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Letizia

Un giorno le ho detto: “Quel che tarda giungerà e accadrà”. Letizia ha detto: sì. E sembra una bambina, la immagino nella sua innocenza, straordinaria innocenza, mentre con le sue mani di mamma, che battono sulla tastiera, risponde al mio messaggio. Ed è una donna adulta invece, con figli grandi e tutta una vita dietro di sé. E credo, molto dolore anche. Ma son sicura che il dolore non arrivi a caso nelle nostre tiepide esistenze, se non per risorgere in qualcos’altro, restituire qualcosa ad altri. Così succede anche per Letizia Di Martino, che scopro ogni giorno come una specie di regalo nella mia quotidianità, leggendo i suoi post su Facebook. Mi innamoro raramente, eppure la sua scrittura è riuscita in questo, e non sono l’unica mi sembra. Racconta di una vita spesso chiusa dentro le stanze di case che raccolgono gli anni, i giardini, oltre le siepi il mare la costa. I viaggi, l’Italia di un tempo, scandita persino da certi film d’autore, dai viaggi in macchina, quando l’Italia era un paese di colli, case cantoniere, traversate in traghetto. Non so come spiegarvi, quando vorrei lasciarvi intendere il potere della parola che Letizia restituisce piena di candore innocenza verità. E i suoi pensieri: quanta consolazione, in grado di coprirci, salvarci, come fa il dolore quando diventa dolce, smette il suo terrore, si rivela ai pochi agli audaci, sconfessa quel terrore, esso è consolazione, salvezza, resurrezione.

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Letizia Di Martino

Ho scritto di Letizia altre volte, mi sembrava qualcosa di talmente prodigioso, il suo talento perlomeno, e altrettanto incomprensibile che non avesse il pubblico che meritava. E in special modo un editore disposto a pubblicarla. Come possono quelle parole restare circostanziate, dedicate a pochi? Se in definitiva ne abbiamo bisogno tutti. Quando la leggo, mi sembra di aver vissuto tutte le vite, di aver recuperato qualcosa. Non smetto di sperare che un editore si accorga di lei, come merita. Il video che allego è la colonna sonora di un film che Letizia ha amato molto quando era ragazza, e anche io, questo film è una delle tante cose che ci accomuna.

Leggetela.

