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UN LIBRO PER IL MONDO (ESTATE 2013-ESTATE 2006)

Andare a capo ♠

La rubrica di Elio Grasso

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para

Trascorsa la Pasqua, non invano nonostante l’attuale avventura terrena, riprendo le corrispondenze con la poesia che sa di lotta e salvezza: il poema, nel più vero senso del termine, portato dal libro di Carlo Alberto Sitta, Museo degli astri. Testimoni delle cose poetiche, persona e libro, come raramente accade negli esiti della realtà a cui siamo di fronte. Di fronte all’orizzonte che oggi si fa vedere, tessuto in abbondanza di rilievi e scabrosità, contaminazioni radioattive e climatiche, molti giovani si raggruppano in nome di eventi biografici minimi, assumono battaglie minime, e davvero non so quanto sia giusto farlo. So che, ancora di fronte a tale orizzonte, vivono poeti meno giovani (alcuni addirittura hanno varcato la soglia della vita – e penso a Spatola, Porta, Sanesi, Beltrametti, Vicinelli, Costa, Raboni, Rosselli… – senza però davvero andarsene) che diversamente combattono con belle ragioni, con armi distinte e leggere, capaci forse di ferire ma non di uccidere, anzi di rinvigorire i corpi degli ascoltatori, siano questi puri ed esenti, siano questi altrettanti poeti capaci di vedere partenze e approdi, dilemmi e coscienza. E così porto i miei passi dentro questo libro, non senza cautela, e avanzo come se anch’io fossi capace di dispormi dentro a un tal genere di destino. Anche se so bene quanto il destino, nel caso di Carlo Alberto, sia venuto fuori da un mai esaurito rapporto intero con la terra e i suoi abitanti, le città i paesi (Modena, Nonantola) e foreste, pullulanti di anime corte e lunghe, di corpi magnifici e forse anche brutti. Ognuno ha il suo rilancio di vitalità, e la vita mai sparisce del tutto: comincia proprio in Rara Requies (1999) questa capacità di prendere le redini della morte per convertirla e spingerla a forza in “un luogo indenne”. E’ qui dentro (o qui fuori?) che l’amore per la moglie non più fra noi, per Marie-Louise Lentengre, s’incide dentro stagioni che se non hanno la lusinga del mito almeno si ampliano sempre di più. Il poema è la lingua del poeta, che cammina lungo il fiume, contiene numerosi spazi fra una strofa e l’altra, lascia che le radici si allarghino nel folto. Ma quanto costa scrivere che l’acqua trascina la cenere “finché non diventa insensibile”? Quanto si riesce a tagliare le radici fino a che il fusto si allarghi sull’amore, vicino alla terra come si deve, senza che si protenda inutilmente verso l’alto? E’ il costo che ha l’imbrigliare la prosodia dentro la propria percezione, senza che la realtà si capovolga o diventi addirittura metafora. Il costo altissimo che si scontra con l’esilio, tenendolo a bada, e rifiutando le droghe del dolore. E’ così che la verità della parola si può paragonare a quell’altra verità che strappa proprio tutto: “Il corso del tuo ultimo viaggio ha strappato / la foce  dove una spuma  irrisolta si frange…” Carlo Alberto è stato dentro, senza mai smettere, questo paragone, rovesciando su di sé l’ultimo fiato, l’ultima fiala di medicina, come se davvero esistesse una bella dimora per tutto. Rara Requies è il Salmo che semplifica e rende noto l’accaduto, dentro un corpo e lassù sopra la collina, l’assoluta sincerità dell’uomo che canta la propria fragilità: “Per non vederti più come eri e non farmi / tradire dal verde perpetuo ho murato ogni / antro nella retina che mi conduce in città”. Per fare questo, Carlo Alberto ha attraversato le tradizioni della poesia europea, ha negato e liberato, ha assunto l’aspetto francese della lotta, in direzione della realtà psichica e drammatica dell’esistere. La luce e la sensazione della luce, là dove è nato e forse non è già più provincia, e il Secchia è il fiume di tutti i fiumi, ancor più della Senna: “Anche nei giorni felici ci potevamo stancare / prima del contrarsi delle canzoni che amavi / nelle linee della mano…” Si dà il tempo alla vita di diventare donna, prenderla e lasciarla secondo i propri slittamenti, per poi affrontare il dolore con risentimento, e questo soltanto nel trascorrere dei giorni, mai nella poesia che invoca altri metri, altri meridiani: “A questo serve il distacco, a colpire la vita / nel momento in cui l’affanno prorompe”. Cos’è questo, se non una dichiarazione di poetica e al tempo stesso una dichiarazione di esistenza in vita? E rendo ragione del fatto, adesso che è trascorsa la Pasqua, che questi due versi sono davvero una culla, una fonte, un ombelico, per chi voglia avvicinarsi al grande fiume della poesia contemporanea. Di quale condizione è, dunque, un poeta come Carlo Alberto Sitta, che avvia il suo libro più importante con il poema che sa “essere” qualunque possibilità legata alla lingua? Ragionamento, dolore, speranza, capacità di nutrire un sobrio costituirsi: 101 versi soltanto, solcati da una grossa manciata di spazi bianchi che, come molti sanno, assumono il significato del lutto. Ma c’è anche il candore dei primi tempi, perché qui spesso il cammino va verso l’origine, o almeno verso l’inizio che aveva molto da imparare, e già lo sapeva: “Sono coralli i drappi stesi nell’immemorabile / candore dei primi anni, prendono il posto dei / frutti certi di questa terra…” E dunque sia, Rara Requies.SAMSUNG

