Monthly Archives: January 2017

Una rivoluzione siciliana (dal Fatto Quot.)

Cercavamo l’uomo nuovo. Ancora uno, l’imprimatur è una specie di maledizione, i destinatari finiscono per riparare in un qualche recinto di confine: l’infamia, una sconfessione tout court, o la sollevazione del consiglio comunale. L’uomo nuovo di Messina per tutti era il sindaco scalzo, quello delle magliette pacifiste con la scritta Free Tibet, Renato Accorinti, il potestà buddista, il neofita innocente –  su cui si è interrogato con una certa curiosità  Der Spiegel – dogma usato fino a sfiorare la retorica di un badge, non politico per definizione. Oggi il manifesto virtuoso è la taglia sulla sua testa. L’uomo della rivoluzione. Solo che a Messina le rivoluzioni devono durare poco. In Sicilia, in generale. Avevamo creduto ai Forconi, alla veemenza di Mariano Ferro, per doverci ricredere quasi vergognosamente, restando nella medesima impasse: restando i soliti “cornuti” dello Stivale. Spariscono gli impeti, salvo sommosse da outlet, approntate e maldestre. Accorinti prometteva la sua rivoluzione dal basso, intestandosi l’omonima lista civica. In consiglio adesso vogliono votarne la sfiducia, evitare il commissariamento, toglierselo di mezzo. Lo stanno facendo, persino i suoi, simpatizzanti della rivoluzione della prima brevissima ora.

messina

Messina

Messina fondamentalmente rimane di destra, malgrado sia ancora in forza un pd filaccioso, dove non smettono di addensarsi ombre da prima repubblica. La genealogia riconduce tutti a casa, il vecchio sistema da rodaggio consolatorio, il sistema da obsoleta Dc, con i suoi nipoti e pronipoti. O se vogliamo il cosiddetto “sistema Genovese”. Come lo chiamano in città. Cioè o stai dentro o stai fuori. Accorinti sta abbastanza fuori, da buon cane sciolto. Nel corso principale incontriamo nostalgici e reazionari, non di Accorinti, ma di chi pare – almeno nella convinzione dei messinesi – conti sul serio, faccia girare potere, economia, dunque Francantonio Genovese. Lui non era certo l’uomo nuovo, sindaco, onorevole, nipote del ministro Gullotti. Era l’uomo della formazione professionale, però. Finita quella, con buona pace di Crocetta, finisce tutto. Al bar di viale San Martino, al tavolo, discutono alcuni veterani della formazione. Disoccupati che hanno superato i quarant’anni, come Salvatore Romeo o Saverio Arnone che di anni ne ha 58, potevano aspettare e andava in pensione. Invece lui, l’amico e altri ottomila oggi mantengono la loro medaglia di fuoriusciti. “E’ crollato un regno”  – dice Saverio Arnone, lui non ha votato Accorinti comunque. Lo ha votato l’amico Salvatore, nostalgico di una promessa: la rivoluzione. Niente da fare. “I messinesi –  dice – vogliono i padroni di prima”. Lasciando intendere che non se ne sono mai andati. Come se fosse possibile. “Messina vuole i cambiamenti, con Accorinti non ci sono stati”. Subito? Una rivoluzione siciliana ha bisogno di secoli, a esser precisi. E’ solo un altro modo per ammazzare il tempo, fintanto le cose procedano con il medesimo metodo. Stai dentro o stai fuori. Accorinti non è furbo abbastanza. E’ questa è un’opinione diffusa. Mischinu, quasi “babbu”. Babbu per i siciliani è un modo per indicare una certa estenuante purezza, una poca praticità. Gli uomini seduti al bar convengono sulla sventura di una tale purezza. Uno di loro azzarda: non ha nemmeno gli uomini giusti.  Accorinti è solo. Ma è la storia siciliana, noiosa, rincorre identiche tipologie di superuomini: uomini normali affetti da una discreta confidenza con la legge, con la legalità. Superuomini o negletti sconfessati nel civico consesso. Uomini giusti Accorinti non ne ha azzeccato uno o forse sì, l’assessore al bilancio, il toscano Luca Eller, e anche il direttore generale dell’azienda municipalizzata dei trasporti (Giovanni Foti, nda) che è torinese e che ha messo a posto almeno una rubrica. Corpi estranei, il vino buono nella otre vecchia. L’esterofilia ha funzionato per rimettere a posto qualcosa. Con Eller il rischio default viene scongiurato. Una mostrina al petto per Accorinti. Gli autobus coprono le tratte senza singhiozzo. Potrebbe bastare, per cominciare. No. Il sindaco indossa la maglietta con su scritto: Free Tibet. A Maggio ha invitato il Dalai Lama. Messina ha una vocazione conservatrice. Vuole vedere gli obiettivi, la marcia pratica del reazionario in grado di misurarsi fino a vincere nel ballottaggio con un uomo di Genovese, ancora lui, tal Felice Calabrò. Arrivò a Palazzo Zanca a piedi nudi. Una trovata strampalata per annunciare uno stile. A piedi nudi, diceva Accorinti, “per restare con i piedi per terra”. Messina si trova spaccata: nostalgici e reazionari. I reazionari non sono necessariamente anime belle, sono i non ricollocati, i ricollocati non del tutto, coloro che se non hanno potuto con Genovese, ci riprovano con Accorinti. Accorinti che era partito con il distintivo “No Ponte” ed è finito con un Free Tibet accolto con disdegno dai suoi elettori, alla fine della fiera e non proprio del mandato. Perché in definitiva cercavamo l’uomo nuovo soltanto per trovare la medesima  storia siciliana. E’ una vecchia storia. Non ne usciremo mai.