provo a spiegarmi

Non servirà a molto spiegare, tentare di spiegare l’intenzione dell’articolo su Igor. Lo faccio comunque. Molti di quelli che stanno commentando ancora, troveranno senz’altro e ancora la malafede e un motivo in più per ricoprirmi di insulti. Ad ogni modo provo a spiegare. Non era un contributo storico, non era un saggio sui Balcani, sulle identità di un’area geografica ampia, complessa, piena di contraddizioni. Ho soltanto lavorato sull’immaginario, restituendo la ricchezza di uno spirito che vi appartiene e proviene da lì, da quei luoghi che, prima di essere geopolitici, sono letterari, per me. Il mio articolo non vi inchiodava alla crudeltà tout court (questa è una comunicazione sbagliata, perniciosa, in malafede, passata con l’accusa di Fulvio Grimaldi, in prima istanza, quando mi ha definito razzista, ha parlato alla vostra pancia, vi ha aizzato irresponsabilmente contro di me). Non è così, non sono razzista, antislava, antibalcanica. E’ l’esatto contrario. Lo spirito che vi accomuna di quei luoghi, distinti per vicende storiche, dolorose e di conflitti, è uno spirito di eccezionalità, nel bene e nel male. La grande letteratura, il cinema d’autore, la musica, viene da lì, la nostra cultura occidentale impigrita, ripiegata su stessa, vi deve tutto, l’irruenza, il genio, la passione, il dolore antico, una nostalgia intraducibile, la vostra peculiarità. Ero convinta che questo messaggio fosse passato comunque, anche perché tutto quel che scrivo è una celebrazione del vostro spirito antico, l’anima comune che vi appartiene, malgrado i confini su cui avete lasciato lutti, memorie, privazioni. Dicevo di Igor (allora ancora era il serbo per tutti), lo pensavo così, calato in questa verosimiglianza, tanto da farmi affermare: persino nella crudeltà siete peculiari, la vostra capacità di sopravvivere a lutti immani affiora persino nella crudeltà. E questo è genetico, questo intendevo per gene. Il vostro ammirabile superomismo. Persino nella crudeltà. E “persino” è il confine tra bene e male. Perché è lì che la comunicazione si è inceppata, in questo termine usato “gene“. Dostoevskij ha reso personaggi indimenticabili, corrotti nel male, ma capaci di restituire il sommo altissimo significato della pietas. E la pietas è il vostro carattere, la nostalgia che vi contraddistingue. Il realismo russo era un modo per raccontare la speciale eco che governa il vostro destino. ve-blogNon procedo per confini, non sono in grado, non ho gli strumenti. Ho riferito del cinema di Kusturica, per intendere una poetica del dolore che mi sembra molto prossima al destino di cui vi parlavo. Non vi commiserate, il vostro è un dolore coraggioso, non vi battete il petto con compiacimento come le nostre pie greche o siciliane o occidentali, voi andate avanti, con ardimento, con un orgoglio vostro solo vostro. Questo intendevo. E tanto vi accomuna tutti, e siccome parlavo di Igor, il pretesto era anche per dire: “Persino nel male. Persino. Siete peculiari”. Non perché noi occidentali siamo migliori. Il nostro male è pigro, non ha nessuna ragione, se non una ragione sazia, inutile. Il vostro no. Non so quanti di voi saranno in grado o disposti a capire. Ma il mio sguardo era uno sguardo di pietà, di segreta ammirazione. E non vi dico di leggere le cose che scrivo per averne conferma, non vi dico che mio figlio ha origini slave, o altro, no, perché so che i più maliziosi offenderebbero anche questa forma mia di devozione onesta e innocente. Vi hanno strumentalizzato, questa è stata la vera disonestà. Non sono sicura di essere riuscita nel mio intento. Ho provato a spiegare. Non avete capito il mio sguardo sul vostro mondo, sul vostro spirito inveterato coraggioso, nel bene e nel male, leggendario nel bene e nel male, fino a far rientrare Igor nella tradizione degli indimenticabili personaggi del realismo russo. Leggevo un bellissimo saggio sul male e Dostoevskij di Luigi Pareyson ed era una suggestione commovente che mi coglieva incantata. E ancora Kusturica e la traduzione di un dolore laconico, come lo troviamo in Cechov, restituito attraverso il riso che ha il suono del singhiozzo e che seppellisce il lettore o l’auditore o noi di qua (in Occidente) nell’amarezza e nello sconforto. Facevo riferimento a una precisa nostalgia slava (e di una parte d’Europa), che contiene tutto, molte radici. Avete scambiato il mio amore per una boutade ideologica disseminata da un ateo comunista che non ha capito molto, oppure no, peggio, ha capito strumentalizzando quello che volevo dire. Il mio sguardo era di pietà, amore, ammirazione, onestà, sgomento. E invece mi avete insultata minacciata derisa.

l’intervista su Vertigine

 