Gerusalemme degli orti, delle navigazioni sulla sabbia tutta intorno, oltre le mura, a cui si lega questo poema del 2001, con il controllo dei semi e delle idee senza incagliarsi nei rami secchi del millenarismo: “A nominare / dio ne intuivi la folla interrarsi / sotto la spia segreta delle stelle…” Quelle parole che lasciano il segno del passo, perché sempre l’uomo conserva la libertà di dare significato, anche diverso dall’usata cognizione, al proprio sentire. E sentire e “vedere” qui procedono accostati come sensi primari: sentiamo la capacità del distinguere il clima, il calore sulle mura, l’aria che passa fra gli ulivi. Le stanze di Gerusalemme si dilatano, assumono la consistenza di mattoni cotti alla luce della visione, perché in questo poema  in misura maggiore si avverte una progressione inedita, forse mai provata, verso l’abbacinante delirio solare che sovrasta una “terra scabrosa”. Carlo Alberto va alla ricerca del sangue, dopo averne conosciuto il rallentamento e l’ingorgo. Sa che nei luoghi ben poco metafisici dell’Oriente più vicino “vegliano le armi”, e il suo entrare dentro il racconto, dentro la storia già scritta e vissuta, trova sentieri destinati a una prova di salvezza. Non che sia facile nascere, mi pare si possa leggere in questi versi, ma di sicuro nemmeno morire è qualcosa di naturale: “Prima di nascere c’era dissipazione / completa, la guerra.” Nei dintorni di Gerusalemme sostano i figli e il nuovo della poesia che si fa largo, appena essa viene scritta. Come avviene che la divinità sia poco più che apparente, che lo sguardo interpreti ciò che a malapena riesce a vedere? A queste domande non c’è risposta, come non c’è quando si capisce che il poema è finalmente risorto, ma “…ecco trabocca una luce che lede / di lato la folla, investe l’oscura / fede inestinta”. Le onde e le ombre vanno a incidersi su quelle mura, che forse crolleranno ma che intanto ci hanno portato lì, sotto un cielo di stelle e dentro il “forte odore speziato del legno”. Gerusalemme, resurrezione del poema.