L’originale è uscito il 29 gennaio 2017 sulle pagine de Il Fatto Quotidiano (“Messina, la svolta azzoppata e il “richiamo” dei padroni”)

potete leggerlo anche qui: http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/messina-la-svolta-azzoppata-e-il-richiamo-dei-padroni/

Gli assenti

Spiavamo gli uccelli immobili sull’acquitrino. Dietro le baracche una morta palustre era il ricovero di creature placide, dalle lunghe ali umide. La natura ci perdonava. Romina sapeva modulare un fischio molto efficace, così che radunava i volatili delle cinque della sera. Formavano nubi affascinanti, si comportavano come un branco mansueto. Migliaia di volatili. Qualcuno di questi ascoltava il fischio di Romina. Uno storno venne a riparare nel mio palmo, lo aspettavo. Romina mi disse: stendi la mano. E lo storno seguì il suono, e poi si fidò del mio palmo. D’improvviso il cielo si fece buio. Sembrava dovesse piovere, alle baracche il buio faceva molta paura. Non temevamo gli uomini, ma le ombre degli assenti. Quelli ci facevano paura. Gli assenti. I morti. Anche Massimo poteva esserlo. Non era morto, perché nessuno era venuto a dircelo. Alle case si sapeva sempre tutto. Sai le cose come funzionano, dissi a Romina. Un giorno il tipo sparisce e addio. Cioè non ti saluta nemmeno, funziona così. Romina sorrideva amara come sempre. Lei conosceva la vita, i dettagli laidi li aveva davanti agli occhi. Io parlavo come una sciocca, imitavo i dialoghi di un film. Cosa funziona, ripeté Romina, con la sua bella voce rauca, consapevole ma priva di tristezza. Consapevole e capace di riderci sopra, le cose che diventano arcigne simili a una mutria. Riderci.elide