Veronica Tomassini, Sangue di cane (Laurana Editore, 2010): intervista

Sangue di cane, la sorpresa del 2010
di Rossano Astremo

Uno dei romanzi italiani più belli dell’anno, a detta di molti addetti ai lavori. Il titolo è “Sangue di cane” (Laurana Editore). L’autrice è la siciliana Veronica Tomassini. Il romanzo racconta la storia dell’amore impossibile tra una ragazza di Siracusa e un uomo che di professione fa il semaforista e che per sopravvivere chiede l’elemosina. È con lui che divide la sua quotidianità: Stawek è un alcolizzato, dorme nelle case occupate o nei vagoni morti. Alle spalle dell’uomo c’è un matrimonio contratto in patria e un passato in cui il suo mestiere è stato quello della violenza, nel futuro invece ci potrebbe essere la costruzione di una nuova famiglia, anche perché dall’unione con questa ragazza siciliana è nato Grzegorz. La storia, però, non concede nessuno spiraglio di consolazione.
Come e quando nasce il suo incontro con la scrittura?
La scrittura è stata la ragione segreta. Voglio dire, ho letto molto, da subito, da bambina, senza filtri, spesso, disordinatamente, mio padre aveva una libreria pazzesca. Lessi il diario di Christiane F. (“Christiane F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino”) che avevo nove anni. Dammelo adesso quel libro e lo chiudo sconcertata a pagina 20. Lessi Henry Miller (“Tropico del Cancro”) che avevo dieci anni. Lessi Moravia in fase preadolescenziale, ecco quella era la scrittura che interferiva, a mia insaputa. Ad ogni modo, si presentò ufficialmente con i primi sfoghi intimistici nei diari di scuola, è un classico, o con i temini in classe, prendevo buoni voti e capivo che mi piaceva combinare le parole, incastrarle, assecondare un flusso misterioso (da adulta lo chiamerò flusso di coscienza), seguendo una strada intestina, scoprendola salda e enigmatica. Poi dimenticai la scrittura, subentrarono anni bui. Ad un certo punto fu la scrittura a ricordarsi di me. Avevo vent’anni, giù di lì, si ripropose con il lavoro di redazione (collaboro con il quotidiano “La Sicilia” dal 1996). E da lì è ricominciato tutto.
Quali sono gli autori che più hanno contribuito a farle amare il mondo dei libri e perché?
Considero gli scrittori russi i grandi padri della letteratura mondiale; ogni scrittore deve qualcosa al realismo russo. Gorkij, Dostoevskij, Gogol, Tolstoj, Cechov, Puskin. La loro straordinaria capacità di raccontare la miseria umana attraverso un ghigno che ha suono di singhiozzo, un sorriso amaro che seppellisce il lettore nell’amarezza e nella disperazione, mantiene una perenne attualità, assolutamente loro. La distanza dal dramma che lo stigmatizza definitivamente, la laconica certezza dell’irreversibilità della defezione umana, è una grande lezione morale, prima che narrativa, stilistica, letteraria. E’ la grande lezione russa.
Come mai la scelta di pubblicare il suo romanzo con un editore nascente quale Laurana?
La scelta di Laurana è stata l’unica possibile per me: chi mi avrebbe dedicato il primo titolo e una tale attenzione? Laurana di Calogero Garlisi nasce come costola di Melampo, editrice specializzata in saggistica e in testi di letteratura civile; dunque non è che Laurana fosse nata lì per lì, ha già un background di tutto rispetto, con una struttura importante. Dentro c’è il valido sotegno di uno dei maggiori scrittori contemporanei, cioé Giulio Mozzi, e del giovanissimo e ottimo autore Gabriele Dadati, che in Laurana si occupa di editing, della valutazione dei testi e infallibilmente dell’ufficio stampa. Insomma una scelta la mia niente male.
Il suo libro è stato lodato da più parti, da critica e pubblico. C’è stato un complimento che più d’ogni altro l’ha segnata?
Quel che è capitato con la critica per me ha del prodigioso. Da Giovanni Pacchiano del “Sole 24 Ore” a Gian Paolo Serino ne “Il Giornale”, da Antonio Carnevale su “Panorama” a Francesca Frediani su “D Repubblica”, e tutti i blogger, da loro mi sono presa ogni parola, gratificata, le conservo quelle parole, le conservo casomai per i tempi di magra, per quando l’imponderabile dovrà retrocedere e i riflettori si spegneranno. E’ davvero tutto molto bello e intenso adesso.