Trascorsa la Pasqua, è probabile che il nostro sguardo sia agevolato nella sua primaria funzione, così possiamo inoltrarci e stare dentro quella bolla dove è contenuta la radura della poesia: è qui che hanno dimora le tre parti del Museo degli astri, scritte durante un 2004 fervido e al riparo da equivoci. Forse davvero la luce si spezza se c’è bisogno di ricorrere a una struttura dove evocare e invocare, se non addensare, quegli astri che spesso sono nascosti da una “materia oscura”. Dylan Thomas l’aveva già immaginato, e per questo Carlo Alberto lo ricorda con il verso Light breaks where no sun shines, prima che ci accorgessimo che l’attuale mondo va “fuori dal conto”, da noi indotto a strani comportamenti, come ridurre ogni garanzia di sopravvivenza. Scrivere di questo in poesia è sempre andare oltre, trovare nel mondo ragioni di accrescimento, purché si ascolti il proprio vivere al centro di quella radura, di quella bolla. Il poeta conosce i percorsi e i nomi delle strade, nella prima parte del poema il verso si trasforma in una cadenzata prosa che si alterna alle stanze originali, come in una sorta di coro o di semplice monologo posto subito in primo piano. “Avvolgere il cielo e renderlo illimitato mediante pari altitudine…”, ecco che questa idea di poesia si tramuta in territorio teatrale, si sentono addirittura i passi sulle tavole del palcoscenico. Dentro l’estrema percezione di ciò che sta in alto, e che per forza di cose e struttura delle particelle elementari raggiunge il piano terra, il poema avanza nella descrizione di una creazione e di una disfatta, quest’ultima resa percepibile da profezie antiche, secondo cui “Niente ali per noi, solo pesi, vacillanti misure d’oro…”: le domande disseminate lungo le pagine sono strazianti, se appena ci appoggiamo a un muro graffito e riusciamo a guardarci intorno. Carlo Alberto da parte sua sa trovare nella propria lingua quei sentieri ancora percorribili nell’immensa piana di calce che sta diventando la zona bassa del mondo, su cui le macchine scintillano. In questa esperienza della realtà vengono ribaltate sulla volta del cielo le magagne e i pallori che man mano vengono scoperti quaggiù, secondo una copia che non darà scampo a nessuno: l’elenco degli astri, da Orione a Deneb, da Pegaso ad Algol, è disposta come un rosario che forse sarà capace di guidarci, “nei saloni malamente rischiarati”, dove le “intemperanze celesti” si scontreranno con quelle nostre, quelle che in nessuna epoca ci siamo fatti mancare. E avanti e avanti, fin dove la struttura evocata dei continenti, perché è indubbio che qui si procede per via di terra dato che il Museo ha profonde fondamenta, si trasforma in Africa, l’Africa che più di tutto ha subìto la frattura, per cui non si può che cantare la disfatta delle belve, quel loro disperato smagrire. Le stanze del poema si trasformano in un rendiconto preciso, le attraversa una corrente che lascerà il segno (“A ogni pasto silenzioso dei giorni / consumo lo sbocco naturale della / distanza.”), vi si costruisce un indice puntato contro le infamie, e tutto questo senza che venga mai meno l’eccezionalità irregolare del poema. Poesia concreta, poesia civile, posso invocare diverse fisionomie poetiche, ma qui davvero il significato non viene mai meno: “L’incarnazione in anime vaghe / nel folto della remota mandria / nervosa che stancamente vive / la propria ignominia non sa di / braccare la putrida subcorticale / corteccia africana incolpevole / di affinarsi”. E’ nella terza e ultima parte del poema, nel finale del libro, che fanno la loro comparsa gli alberi di Elena Vadacca, qui nero-grigi geroglifici venuti da chissà quale cunicolo sotto le sabbie del Maghreb. Per la verità si tratta dello stesso albero che si trasforma, da un bianco appena segnato da leggeri graffiti a un nero inchiostro che non mi pare sia dovuto all’evento naturale della notte ma ad una repentina inchiostratura della vita. Come se i laghi di petrolio, dopo le fiamme alzate durante la guerra, adesso spargessero il loro olioso bitume: “La pendenza sospende il buio”, scrive Carlo Alberto, e “Moti offuscati dell’aria”. E’ un procedere “di albero in albero”, tra fremiti fedeli a un codice e a una temperatura. Ormai lo sbilanciamento è avvenuto, la progressione verso la dura sopravvivenza rallenta, e il canto si fa mantra, perché così è la resistenza del poema lanciato nel buio. Qui arrivano codici celesti e terrestri che forse non salveranno l’atmosfera, “ogni diamante è estremo carbonio”, anzi ci lasceranno liberi di cadere per un’infinita scarpata. Così nelle ultime stanze si raggruppa una folla di personaggi che nemmeno sanno più dove osservare le stelle, da Sceab a Murphy, da Malone a Grabinoulor, fino a lui, al “lui” per antonomasia, Stephen Hero. A Stephen toccherà esplorare la valle, discendendo con fari fino a quel che resta della vita: “Il piede sul freno ha dissestato il fuoco / centrale dove arde l’amore del pianeta”. Carlo-Stephen ha scritto un’unica lingua dentro il Museo degli astri, mai come in questi ultimi anni ha avuto dalla sua parte il disastro e la visione del disastro coincidenti col suo lavoro di scrittore. Una fortuna, una santa avaria, un sentimento nuovo per la futura poesia?

 

Carlo Alberto Sitta, Il Museo degli astri, Edizioni del Laboratorio, Modena 2006

 

D’Elia, come ritratti di Reynolds

♠ Andare a capo

La rubrica di Elio Grasso

 

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para

Una dedica “ad occhi chiusi” è anteposta al capitolo introduttivo dell’opera prima di Raffaella D’Elia, straniamento non da poco nell’assetto interamente “visuale” di Adorazione. Che tra l’altro inizia con il regista Wenders, occhio psichico per eccellenza della visionarietà contemporanea, mentre si aggira in una Roma di biblioteche e fontanelle, facendo sostenere all’autrice una sorta di eccitazione controllata ma vissuta senza sosta. La scrittura, minuziosa e attenta a ogni breve movimento, la condurrà a incontri permeati di continue interrogazioni sulla poesia e sull’arte confinante: Sanguineti e le sue cartoline affettuose, un postkarten reale fra incontri estivi a teatro, e flashback familiari che lanciano per aria (rendendole ex novo visibili) storie di avanguardie e i colori brillanti di teorie d’un tratto efficaci. L’autobiografia qui s’incrocia, per dare un’idea, allo studio di certi ritratti di Reynolds, ricchi di bellezza “abitudinaria”, o all’osservazione del Grande vetro di Duchamp e delle incrinature che lo trasformano d’un tratto in opera compiuta, terminata, pronta all’esposizione. Come dice Trevi nell’introduzione, D’Elia “porta se stessa” nei percorsi, camminando a piedi dove il suo sguardo la guida, insieme ad amici scrittori o studiosi disincantati. In “Ritratti senza cornice”, le relazioni fra reperti artistici e persone si sciolgono in un film che non ha quasi fine. Qui si attua un continuo sconfinamento, fra i generi e le strade che diventano testimoni di smarrimenti e verità da condividere.