Massimo sarebbe tornato. E’ un tuo problema, mormorò Romina. Se Massimo torna continuerà a farsi, promise. Non devi promettere, le urlai. Lei era già di spalle, aveva lasciato le creature sul filo dell’acquitrino. Le ombre scendevano sul resto. Odiavo la sera a Mazzarrona. Dalle baracche non provenivano rumori. Mi assediava la paura o era la nostalgia. La nostalgia non era solo la scusa di un tossico, era la sostanza del nostro vivere, molto vigliacco. Sedetti sulla riva, ai bordi dell’acquitrino. Era umido. Tremavo, mentre tutto intorno era una cupio dissolvi. Massimo sarebbe tornato, perché io l’amavo. Cos’era l’amore? La necessità di tornare a casa, sparire, dentro qualcosa, qualcuno, era la paura che mi induceva al bisogno. Era un bisogno, non un’azione. Amare era una necessità. E invece doveva essere un’azione, un modo di stare nelle cose. Verso l’ombra Romina spariva, senza cercare altro che la vita da attraversare ogni giorno, con passi pesanti. Noiosamente, buca dopo buca, affondarvi i piedi. Torneremo tutti insieme, immaginavo, un ritorno glorioso. Fuori da lì. Ero andata a prenderli, per portarli via. Così farneticavo. E dicevano che ero matta e usavo parole troppe lunghe. Forse avevano ragione?

(continua)

Copyright © Veronica Tomassini. Tutti i  diritti riservati trattati da Vicki Satlow Literary Agency,  Milano

 

Carlo Grimaldi. Christiane F. La letteratura dell’eroina.

Quando prendo in mano il libro – oggi – non ho un vero sussulto. Non c’è la sovracopertina, era plastificata, in primo piano c’era una siringa, se non ricordo male. Arnoldo Mondadori Editore, leggo prima della dedica. La dedica è per Gabriele: alla mia, alla sua libertà. Ma è passato così tanto tempo. Le pagine sono gialle, macchiate dalla muffa, rovinate dai tanti traslochi. Il romanzo di Carlo Grimaldi è sopravvissuto. La sua storia di drogato, era il sottotitolo. “Un lungo flash”. L’ordinai al Club degli editori di cui mio padre era socio. Credo che avessi dodici anni. Era il 1984, dunque. Frequentavo le scuole medie. Ero ancora presa dal diario di Christiane Felscherinow, “Noi i ragazzi dello zoo di Berlino”, che avevo già letto talmente tante volte da conoscere brani interi a memoria. Lo leggevo a scuola, ai miei compagni. La scuola erano garage, i miei compagni vivevano nelle case popolari, qualcuno è finito a farsi, qualcuno è in carcere.

Ero diventata un problema per i miei genitori. Lo ricordo. Non potevano ad esempio condurmi nei sottopassaggi a Roma, quando prendevamo i treni per raggiungere i parenti, mi fermavo a ogni piè sospinto a fissare gli uomini accucciati per terra. Una volta mia madre mi dovette trascinare, ai miei piedi un ragazzo dormiva, sembrava morto.  Si era solo fatto una pera. Avevo pochi anni. Sapevo tutto. Non volevo andare. Era una via del centro. Questo giovane dormiva che sembrava morto. In testa mi girano parole come spada, scudo, scimmia. Il gergo degli eroinomani. Poverino, mormoravo, i miei genitori erano costretti a rimproverarmi, temevano la mia sensibilità. Non era sensibilità, tuttavia. Era una trasformazione che si faceva largo, un condizionamento, la formazione di uno sguardo. La perdita dell’innocenza. Cercavo qualsiasi testo che riconducesse all’eroina. Altri romanzi, dopo il diario di Christiane, ne volevo sapere di più, ancora di più, come se fosse possibile. Così arrivai a Carlo Grimaldi. “Un lungo flash” raccontava la sua tossicodipendenza da eroina appunto, ambientata nella Milano dei primi anni ’80, del Giambe, del Solari, delle piazze, dei ricetta. Non era solo autobiografismo. C’era la scrittura. Mi piaceva Carlo Grimaldi, oggi ne sono ancora più sicura. Restituiva proprio l’idea di quegli anni, i viaggi in India, l’ero, l’impegno politico che giustificava in fondo la scelta di usare le sostanze. Erano quegli anni.