Articolo per il Nuovo Quotidiano di Puglia

 

 

L’originale qui: https://vertigine.wordpress.com/2011/01/11/veronica-tomassini-sangue-di-cane-laurana-editore-2010-intervista/

appunti in attesa di maggio

Nella vita non ho fatto altro che aspettare. E’ anche per voi così? E’ una regola? Aspetto maggio, come ho aspettato molte altre cose. A Maggio uscirà il romanzo per Marsilio, leggetemi. Per favore. Vorrei che questo romanzo rimanesse. Tutti gli autori lo pensano ogni volta. Nel frattempo ho finito l’altro, ambientato nella periferia di Siracusa. Ma è diventato un luogo letterario che non esiste.

Il romanzo che uscirà a maggio è nato sotto gli auspici di più persone, Giulio Mozzi, una cara lettrice del mio blog (appassionata di libri, colta, attenta). Ecco senza Giulio Mozzi questo romanzo non sarebbe uscito. Come fu per “Sangue di cane”, ha girato così tanto. E poi è arrivato Giulio ed è stata una scommessa, ancora una volta. Una specie di sfida, come se Giulio avesse detto ai lettori: fidatevi anche stavolta.

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Giulio Mozzi, scrittore, talent scout, consulente editoriale per Marsilio

E poi ancora, il mio direttore, Marco Travaglio, anche lui, come è stato in “Sangue di cane”, partecipa in qualche maniera a questo “secondo” esordio, consentitemi il termine. Sono le stesse persone che non mi hanno mai abbandonato in questi anni, e sono passati tanti anni. Ne conosco il valore, la coerenza e la generosità. Oh quella, così rara. Ma io l’ho incontrata. Il romanzo che uscirà traduce il mio amore per una parte di Europa, per la sua musica, la sua anima. L’amore per Kusturica, gli autori russi, la Polonia. Il personaggio principale, dannato e insieme mite, coraggioso e spregiudicato, riassume i personaggi che ho amato in fondo nella grande tradizione del realismo russo.

Ma è tranche de vie. Non scrivo altro che tranche de vie. A presto, allora.

Igor: alla radice del male

C’è una crudeltà slava o balcanica che è intraducibile. Può essere restituita solo andando alla radice di uno spirito nazionalista o di un gene persino. L’addestramento dei militari serbi – giovani imberbi che avrebbero imparato presto la dissoluzione cieca e l’esaltazione del delitto – durante la guerra nella ex Iugoslavia, consisteva  nell’ uccidere una colomba a morsi, tenendola ferma per il collo. Mordendola nel collo fremente, fino a sentirne la carne palpitare, fremere di paura, il liquido rovinare tra i denti, in bocca. Prove di attraversamento, la follia di un nazionalismo inveterato, issato con esultanza, che deborda ora in un inno popolare e sontuoso ora nella capacità di infilzarsi gli intestini, nel nome di un pauroso umanesimo. Una crudeltà quasi favolistica. La crudeltà di Igor, la fiera braccata, un esercito lanciato dentro campi brumosi, solo per lui. La crudeltà slava chiosa con una smorfia, si prende gioco – perdendo infine – del suo esatto contrario, la pietà. Una tempra sopra la media e la maledizione di saper sopravvivere. E’ il destino di Igor: riassume il gene, il castigo, la maledizione appunto di saper sopravvivere. Così prossimo al nichilismo dell’antieroe russo di Dostoevskij, Stavrogin, il demoniaco, demiurgo del male totalizzante che inneggia “alla distruzione per la distruzione”.