Raffaella D’Elia Adorazione EdiLet, Edilazio Letteraria

Raffaella D’Elia
Adorazione
EdiLet, Edilazio Letteraria

Al termine del libro si comprende come le proporzioni del nuovo millennio abbiano a che fare con i reperti e il viaggio intrapreso allo scopo di svelarli. E’ vero che occorre una nuova struttura per riportare il diario di una simile ricerca: si pensi a una telecamera fatta di parole che insegua e inquadri da tutte le parti i soggetti (e i loro pensieri), tanto da concepire una specie di saggio tridimensionale. Occorre una certa dose di spietatezza per puntellare bellezza e autenticità. Dote che credo non manchi a Raffaella D’Elia, se la seguiamo nei suoi spostamenti verso gli “oggetti del desiderio”, e nel suo repentino riacciuffare dentro il pulviscolo in cui siamo immersi le immagini del mondo, così come appaiono per esempio nei ritratti di Cartier-Bresson.

I destini incrociati di Sebald

♦Andare a capo

la rubrica di Elio Grasso 

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para

Prose pubblicate postume nel 2003 (dal libro Campo Santo), immergono in qualcosa di più che una vacanza in Corsica. Sebald va direttamente dentro i confini allucinati di un territorio dominato da luci che precipitano “come dardi”, e dove le vestigia di antiche foreste passano dai dirupi al mare in un sol colpo, lasciando intendere che lì si possono vedere cose che altrove non stanno. Fino alla metà dell’Ottocento, nell’isola, i cimiteri non esistevano e i defunti consumavano l’oltrevita nei ritagli di terra antistanti le loro case, a diretto contatto con gli scampati. E se nulla possedevano, venivano depositati alla rinfusa in appositi pozzi. Questo ha reso la Corsica sede di eventi spettrali fuor di misura, e schiere di trapassati simili a fili di fumo ancora oggi vengono avvistati. C’è un’aria troppo luminosa e arida che sta intorno all’umano consorzio, questo avvince le anime facendole rivoltare in una movida ultima, vivi e trapassati arrivano al cancello sul mare che Sebald scopre in una foto giunta per posta. La vediamo all’interno del libretto e in copertina: dispersa immagine di una scuola di Porto Vecchio, ormai approdo della rovina temporale. In quel silenzio affiorano segni e ricordi che vorrebbero riconciliarsi, approfittando del desiderio mai sopito nell’autore di mettere pace col proprio inesausto vagabondare. Ad Ajaccio non si accontenta di ritrovare le consuete vestigia napoleoniche, scova perfino il racconto che Kafka fa circa le vicissitudini della salma imbalsamata, resa pubblica in passato ogni anno a favore degli invalidi che vi sfilavano davanti. Anche la corte di personaggi spettrali, che affollano la dimora dell’imperatore e i dintorni, naviga secondo le correnti d’aria, proprio come reliquia sfilacciata e un po’ raccapricciante. Sebald ci ha lasciato i destini incrociati di umani e foreste, in schegge di prosa (mirabilmente tradotte) indimenticabili.

SEBALD

W.G. Sebald
Le alpi nel mare
(traduzione di Ada Vigliani)
Adelphi, pp. 80, euro 6,00

 