Un lungo flash.jpg

Una pagina dal libro di Carlo Grimaldi

Niente di più di quello che mi aveva detto Christiane. Però mi era piaciuto. Era in corso la formazione di uno sguardo. E anche Carlo Grimaldi concorreva perché lo diventasse. Forse ce l’aveva fatta. Alla fine del libro, Carlo racconta la guarigione, in una comunità in Inghilterra. Ce l’ha fatta. Chiusa l’ultima pagina, provai una nostalgia inenarrabile, uno sgomento senza un’origine chiara (almeno allora), qualcosa che non mi lasciava in pace. Non so spiegare, posso immaginare fosse semplicemente l’esordio di un’inquietudine che anticipava gli anni a venire. Da adulta, scrissi una lettera a Christiane Felscherinow, dovevo chiudere alcune questioni, come se ne avessero una qualche responsabilità, lei o Carlo. Di Carlo invece avevo perso le tracce, non c’era niente nemmeno in rete. Scrissi un pezzo nel blog che curo per il Fatto Quotidiano, dove parlavo di lui, lo cercavo. Niente. E’ passato un anno e mezzo da quel pezzo. Ieri in posta trovo un messaggio: Ciao, sono io, sono Carlo.

Sono vivo.

il male scritturale (dal fatto Quot.)

Nelle visioni notturne e apocalittiche del profeta Daniele, l’esecuzione del male e del potere ha la forma di bestie multicorni, dai denti di ferro, che stritolano, manipolano, divorano. Così il male è scritturale e si replica. Lo rincontreremo, è la promessa biblica. Eppure è una bestia diversa quella che restituisce l’ultimo frame della strage dei coniugi di Ferrara, la bestia è una creatura che non vuole lasciare la sua casa. E’ un cane, lucido, nero, si poggia sulle zampe, resiste agli uomini che vogliono infilarlo in un furgone bianco. La notte cede al suo terrore. Il cane stringe i glutei dalla tensione, fissa le zampe sulla terra, si piega in una specie di inchino, più in là l’uscio è ancora aperto e  intorno si spargono refoli di terribili afrori, il sangue, la morte assisa sul corpo massacrato di un padre e una madre. Il cane nero poggia il muso sull’asfalto, sembra un bacio o qualcosa di prossimo a un addio.

L’ingegnere Vittorio Materazzo è stato sgozzato, sventrato, con la furia delle bestie dominatrici e apocalittiche che narrano le Scritture e come recitano i Salmi è il medesimo braccio dell’empio che si alza sul giusto. Il 28 novembre scorso, a Napoli, l’ingegnere Vittorio muore sotto le lame di un taglierino e un coltello da sub infilato trentacinque volte dal braccio del fratello, Luca, più giovane. Vittorio prova a sottrarsi, esce dal portone di casa, dove le lame lo avevano sorpreso e infilzato, si trascina fuori, il fratello lo raggiunge, lo finisce in strada, la sferza finale sulla gola. Luca aspirante avvocato, indolente, pare, alla professione. Piuttosto proclive alle foto sui social,  innocuità schizofrenica delle sue recenti vacanze in montagna o al mare,  sono i post del suo profilo facebook. Una mediocrità borghese e insieme l’avatar dietro cui la bestia apocalittica e delle profezie digrigna i denti di ferro, riproducendo la scabrosità di un delitto lontano fino alla notte dei tempi. Caino sarebbe fuggito, il cogito della violenza perenne, il deus ex machina primordiale. L’Eterno lo risparmia. “Dov’è Abele, tuo fratello?”.  Lui risponde: “Sono forse io il custode?”. E tuttavia Luca, l’empio,  il caino, sparisce senza l’espiazione truce dell’errante maledetto, un destino se vogliamo persino di glorioso e severo oblio, quello primordiale, genetico, dalla Genesi.