++ Guardia provinciale uccisa, forse omicida Budrio ++

Igor Vaclavic

Stavrogin muore suicida, è l’empio compimento dei professatori di una crudeltà con una precisa fisionomia, irrinunciabile, dove finanche la morte ripara nei funerali priva di commiserazione, è un bicchiere di vodka alzato, uno schiocco di piatti. Non troveremo in essa la ragione dei pianti delle nostre pie. La nostra è una morte occidentale, la nostra è una pigra crudeltà da occidentali, smarrisce il senso ultimo di una idea avvelenata usata fino a consumare l’esaltazione del crimine. Crimine vuoto, ai limiti della stupidità, per eccesso di ostentazione. Qualcosa possiamo intercettare nei film di Kusturica, ambientati sulle colline di una rediviva Sarajevo, qualcosa di circense, abbastanza da sgomentare tanto quanto l’efferatezza laconica che nutre sé stessa, la colomba che muore sotto i morsi di un giovane imberbe nelle fila di un addestramento militare. Il serbo Igor, capace di addentare l’animella che palpita, fino a sentirne il sangue precipitare in gola. Non è una consolazione, non scagiona nessuno ritrovare l’umanità degradata di Igor il serbo nella grande tradizione del realismo russo, da Smerdiakov dei frateli Karamazov, a Stavrogin e Petr Verchovenskij de I Demoni. Igor viene da lì nel luogo e nel tempo del sacrilegio e della profanazione.

 

L’originale qui:

 http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/la-maledizione-di-saper-sopravvivere/

Da “Mazzarrona”: il ballo di primavera

Scendevo per la china del colle. Cercavo Massimo. Avevamo progettato con Romina di uscire insieme la sera stessa per il ballo di primavera dei liceali. Non era difficile trovare un paio di biglietti da un bagarino. Ne avremmo rimediati senz’altro. Il ballo di primavera era un’ottima occasione per indossare abitini leggeri e colorati. Ed erano incantevoli le ragazze con i loro vestitini leggeri. I giovanotti del liceo erano al solito goffi perlopiù, insaccati in jeans alla moda e camicie che non abbottonavano al collo. Massimo invece aveva un atteggiamento controllato, un’eleganza molto inglese, mi ricordava abbastanza il fascino scavato di Jeremy Irons. Massimo era alle baracche. Era vestito di bianco. I capelli bruni lucidi, la sua pelle delicata, il suo pallore. Oh Massimo. Mentre attraversavo velocemente i sentieri della campagna, sentivo assalirmi di nuovo la passione mista a pietà per quel ragazzo che indovinavo malinconico e disperato nella sua attesa quotidiana. L’unica fedeltà a cui aveva giurato costanza, severità. Non smetteva di aspettare qualcosa che era fuori da me e dagli umani. Era l’eroina il suo assillo. Ognuno con il suo. Non ero meno patologica. Non ero libera dalle dipendenze. La mia dalla tristezza era fine a se stessa. Ma non importava, non in quel momento in cui correvo verso la meta, lui, alle baracche. Mi sarei gettata nel suo abbraccio esitante, la mia vita che esondava nella sua più discreta, guardinga. E ne rimaneva sorpreso, la sorpresa era sempre un passaggio prima della diffidenza e del drammatico abbandono, a me, al nostro amore di adolescenti. Aveva le mani in tasca, poi mosse lo sguardo nella mia direzione. Lo raggiunsi e lo abbracciai con una contentezza nuova, come se fossimo nati entrambi allora, scoperti allora al mondo nuovo e innocuo. Lui mi lasciò fare, strinse appena i miei fianchi. Aveva addosso la sua dose, l’eroina era in circolo. Aspettava ma senza smania. Potevo parlargli e immaginarmi una seppur minima attenzione. Cetty usciva dalle baracche con un tizio. Aveva un tailleur bruno vinaccio, era senza calze, aveva i polpacci graffiati e le ballerine nere lucide consumate in punta. Era struccata e stravolta. Era bellissima. Ma Cetty si sarebbe salvata. vvvvv

Massimo sarebbe venuto al ballo. Ok, disse, verrò. Sapevo già a chi chiedere, da quale bagarino comprare i biglietti. Massimo ora guardava per terra. In realtà guardava me, era il suo modo di starmi a sentire, non guardarmi, guardare i piedi, la terra, le siringhe conficcate sul terreno. Tutto tranne me. Mi piaceva interrompere la sua anomala timidezza, con domande sciocche, petulanti, da ragazzina innamorata: “Dimmi, di che colore sono i miei occhi?”. Lui allora spostava lo sguardo, fissandomi il volto, non so dove, forse le guance, la bocca, poi gli occhi. Ed era stralunato, piccino, era piccino così come lo chiamavano nella valle di Mazzarrona: u picciriddu.