Jergović, il villaggio nel disastro

♦ Andare a capo

La rubrica  di Elio Grasso

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

jergovic

Miljenko Jergović
Volga, Volga
(traduzione di Ljiljana Avirović)
Zandonai

Pljevljak possiede una Volga M24 del 1971, automobile potente, russa, passata di mano in mano a militari in forza o quasi pensionati. Fra canti popolari e discorsi sui partiti, personaggi pressapoco potenti o messi in fin di carriera (e di vita) nel delirio guerrafondaio del territorio bosniaco. Pljevljak lavora nell’esercito come civile, sta sulla strada, raggiunge moschee e paesi che nella realtà non esistono, ma esiste quel che Jergović disegna come il viaggio nel disastro, quel che racconta nella “Trilogia delle macchine”, di cui Volga, Volga rappresenta il capitolo finale (dopo Buick Riviera e Freelander). Un romanzo che alterna protagonisti misteriosi, primo fra tutti il guidatore della Volga, e descrizioni geografiche di territori che sono i resti di una guerra combattuta a suon di proiettili radioattivi. Più subdoli e micidiali della bomba atomica. L’uranio arricchito cambia la genetica dei popoli, l’anima della gente, il terreno che i loro piedi calpestano. In Volga, Volga sono rovesciati documenti e leggende, donne floride e storie enigmatiche: non se ne viene a capo fin quando, nelle ultime pagine, sembra di capire qualcosa in tutto questo macello mentale, da Jergović guidato con categorica maestria, soprattutto se confrontata allo stato edulcorato in cui sta (a parte rara eccezioni) l’italico narrare. Il fatto è che nell’epica stradale e bellica degli stati slavi sono nati scrittori in grado di sondare a fondo qualcosa che conoscevano molto bene, avendo sborsato parecchio nella loro congiuntura epocale. Hanno saputo, senza indulgenza, raccontare come la vita da quelle parti non sia stata pilotare una Golf o premere i tasti di un qualsivoglia oggetto elettronico. Preghiera e armi fanno prendere decisioni inimmaginabili in certi popoli, per noi che da decenni conosciamo soltanto il “dramma” dei conti bancari, e l’assalto delle televisioni digitali, superate soltanto dai tablet. Sono miriadi i nomi da citare, caduti sotto quei cieli, pigiare sul gas di un’automobile potente come la Volga è come ammettere di aver ammazzato molta gente, dentro la storia che, non dimentichiamolo, è fatta di mille storie belluine, dove la ragione non sta da nessuna parte. Come da nessuna parte, e in ogni luogo, sta la narrazione che Jergović ha saputo presentare.

Giovanni Cocco e il suo romanzo apocalittico

♣ Andare a capo

La rubrica di Elio Grasso

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La Caduta di Giovanni Cocco, Nutrimenti, pp. 228, euro 16,00

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

Il primo libro di Giovanni Cocco. Non mi sembra normale definirlo “romanzo”. Insomma, potrebbe apparire provocatorio. Il fatto è che oggi la catastrofe non può che essere tramandata di bocca in bocca e di porta in porta, in un fiume sporco e impetuoso di narrazioni. Città diverse e diversi anni, staccati e distanti nello spazio, ma tutto quanto stretto nel cerchio di una dimensione superiore che squarcia le esistenze, tramanda la cecità, consuma in un solo colpo attraverso l’ira dei popoli e la disobbedienza del singolo. Parigi, New Orleans, Atene, New York, Londra, Cairo, Bengasi: i tumulti della caduta dell’Occidente sono concepiti come violenti accadimenti personali, incidenti stradali, alluvioni, bombe, ogni evento risalta nel pensiero di persone dalla storia unica, tanto personale quanto appartenente a ognuno di noi. Le strade sono di tutti. Anche l’orrore. Una luce sinistra avvolge e comprime le nostre teste. Colui, che un attimo prima era accanto a noi, sparisce come se svaporasse  in un lampo di raggi gamma. Qualcosa di nuovo accade. E non è affatto funzionale al futuro dell’umanità. Qualcosa di nuovo ha scritto Cocco nel primo libro di quella che si annuncia come una serie di quattro episodi. Non sarei così sicuro del modello biblico a cui si riferisce l’autore, pur vero che nella Genesi originale accade di tutto, le deflagrazioni non mancano, e appare strano come si possa credere all’avanzamento cronologico dell’uomo inteso come specie. Se dovessimo affidarci a quanto Cocco sta scrivendo nella sua personale Genesi (così, in una nota, definisce l’opera presente e futura), probabilmente soccomberemmo preda dei fatti. Ma tant’è. Vedremo nei prossimi anni come i cicli pittorici realizzati fra Quattrocento e Cinquecento potranno ispirare la mente visionaria ma lucida di questo scrittore, tanto da lasciare qualche spiraglio in caso di catastrofe. Certo può esser facile indulgere all’ovvietà richiamando il nome di DeLillo, oggi però lo sguardo ha smesso di essere veggente, come d’altronde era necessario che fosse negli ultimi decenni del secolo scorso. Occorrono una camera digitale e una mano agile sulla tastiera del tablet per avere la storia più plausibile che si possa immaginare. E scrittori (naturalmente) in grado di operare una decisiva correzione di rotta.