Luca sparisce, nel suo oblio governa parziale la postilla “vanità” da sacrificare nel suo profilo-mausoleo, l’avvocato i cui frutti non graditi hanno consumato il crimine, si mostra sui social con i suoi addominali fasulli. Si rende latitante. L’oblio lo investe, ma a brani. La pulsione dell’ego è un immondezzaio di patetismi, Luca il caino raggiunge il prevedibile standard di idiozia, un male idiota si impadronisce dei suoi svuotati esecutori, bestie feroci senza ardimento. Immeritevoli di profezie. Perché finiscono sui social con un addominale gonfiato, la fissità del sorriso di un trapasso, nel fuoco metaforico della valle di Ennom. Luca errante, caino, la cui maledizione non gli impedisce la raggiungibilità normalizzante di un profilo facebook in stato di aggiornamento. Ma il male si riproduce noioso a se stesso. Lo scontiamo fino alla banalità. Se non fosse che, mentre una donna brucia a intervalli regolari, scavata dall’acido muriatico versato sul suo bellissimo volto dall’ex fidanzato, a Rimini, o mentre l’altra con le braccia fasciate ustionate dalla benzina, a Messina, difenderà l’innocenza del suo torturatore, il male glorioso e sfinito si inginocchia dinanzi a una creatura che sfida la ferocia di tutte le bestie profetizzate e portatrici di apocalisse, il frame di una creatura dal pelo lucido e nero, il suo bacio sull’asfalto, qualcosa di prossimo a un addio. Gratuito e tragico come il perdono.

L’originale è uscito sulle pagine de Il fatto Quotidiano  venerdì 13 gennaio 2017

http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/lame-e-acido-la-bestia-e-social/

 

commento violenza.jpg

Roma: i giorni di fine Impero (da Il Fatto Quotidiano)

 

Seduta sul gradone in piazza San Pietro vorrei sentirmi nel centro della cristianità. Dovrei esserlo, quel che accade intorno invece mi restituisce il presagio oscuro dei giorni di fine impero. Intorno vedo solo i mercanti del tempio, il caos parla tutte le lingue, mi chiedo chi parla la lingua di Dio. Chi dovrebbe, va molto di fretta. I prelati sono sfuggenti, ispirano severità e distacco. Sotto i portici rotolano o dormono i barboni. Niente di nuovo, disturbano il decoro e la prassi. Bevitori raggruppati agli angoli, una specie di esercito di ratti tollerato appena, scalciato a scansione insieme con i mestieranti del dolore, postulanti abilissimi nell’architettura del pietismo, storpi, ciechi, gobbi, vecchine intubate, con il fazzoletto in testa, pigolanti nenie infinite. Miseria da gadget, fissata nelle pieghe di una recita corale e miserrima.  Rom specializzati, ma non abbastanza. Mi domando ancora quale turista, di quale paese del mondo, abbia creduto veramente all’uomo claudicante, con la stampella, che a pause regolari fuma la sua sigaretta, dimenticando il piede offeso, e strizzando l’occhio al vigile che parla poco più in là, o alla donna incappucciata che mangia noccioline – distratta e libera – a conclusione della giornata, in cui ha steso la mano e pianto, pianto e allungato il bicchiere. Meritatissima free zone della finzione, la peggiore forse. Per chi è abituata ai noiosi tempi di una città di provincia del sud, Roma sembra più spaventosa che mai. Cercare Dio e chiedersi continuamente perché? Ci sono uomini che dormono nelle fioriere in prossimità del Vaticano, o del centro giovanile di preghiera voluto da Giovanni Paolo II a pochi metri da via dei Penitenzieri o chissà dove altro ancora. E ci sono i principi della chiesa che non guardano nessuno, che tirano diritto. E tutto brilla moltissimo, costa moltissimo, pretende esclusività. Non è una luce che ci illumina tuttavia. E’ una luce che fa ombra. Certo, e allora? Dove sta la novità? I giorni di fine impero, così succede in tutte le metropoli del mondo. Non c’è tempo. Non c’è tempo per usare onestamente il pronome: noi. Impari subito, a non esistere se non nella calca. Un niente spinto di qua e di là e di fretta, dagli agenti, dagli altri, che ti abitui a non guardare.san-pietro

