più in là, i diretti propalatori direi, ho la nausea. Una tizia mi ferma, insiste perché io firmi per il suo eletto, il nostro aggiunge baldanzosa, vorrei sputare in terra, si fa così. Dico: sono una grillina, nonostante tutto, e pure non lo fossi, vorrei che andaste al diavolo, più o meno tutti. La tizia insiste, la vecchina mi tiene il braccio, mi hanno rotto il c…la vecchina mi stringe ancora, no gioia, sussurra, non sta bene, e mi indica il centrino, guarda che bel disegno dice. Le mie vecchine non si nutrono abbastanza, quando capita casomai. Il candidato non si manifesta, i propalatori urlano, penso ad una canzone di Carlo Muratori, parlava di certi silenzi colpevoli.  Hanno la pancia piena di merda impreca un passante, io esulto, sì, batto le mani, bravo bravo, l’uomo sorride sorpreso di farlo, ma è giusto, ha ragione, puoi sorridere amico, hai la mia approvazione. Le mie vecchine vigilano la noia sul resto, l’ipocrisia, l’infamia dei propalatori che urlano amenità. Andate a casa, via, abbiate pazienza.

Jergović, il villaggio nel disastro

♦ Andare a capo

La rubrica  di Elio Grasso

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

jergovic

Miljenko Jergović
Volga, Volga
(traduzione di Ljiljana Avirović)
Zandonai

Pljevljak possiede una Volga M24 del 1971, automobile potente, russa, passata di mano in mano a militari in forza o quasi pensionati. Fra canti popolari e discorsi sui partiti, personaggi pressapoco potenti o messi in fin di carriera (e di vita) nel delirio guerrafondaio del territorio bosniaco. Pljevljak lavora nell’esercito come civile, sta sulla strada, raggiunge moschee e paesi che nella realtà non esistono, ma esiste quel che Jergović disegna come il viaggio nel disastro, quel che racconta nella “Trilogia delle macchine”, di cui Volga, Volga rappresenta il capitolo finale (dopo Buick Riviera e Freelander). Un romanzo che alterna protagonisti misteriosi, primo fra tutti il guidatore della Volga, e descrizioni geografiche di territori che sono i resti di una guerra combattuta a suon di proiettili radioattivi. Più subdoli e micidiali della bomba atomica. L’uranio arricchito cambia la genetica dei popoli, l’anima della gente, il terreno che i loro piedi calpestano. In Volga, Volga sono rovesciati documenti e leggende, donne floride e storie enigmatiche: non se ne viene a capo fin quando, nelle ultime pagine, sembra di capire qualcosa in tutto questo macello mentale, da Jergović guidato con categorica maestria, soprattutto se confrontata allo stato edulcorato in cui sta (a parte rara eccezioni) l’italico narrare. Il fatto è che nell’epica stradale e bellica degli stati slavi sono nati scrittori in grado di sondare a fondo qualcosa che conoscevano molto bene, avendo sborsato parecchio nella loro congiuntura epocale. Hanno saputo, senza indulgenza, raccontare come la vita da quelle parti non sia stata pilotare una Golf o premere i tasti di un qualsivoglia oggetto elettronico. Preghiera e armi fanno prendere decisioni inimmaginabili in certi popoli, per noi che da decenni conosciamo soltanto il “dramma” dei conti bancari, e l’assalto delle televisioni digitali, superate soltanto dai tablet. Sono miriadi i nomi da citare, caduti sotto quei cieli, pigiare sul gas di un’automobile potente come la Volga è come ammettere di aver ammazzato molta gente, dentro la storia che, non dimentichiamolo, è fatta di mille storie belluine, dove la ragione non sta da nessuna parte. Come da nessuna parte, e in ogni luogo, sta la narrazione che Jergović ha saputo presentare.

Le arance che muoiono di tristezza (Il Fatto Quotidiano)

Stanno morendo di tristezza, lo sanno fare meglio degli uomini. La disfatta è un passaggio molto lento talvolta,  piano piano smettono di esistere, smettono di nutrirsi, ad un tratto la luce si spegne, la luce del mondo: così le arance muoiono, muoiono del virus della tristezza. Gli uomini assistono sgomenti, è la malattia peggiore, la più grave, i giardini di agrumi sono desolati, devastati dall’agente patogeno che si chiama esattamente Citrus Tristezza Virus e, soltanto in Sicilia, ha abbattuto sette mila ettari di agrumeti, su quaranta mila totali. Gli uomini non capiscono, ma è in atto un salto di qualità della specie, non quella umana, no. Gli uomini non capiscono che le arance e il mondo e il resto del mondo, le  creature che noi pensiamo inermi, vigilano silenziose piuttosto e si animano di strane, segrete metafore. Però è tutto vero, la scienza verifica, il parco tecnologico e scientifico siciliano conferma. Bisogna divellere, seppellire il virus, ma la tristezza non teme rappresaglie. La tristezza è capace di mandare al diavolo ogni risorsa, come accade per gli uomini, le cellule vanno in necrosi, la linfa non arriva alle radici, le radici collassano. Anche agli uomini accade, il sangue par che smetta di pulsare verso la vita, di agitarci intimamente, infuocarci il viso se siamo felici o trepidanti o tutte due cose insieme. La tristezza certe volte  è più forte dei rimedi, è una tendenza dello spirito, del nitore di talune creature, è la resistenza dei giusti.