Dagerman il demolitore: niente è ciò che sembra

♠Andare a capo

La rubrica di Elio Grasso

Stig DagermanL’uomo di Milesia (traduzione di Marco Alessandrini), Via del vento, pp. 36, euro 4,00

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Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

Dagerman uomo maledetto o demolitore delle visioni raccolte nella sua breve vita svedese? Dall’infanzia alla redazione degli scritti, prima giornalistici e in seguito d’invenzione, cosa accadde? Difficile inseguire questa esistenza, se non lasciandosi corrompere dai salti ininterrotti della realtà da lui descritta. Se c’è qualcosa di accurato nel suo narrare, è l’impegno a sovrapporre figure e luoghi incontrati in vagabondaggi notturni (ma nel suo paese il confine fra la notte e il giorno è oltremodo vago) e febbricitanti. La febbre è l’impronta principale anche in questo racconto, inedito in Italia, pur incluso nella raccolta Nattens Lekar (I giochi nella notte) del 1947, anno di sua forte produzione pubblicistica. Niente e nessuno sono ciò che sembrano, i quartieri di una città quasi perduta, Milesia Sirley e Tropico, s’intersecano e confondono in una scena labirintica dove strambi pittori e non raccomandabili mercanti d’arte si corrompono l’un l’altro per pochi denari. E lì Singerton, clone di Dagerman, peregrina per l’ultima volta nel proprio inferno, in un buio gelido e nevoso, fra cameriere che vogliono il suo letto ad ogni costo e uomini stralunati. Un dipinto viene acquistato quasi per caso, tela che mostrerà ben presto il suo lato infernale, facendo slittare l’uomo su avvenimenti incontrollati e correnti d’erotismo al limite della tortura. Le donne di questo racconto indossano tutte la stessa maschera equivoca, fra il mercenario e l’incantato. La fine di Milly, alias Nelly, figura femminile voluta e rifiutata, amata e respinta, ha il sapore di un’allucinata questione interiore. Il poliziotto, che nel racconto punta Singerton fin dall’inizio, ha lineamenti di kafkiana memoria. Non è difficile essere travolti dall’arredo di questa città da cui nessuno, tanto meno il protagonista-autore, può uscire.DAGERMAN La ricerca frenetica di un principio vitale precipita inesorabilmente,  fin dal principio, verso l’assoluta perdita. Singerton, dentro la sua febbre, se ne accorge soltanto all’ultimo istante. L’azione peccaminosa, il delitto, non si vede, ma gli occhi luciferini presenti su quella tela proiettano ogni fotogramma dentro la sua mente. E in noi, che leggendo ci sentiamo fatalmente attratti, come dall’immagine posta sulla copertina di questo magico libretto: “nero” disegno di un anonimo, voluttuoso e rigido emblema del mondo di tenebra di Dagerman.

Tutta la forza nativa di Marina Cvetaeva

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La rubrica di Elio Grasso

                                               

                                             Marina Cvetaeva, Le notti fiorentine (Voland) 

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

Nelle turbolenze emotive per causa di una folta vita amorosa, ma nella grandezza poetica, Cvetaeva colpiva sempre al centro della questione confessionale. Per quanto un essere umano donna possa denudarsi completamente e denudare chi ha la ventura di sottoporsi al suo sguardo. Perfino una corrispondenza privata (avuta con Abram Višniak, proprietario della casa editrice Gelikon che pubblicò le raccolte Separazione e Mestiere) viene alla fine srotolata nelle pagine di un libro, Le notti fiorentine in omaggio a Heine, che però restò inedito per quasi mezzo secolo. Scritte in russo a Berlino nel 1922 ma tradotte undici anni dopo in francese perché trovassero un pubblico rinnovato, queste nove lettere testimoniano la possibilità ancora barbara che in una certa epoca l’amore potesse restare integro dentro una lingua perfetta, mai irrigidita dagli stereotipi né incatenata a una sorte che si vedeva e sapeva già contraria. La classica e ora aggiornata cura di Serena Vitale (a trent’anni dalla prima edizione) ci mostra, da par suo, la febbre materiale di Cvetaeva, che sarà stata pure una mangiatrice di uomini, ma con quale lucidità e determinazione fu in grado di attribuire un linguaggio unico alla diagnosi dei sentimenti, e mettendo i bastoni fra le ruote della legge divina che dichiara quanto la passione privi l’ingegno ai bisogni dell’arte. La libertà di cui sono imbevute queste lettere ha qualcosa di talmente inattuale da renderle addirittura rivoluzionarie, in questi anni di spesso fasulle posterità. L’amore implacabile qui è la stessa scrittura, non c’è separazione fra le due istanze. Višniak fu sopraffatto e spaventato dall’eretica Marina, nei cui scritti riportava certamente stravolta la leggenda delle proprie vicende passionali. Tutta legna portata al forno dello scambio intellettuale, e probabilmente corporale, in un continuo andirivieni fra avvicinamento esagerato e fuga precipitosa, fino alla vendetta dell’oblio. Ma fra la morte dell’amico editore, avvenuta in un lager, e il suicidio di lei, c’è tutta la forza nativa di una vita mai assopita né costretta a un patteggio che ne avrebbe irrimediabilmente scalfito la grandezza. Dare riposo e sfamare, diceva Cvetaeva, è quanto di preferibile possa sussistere nelle relazioni fra i sessi. E come il principio sia vero lo si comprende in questo libretto, che resta ancora oggi una duttile e durissima lezione d’amore.