E’ l’anno della Misericordia, bisogna attraversare la porta, l’indulgenza e tutte queste cose, i pellegrinaggi nella Basilica di San Pietro, file che durano giornate intere. Nel frattempo i ratti si mostrano quasi uomini, vengono sbattuti fuori, o maiali fuori dal recinto, non so come dire, dentro solo chi può, e non possiamo dire: dentro la cristianità. No. Sulla soglia di un sottopassaggio, si sente una musica rom, proviene da un’armonica e si perde nel buio. Sopra siedono altri barboni. Di fronte c’è la casa di carità “Dono di Maria”.  C’è odore di minestrone e di buono.  Gli uomini seduti per terra sono nauseabondi.  Sono deformi.

I prelati, ligi, attraversano lo slargo di fretta, casomai. Sono molto severi, hanno faccende importanti da sbrigare. Restituiscono questa esatta impressione. Hanno borse lucide e di pelle a tracolla o in mano. Sono impeccabili. Vanno di fretta, non guardano nessuno. Non abbiamo bisogno di buoni maestri, sapete. Ma poi lo sono?  Abbiamo bisogno di Misericordia, di essere perdonati. Fermatevi, gli vorrei urlare, nel mio bizzarro modo di sapermi cristiana. Non si ferma mai nessuno. Cerco i rivoluzionari della fede. Senza eccezione, trovo sempre un se di traverso, un ma, qualcosa che mi induce a un modico compromesso. Evangelizzatori, abituati alla miseria, ai postulanti, ai mercanti nel tempio, alla narrazione del dolore da gadget.

Ai giovani del centro di preghiera che non vedono gli uomini nelle fioriere vorrei chiedere perché? Almeno per loro la domanda sarà pure un sussulto. Non domando niente. Montagne di indumenti coprono le aiuole, ai fianchi del palazzo. I ragazzi del centro di preghiera entrano e escono ogni giorno sfiorando i bassorilievi indecorosi a ricordare i sensi di colpa di ognuno. Si scordano facilmente tuttavia. Non durano a lungo. I sensi di colpa e forse anche gli uomini delle fioriere. Trovo la ragione della spiritualità nella chiesa della Divina Misericordia, è sempre e solo un fatto personale, un viaggio alla volta di Dio. Si compie lì. Però fuori inciampo nella rom, vecchia e grassa, seduta sul primo gradino del sagrato. Sta sempre nello stesso posto. Come l’anziana col berretto, in piazza San Pietro, ogni giorno, stesso posto, pelle bianchissima, naso arrossato, un mucchio di sporte ai suoi piedi.

L’originale sulle pagine de Il fatto Quotidiano edizione cartacea, 18 marzo 2016

Intervista Sul Romanzo

Intervista a Veronica Tomassini

verigiardino

 