Allora rispondeva: oggi sono verdi, a volte sembrano gialli, con strisce un po’ rosse intorno. E quella volta rispose veramente. E io tacqui. Commossa fino alle lacrime, che combattevo nemiche e stupide. Non volevo commuovermi più per Massimo. Irragionevole ragazzina. Massimo però mi perdonava tutto, come faceva Ilaria. E anche Romina capiva tutto di me. “Sai Massimo” dissi, “il ballo di primavera è il ballo che aspettano tutte le ragazze del liceo, tutte le ragazze del mondo”. Ridevo. Anche lui. Poi  gli misi una mano sulla guancia sciupata. La pelle morbida e calda. Lui poggiò la sua mano sopra la mia. Gli promisi: non ci lasceremo mai.

Copyright © Veronica Tomassini. Tutti i  diritti riservati trattati da Miraggi – Agenzia Stradescritte

 

 

l’ineluttabile procedere delle cose

Sedevo all’ombra del sicomoro, guardavo il mare. Guardare un punto lontano laggiù verso la fine del mondo sbagliato era la mia giovinezza. Ero tornata alle case. Sola. Una condizione che imparai presto, non a governare, non ad accettare, imparai soltanto. Si impara la solitudine, una condizione profonda e direi genetica. Chi me l’aveva lasciata irresponsabilmente? Allora mi sovvenne un passo de Prima che il gallo canti. E immaginai Stefano l’ingegnere bardato di ideologia, costretto al confino, attraversare le vie di un paesino bestiale e guardarsi solo, con l’indulgenza che gli restituiva il vino. Il mare era l’animale che affannoso si aggrappava alla riva ed erano  di nuovo brani di romanzi, stavolta era Malaparte, a franarmi sui pensieri, senza che ne formulassi uno sapendomi sicura che fosse veramente mio. In quella solitudine compiaciuta a tratti ritrovavo un codice muto, una identità migliore rispetto a quello che dovevo dimostrare fuori dalle case. In un recinto, confinata all’ombra del sicomoro, ero tutto sommato me stessa così come desideravo essere. Infrangere le righe, tipico di quell’età, infrangere come si affrettava a riparare il mare sulla rena. Nella stessa rena dove andavano le coppie di amanti d’inverno. Li vidi un giorno, Romina mi prese il braccio: dai, andiamo, disse. Però li ricordo. Sentìi una fitta allo stomaco, il calore salirmi su fino al viso, le gambe di lei, quel movimento violento, quasi innaturale. L’insolenza del desiderio mi colpì con la stessa violenza che ricorda il piacere. Non me li toglievo dalla testa. Chiesi a Romina se anche lei faceva così, come quei due. Se era così che doveva essere. Certo, è così, rispose Romina. Con Massimo succedeva in silenzio, una dolcezza impalpabile che non riusciva a raggiungermi. Qualche volta sì. E mentre mi raggiungeva, mi tornavano alla mente i due sulla spiaggia o prima ancora la forza dei gorghi che vedevo al centro della baia, intorno alla roccia dove si riposava il fenicottero rosa. Credevo che l’amore avesse a che fare con una forza sopra l’umano modico tiepido considerare. Non vorrei sbagliarmi, lo credo ancora oggi. Un forsennato fulgore che andiamo cercando. Non smettiamo di ansimare per esso, cercandolo.

Dietro di me sentivo la presenza di Massimo, era lui, ne ero certa. Mi girai. Eccolo. Bianco, gli occhi dentro due fossi. Neri, violacei. Era immaginarlo già altrove. Pensai che era lì per andarsene, sarebbe stato un congedo prima o dopo, definitivo, precoce. Perché vai via? Gli avrei urlato con tutta la disperazione che ingenerava l’ineluttabile procedere delle cose. Lui mi guardava con stanchezza o gratitudine. O fosse stato l’amore? Era l’amore?  Si venne a sedere accanto. Aveva il volto sudato. Poi non so, forse piangeva. Io credo che fossero lacrime. Mi abbracciai a lui che vacillava. Non era fermo. Era sempre troppo fragile. Doveva sopravvivere, maledizione, come tutti avremmo fatto, ognuno come poteva, come sapeva.