Celan, quel che resta dopo la mortificazione mortale

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La rubrica di Elio Grasso

Paul Celan, Poesie sparse pubblicate in vita – Nottetempo

 

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

Zanzotto, nel bellissimo scritto su Celan, posto in chiusura a questo importante libretto comprendente le poesie pubblicate su rivista e mai nelle raccolte canoniche o postume, rammenta come l’amore assoluto, la sua violenza “senza oggetto”, abbia permesso al poeta rumeno di raggiungere apici e insieme zone ctonie della lingua del tutto inarrivabili. Una poesia-strappo che è stata, senza dubbio, ciò che di più vero si sia potuto scrivere dopo le macerie del Novecento, dopo Auschwitz, e soprattutto senza alcuna nostalgia per qualcosa che a quel punto era un implacabile rovescio, una serie incontrollata di sussulti. Non c’è costruzione di un inferno, ma la sua traversata, cosa che conduce all’annichilimento totale della lingua. Ma pur sempre in una forma che ne esprima il terremoto. Non a caso Celan, con traduzioni e studi, ebbe come compagno di avventura Mandel’štam. Anche in questa serie di poesie (1948-1970), molto ben curata da Dario Borso, la scrittura si fa sentire come se ci fosse posta frontalmente. Come se volesse impedirci un pusillanime uso della lingua, e avvertendo che i tempi sono senza rimedio. Celan non poteva che sempre più andare verso la mancanza di un senso, ed è per questo che oggi accostando i suoi scritti molti si sentono trascinati in un gorgo di assenza quasi insostenibile. Quasi tutti cedono pronunciando la famigerata frase: “ma questo che senso ha?” Il senso dell’esilio, si potrebbe suggerire, e poi tutto quello che resta dopo la mortificazione mortale. Celan ha una lingua perduta fra le mani, lo si avverte anche nella traduzione italiana e nel susseguirsi temporale delle composizioni.CELAN Passando per le fibre della realtà, nei suoi “conglomerati”, come direbbe Zanzotto, non resta che investirsi della perdizione, e della propria fatica. Questo ha fatto Celan fino al giorno in cui la Senna accolse il suo corpo. Ma sia chiaro che non fu sua la disfatta, ma ciò che lo aveva preceduto sconvolgendone l’esistenza. Sappiamo solo che a quel punto l’uomo “non esisteva più”. E dunque non poteva più esserci una lingua integra. Per questo, oggi, di fronte a un tale libro si sente tutta l’eco della frattura ancora presente nel cuore dell’Europa.

Le nostalgie visionarie e il volo terrestre di Blecher

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La rubrica di Elio Grasso

Max Blecher, rumeno ammalato di tubercolosi spinale e morto a soli ventinove anni. Due romanzi, fra cui questo Accadimenti nell’irrealtà immediata (Keller editore), e alcune poesie. Esistenza trascorsa quasi sempre a letto (come accadde, per altri motivi, al grande Bousquet), mente febbricitante per la sua alta (o bassa, a seconda dei modi di pensare) ed efficiente predisposizione alla visionarietà. Di cui il quotidiano è saturo, se soltanto una mente selvaggia osa sfiorarlo. Il protagonista è cosciente di quanto certi odori e certe trascendenze femminili scatenino in lui deliqui fortissimi e orgasmi (anche se il termine non viene mai citato) parossistici. L’odore nauseabondo della putrefazione dovuta alla calura lo fanno precipitare in stagni d’acqua, ben distante dai compagni d’avventura.copertina-max-blecher.ai La seta frusciante delle calze di una donna intenta alla toilette. Questi accadimenti, uniti al chinino prescritto dal medico che diagnostica “paludismo”, immettono feroci e fitti flash nel corpo di questo alter ego il cui nome altro non può essere che lo stesso Blecher. Le descrizioni da entomologo delle caverne abitate dall’anima, ne fanno un fiduciario di alcuni surrealisti, e i paragoni si sprecano. Non abbiamo i mezzi per indagare queste profferte commerciali, che citano addirittura Kafka, ma di certo il volo molto “terrestre” di cui questo romanzo è intessuto, anche se di romanzo non si tratta (se mai di un richiamo perentorio alla realtà di farsi fantasia), toglie ogni sospetto di tentata costruzione di una leggenda. La visceralità fotografica della scrittura, l’irradiazione del pensiero febbrile sulle cose quotidiane, mentre il mondo non sembra vero ma proiezione dei farmaci, fanno di questo libro un’esperienza dall’esito propizio. L’ingestione di una quantità di medicina, sicuramente psicotropa, getta il protagonista nella verità delle sue visioni diurne, e la coscienza ne viene nutrita, il deliquio si trasforma in acquisizione certa del vero. Al risveglio le donne sono donne, e il desiderio è desiderio. Da qui la scrittura è cibo brillante, simbolo di un continuo risveglio dal sogno. Risveglio come basso continuo del lavoro di Eros, troncato dalla morte.