Intanto le arance muoiono, ufficialmente il virus proviene dall’Asia ed era già attivo negli anni ’30, non avrebbe mai potuto raggiungerci, e invece lo ha fatto, attraverso dei parassiti, i cosiddetti vettori, gli afidi, afidi marroni e afidi del cotone, si propaga con il movimento delle piante, delle marze. Questo dice la scienza. La tristezza colpisce le arance amare con sintomi di deperimento oppure intende manifestarsi con evidenti scanalature nel tronco, il legno diventa butterato e subentra la necrosi o ancora i semi assumono una pigmentazione pallida, giallognola, e nelle piante di arance dolci si insinua il nanismo, in special mondo negli innesti con le piante di arance amare.

Alla tristezza gli scienziati non trovano rimedio, la tristezza degli uomini o delle arance poco cambia. Un rimedio vero, che non sia la sintesi chimica della vita, della gioia anzi, proprio della gioia, la felicità è una bella parola, ma si preferisce gioia, e gli uomini tanto non credono alle promesse dell’una o dell’altra. Le arance sì e tutte le creature che immaginiamo mute, non educate o secondo taluni geneticamente destinate ad interferire con il genere umano. Le arance si illudono persino. Lo dico con una certa sicurezza perché ricordo una storia raccontata da un amico, un musicista, si chiama Carlo Muratori. C’è un podere, nella mia città, che si estende verso ovest, da una parte  con giardini di ulivi, dall’altra con aranceti. Le arance di quel terrazzamento aspettavano con fiducia l’uomo che ogni giorno veniva a testarne la fragranza, il turgore. E all’uomo che ogni giorno le raggiungeva attento, con la vanga in mano, le arance dimostravano gratitudine, esibendo colori inauditi. L’uomo ne accarezzava le foglie lucide, la trama, le forme, le arance crescevano in prestanza.  L’uomo era il mio amico musicista, non riusciva a crederci, ma era un fenomeno talmente evidente, non empirico chiaro e perciò stentava a riconoscerlo. Mancava un giorno, due giorni, e le arance lo accoglievano smunte, piccole, dimesse. Il mio amico musicista ammise: Non posso lasciarle, sono tristi altrimenti, puoi credermi?  Sì, certo, gli ho creduto. Non sapevo che esistesse un virus della tristezza e neanche il mio amico musicista ne era a parte.

 Bisogna leggere attentamente le modalità dei sintomi, è tristezza umana non ci sono dubbi:  “La pianta mostra uno stato di carenza idrica e nutrizionale a cui segue il disseccamento di foglie e rametti” leggiamo in un trattato botanico. Colpisce anche i limoni, non in egual misura tuttavia (d’altronde un limone non conosce dolcezza, una specie di misericordia, essendo strutturalmente astioso). Si teme sopra ogni cosa il crollo immediato, lo chiamano  quick decline, succede se la pianta non riesce a rifondarsi, rigenerando un nuovo tessuto vascolare. Spesso non è in grado, quando si è tristi non si ha voglia di far nulla. Altre volte succede che la tristezza non produce sintomi, soltanto la blanda colorazione, una disarmonia appena percettibile. Le arance sono tristi lo stesso, però, e finiranno per morire. Sono portatrici di metafore terrificanti, gli uomini non capiscono il salto della specie, l’impasse è meritato, condizionati da pregiudizi e certezze empiriche che non bastano ad esaudire il dubbio e rendere ragionevole la ragione della scienza, da sola. Gli uomini consideravano la faccenda un affare del tutto “esotico”. Non è presunzione questa? La tristezza non colpirà l’Europa. Chi lo dice? Eccovi le vostre arance tristi, vere arance siciliane tristi. Se il rimedio è la felicità, è un problema perché alla promessa non ci crede nessuno.

 

 Il Fatto Quotidiano, edizione 24 aprile 2013.

Veronica, e le strade che si incrociano

Ho trovato questo post dello scrittore Remo Bassini, in qualche maniera riguarda anche me…

Remo Bassini

Io conosco un po’ Giulio Mozzi (e dico la verità: per diverso tempo ho sperato che Mozzi diventasse il punto di riferimento che adesso ho e che si chiama Luigi Bernardi) e un po’ di più conosco Marco Travaglio: compagni di università alle lezioni di Corrado Vivanti, poi le nostre strade si sono incrociate negli anni 90, quando lui venne a Vercelli inviato dal Giornale di Montanelli, e successivamente, quando collaborammo entrambi per L’Indipendente di Daniele Vimercati. Ci sentiamo ancora, ma sempre meno, ovvio…
(Dimenticavo: ha scritto anche la post fazione del mio libro, Lo scommettitore).
E poi c’è lei, Veronica Tomassini, della quale sentii parlare anni fa, un’amica in comune, la signora T. mi disse: Conosco una scrittrice siciliana brava, ma non so come aiutarla.
A questa amica (che ne parlò anche con don Luisito Bianchi) dissi: Mozzi…
Infatti le strade di Mozzi e di Veronica erano destinate a…

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