Non era troppo freddo, era ancora marzo. Era primavera. Nessuno può morire in primavera.

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini. Tutti i  diritti riservati trattati da Agenzia Strade Scritte – Miraggi edizioni (febbraio 2019)

 

il cambiamento

Non mi abbandonai alla confessione plateale sulla mia magrezza e sulle assenze, sul perdono, sui poveracci in attesa alle baracche. Su argomenti noiosissimi. Quel tipo di intimismo va bene solo per la scrittura, è il pasto che gettiamo nelle fauci avidissime della scrittura. E’ una faccenda da adulti, ma colpiti da fulgidissime illuminazioni, vai a pensare che i casini sono la ragione di un’assenza. Mica ne parli con un’amica a un’età. Eravamo bestioline, incassavamo gli effetti di una causa nascosta, un tabù che non sapevamo chiamare per nome, che nemmeno cercavamo. Non è che una vita in pezzi aveva un colpevole che fosse fuori da noi. La mia non lo era in pezzi, non ancora. Era solo interrotta nel suo normale svolgimento. Eravamo tutti colpevoli di non esserci mentre avremmo dovuto, ma eravamo innocenti anche. Con Ilaria ci addentrammo lungo il sentiero che conduceva alla ferrovia, il più vicino al mare. Superammo il colle, sotto il sicomoro carezzai con gratitudine la ruvidezza dell’arbusto come se mi attendesse, sentivo la scabrosità così palpitante sotto le mia mani. Era lì per noi, stentoreo e vigile sulle nostre vite incapaci, la nostra consistenza nel mondo degli adulti era esigua, non esistevamo. Chi si occupava di noi? Massimo mi aveva guardato, ero lusingata. Ilaria disse che anche a lei era sembrato che mi guardasse. Forse ti ama ancora, disse. Raggiungemmo un tratto della costa quella che in prospettiva mostrava meglio la piccola isola frastagliata dove spesso riposava il fenicottero rosa. La luce era ancora desta, ma prossima al tramonto. Sarebbe stata l’ora dei colori cangianti in cielo. Per Ilaria era incomprensibile, quel recinto, quella gente, il mio stesso desiderio di rivederla. E infatti mi chiese: “Ma perché vieni qui? Cosa c’è qui per te? Io non ci verrei. Anche se tu dici di amare Massimo, non ci verrei nemmeno per lui”.

Cambiamo tutto, cambiamo vita! Esultò. E d’improvviso mi parve di aprirmi, di sgusciare, dal mostro che mi tratteneva. E il cambiamento fu la parola esatta in quel momento, intravedevo la possibilità. La possibilità aveva un nome allora, il cambiamento. Che poi è la svolta di ogni questione. Tornammo indietro. La vespa era ancora al pilone, nessuno l’aveva toccata. Era intatta. Bene, dissi, siamo state fortunate. I tossici erano andati via. Massimo non mi aveva aspettato. Certamente. Aveva un’altra. Non mi entrava nella testa. Salii in vespa e tornai a casa. Dovevamo studiare. Avevamo l’interrogazione entrambe. Ilaria era una ragazzina gioiosa. Le case non erano posto per lei e alle case non l’avrei ricondotta più. Glielo dissi con una certa solennità, sotto il portone, da me. La salutai con questa ridicola gravosità. Aveva un cappellino di lana in testa, le guance rosee per il freddo della sera che oramai era sopraggiunta. Disse con la sua vocina: “Sono così stanca che non ho voglia di studiare”. Era lo spirito cattivo di Mazzarrona, toglieva tutte le forze, succhiava le nostre vite. Avremmo ritrovato i nostri libri, ad attenderci. Eravamo le brave bambine. Avremmo indossato il pigiama, acceso la lucina sullo scrittoio e studiato fino a notte.ve-blog

Prima di dormire, pensai ancora una volta a Massimo. Girai la testa sul cuscino, i capelli erano umidi. Mi addormentai con in testa la faccia stravolta di Massimo. Era lui il mostro che mi tratteneva o era anche lo spirito cattivo di Mazzarrona. Ripassai a mente il brano di storia. Poi il sonno mi trascinò nel buio.