Un incontro con Veronica Tomassini

Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale età si è avvicinata alla scrittura e se è stato o meno un caso fortuito.
Ho cominciato a leggere, prima di tutto. Troppo e senza filtri. A nove anni avevo già esaurito la curiosità rispetto alla letteratura per ragazzi. A nove anni (non è un’iperbole) lessi “Christiane F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino”, prima ancora del classico “Piccole donne” di May Alcott. Dopo i ragazzi della via Paal, a circa dieci anni, ho preferito proseguire con Henry Miller e in bagno di nascosto con i diari di Anais Nin. C’era una libreria (la libreria paterna) che mi seduceva e non aveva censure. La scrittura mi affrontò finalmente con i temini di scuola, i miei diari, e una grande nostalgia, intraducibile, inarrivabile. Dolente e cupa, tendente all’esistenzialismo ed ai rossetti neri stile Cure, al liceo i miei temi facevano persino paura, pregni di melodramma e di una retorica pazzesca. Però prendevo buoni voti. Ed ero già nei luoghi della scrittura, credo però senza saperlo. I raccontini improbabili e roba così, ce li ho avuti nel cassetto a lungo. Finché non ho dimenticato. Fu la scrittura a ricordarsi di me, a distanza di anni. Congiunzioni, incontri speciali, che io chiamo affinità-traghetto. Ricominciò tutto di nuovo, la mia orbita affastellata di parole, io dentro, confusa, a raccattare e rimettere insieme, periodi brevi, sempre più brevi, accecata dall’idea di una scrittura nobile solo se cattiva, scarnificata, laconica. La scrittura si ripresentò con il lavoro di redazione in un quotidiano.
Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalità consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?
L’istinto creativo mi sta pure bene. Non è sempre vero a mio parere che sotto ispirazione si facciano cose egregie. Spesso la noia, la costanza del buon artigiano, ha la meglio sulla chiusa di un capitolo o sul taglio di un “pezzo”, rispetto a certi deliri di sorta. Spesso la scrittura è noia. Nello stesso tempo diventa anche compimento, esaltazione, soddisfazione totale, il tutto sul vuoto: questo succede strada facendo, di solito, con i polpastrelli provati a sangue.
Ecco, l’ispirazione o l’istinto creativo è il tutto sul vuoto, l’imponderabile a metà del cammino. La parola che tuona, il ritmo, la virgola lì, un aggettivo imperscrutabile che arriva sicuro di sé e guai a toglierlo.
Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.
Mattina, mattina. Lucida e, compatibilmente, ottimista. Dal nulla, il prodigio, i narcisi sul pelo dell’acqua, le parole che qualcuno suggerisce, custodite nello scrigno di una memoria universale o nel luogo in cui ogni voce si è già incontrata prima.
Di che cosa non può fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosità o aneddoto da raccontarci a riguardo?
Una volta della sigaretta. Oggi che ho smesso di fumare direi che posso scrivere e basta, persino quando sono felice (accade, certo che accade).
Wilde si inchinò di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual è il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? È cambiata nel tempo tale relazione?
Amo gli scrittori russi, la nostra letteratura, anzi la Letteratura deve parecchio al realismo russo. La loro perenne attualità continua a sconcertarmi. Da loro ho appreso la forza del grottesco, il pathos del grottesco. Ogni narratore, a mio modesto avviso, ad un certo punto, in una certa fase, dovrà aspirare al medesimo sguardo lucido sopra le cose (Gogol, mi viene in mente lui), alla medesima apparente precisa distanza dal dramma che rende al riso un suono stridulo – il riso che ha suono di singhiozzo – mentre il lettore soffoca nell’amarezza e nella malinconia. In questo i russi erano maestri.
L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante ciò esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual è la sua idea in merito?
Credo che la provincia abbia dato parecchio alla storia della letteratura, il neorealismo anche. I paesaggi periferici ed annoiati di Moravia, intendo paesaggi morali più che luoghi fisici, custodiscono una marginalità, una tristezza costipata, che riconosco (anche solo per un’associazione di pulsioni) in quell’interregno (all’occorrenza letterario) che è la provincia. Non è poco. Oggi lo può fare ancora.
Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?
Forse mi ha aiutato, forse no. C’è un fattore ics, non è che sia una romantica, ma scrivere è un destino, c’è poco da fare. Indossare il dolore del mondo in qualche maniera è anche ruolo dello scrittore, il più egocentrico tra le creature.
La ringrazio e buona scrittura.