 

 

 

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini. Tutti i  diritti riservati trattati da Vicki Satlow Literary Agency,  Milano

 

l’amore è un sacrificio

Forse era sera. Eravamo dentro in baracca, la penombra del pomeriggio era anonima. Non avevo idea di che ora fosse. L’assillo del tempo mi raggiungeva quando ero con Massimo. Il tempo sicuro avrebbe dovuto consolarmi. Massimo era lì. Voleva dire che c’era, che stava succedendo davvero. Era la sera delle baracche, anche se fuori era giorno. In baracca era notte. C’erano le candele ad illuminare brevi anditi. Uno sgabello più in là. Massimo mi era accanto, non avevamo bisogno di dire niente. Coperta dal suo eskimo, ero felice. Perché era successo qualcosa ed ero certa che stavolta lui avesse provato un sentimento. A lui era piaciuto. E anche a me. Mi infilai il maglione e il resto, raccolsi gli indumenti sparsi sul pavimento pieno di ostacoli, ovunque flaconcini, stagnola, mondezza. Massimo mi faceva luce con la sua piccola torcia. “Perché ti sei vestita?” chiese. Come se lui mi avesse vista realmente. E io volevo solo coprirmi piuttosto. Gli scuri erano malmessi, procuravano strani suoni simili a lamenti, a ragione del vento che proveniva dal mare. Provai ad aprirli, erano bloccati, tendevano a chiudersi, incastrandosi nella volta sottostante. Mi alzavo sulle punte. Era inutile, rimanevamo al buio. Massimo mi invitò a sdraiarmi di nuovo. La voce strascicata. mare“Dai, vieni”. Per favore, disse. Ecco quel per favore mi raggiunse con la forza del desiderio. Bruciavo per esso. Così, inaspettatamente, capisco che ogni impulso proveniva dalla pietà. Invece volevo punirlo per tutte le volte che non c’era, che non mi guardava, che mi aveva dinanzi e non sapeva di che colore fossero i miei occhi. Volevo punirlo per il suo insensato sonno. Allora si sollevò, sentivo la sua presenza, lo sentivo avvicinarsi, rimasi dov’ero, il suo calore era alle mie spalle. Taceva. Come sempre. Le sue parole così avare con me. I lamenti provenivano dal mare, gli scuri si muovevano con fatica.

Massimo.

Lui taceva.

“Io penso di amarti. Ti sembra possibile?”.

Taceva. A me venivano le lacrime agli occhi, d’improvviso. Era una cosa che odiavo. Lui non poteva vedermi. Non piangevo. Non più. E non era per Massimo. Non aveva mai un vero motivo questo stupido pianto. Lo stesso pianto dei bambini che si svegliano la notte e hanno paura. Non avevo paura.

Mi prese le spalle mi girò verso di sé. Avevo chiuso gli occhi. Era tutto perfetto. E mentre accadeva di nuovo, pensavo alle mie compagne di liceo. Non era sciocco da parte mia interrompere i pensieri con altri inopportuni? Pensavo alle compagne del liceo, certe cose non potevano capirle. A loro il vero amore non sarebbe capitato. Troppo stupide per incontrarlo. L’amore era un sacrificio, come lo era Massimo per me. Quando ho smesso di pensare, lasciai che la stessa onda ci trascinasse, dentro il suono lontano che proveniva dal mare, e gli scuri sbattevano appena ed era sera.

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini. Tutti i  diritti riservati trattati da Vicki Satlow Literary Agency,  Milano