 

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

I due minotauri Dürrenmatt – Bacon

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La rubrica di Elio Grasso

elio

Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

Talvolta bisognerebbe non arrendersi alla ricerca facile, soprattutto quando la letteratura riesce a toccare la parte più intima della coscienza, l’antichità del sapere umano che non è mai disgiunto dall’ansia di distruggere quel che di sconosciuto appare. Percezione e spavento fanno compagnia anche al linguaggio, e uno scrittore come Dürrenmatt diventa esemplare ai giorni nostri anche per questo: le sue prefigurazioni del Male, della gravità della sostanza umana posta di fronte alle leggi del caso e soprattutto alle sue – talora insignificanti – leggi, diventano veggenza pura, e soprattutto cronaca potenziata, esatta, chirurgica. Come se l’autore riuscisse a detergere tutto il sangue presente sulla scena (e nel caso del racconto Il minotauro questo è ancora più vero) allo scopo di renderla certa e palpabile per chi si appresta a porvisi di fronte. Il chirurgo ha bisogno che un assistente gli sgomberi il campo dai liquidi e dalle frattaglie che gli strumenti producono sui corpi, altrimenti si accecherebbero tutte le sue facoltà. Mi chiedo se anche il macellaio ha bisogno di un simile soccorso. Probabilmente, andando meno per il sottile, sì. Il linguaggio di Dürrenmatt diventa addirittura apologetico in questo racconto, perché qui l’identità della bestia, del mostro, emerge all’interno della pagina in tutta la sua tridimensionalità, esattamente come l’autore descrive i suoi balzi ansiosi per allontanarsi e avvicinarsi alle centinaia di doppi di cui non sa niente, su cui s’interroga senza posa. Egli è lì, già cresciuto in una sorta di limbo, perché gli Dei si sa sono peggio degli uomini e le loro creature sono cloni genetici destinati alla catastrofe, al macello. Quando si sveglia l’attende lo spavento, il terrore, non sapendo nulla della sua natura e di ciò che lo circonda. Combatte e prova dolore, ama e provoca lo sfacelo, saluta e danza come se questo bastasse a salvare quel  mondo isoscele, ricolmo di umori e sudori, paraventi e presenze furiose e ignote – come se bastasse a salvare se stesso. Il tatto, che la Creatura sperimenta appena si avvede di non avere altre vie d’uscita (e il labirinto è il luogo perfetto della perdita delle coordinate), il tatto potrebbe essere il primo livello di conoscenza.             Tutto è ignoto al Minotauro, anche la sua natura. La percezione è nata da poco in lui, potrebbe in un impeto di fiducia e amore consentirgli di capire, dunque di assolversi dai suoi creatori, forse pur anche di liberarsi. Anche se questa parola (libertà) gli è di certo ignota. Dürrenmatt descrive le regole del mito come inevitabilmente sono giunte ad essere regole degli uomini trasformate in leggi: tanto più determinate di quelle dei precursori, dopo che il mondo è divenuto privilegio unico della razza umana, sempre più grottesca una volta lasciata libera. Il Minotauro non può che essere sconfitto nel momento in cui si trova a lottare contro il potere che l’ha confinato, e che questa volta ha deciso di sopprimerlo. Non prima di avergli fatto conoscere la nuda bellezza dai capelli lunghi e neri: una fanciulla, nuda e bellissima, immobile in mezzo a quelle creature come lui accovacciate e che sono dappertutto. L’esca è una forma largamente usata dal cacciatore, anche quando non c’è più bisogno di sfamarsi attraverso la lotta per la sopravvivenza. L’esca è anche suo divertimento, se usata con le trappole, e il labirinto assume la forma di una macchina micidiale. La Creatura non uccide, ama. Lo fa per sua natura, senza sapere che può recar danno, permettendo poi a una furia sconosciuta, che piomba dall’alto, di produrre scempio del corpo femminile, in una baruffa di penne, colli, becchi che dilaniano, strappano, divorano. La “ballata” di Dürrenmatt è una danza totale, tutti vi partecipano, nel tentativo di difendersi, amare, lottare, ingannare e alla fine sottomettere quel che vi è ancora di innocente. Giasone inganna il Minotauro, sotto una finta testa d’uro nasconde il pugnale che farà accasciare la bestia. La guerra contro il tentativo di fratellanza, diventa perfino gioco nella mente di questi uomini chiamati eroi. Lo scrittore svizzero ne smaschera l’essenza con una prosa perfetta, precisa quanto insolente verso il potere che rende lampante nelle sue trame politiche. Per questo lo smembramento dei corpi della fanciulla e del Minotauro avviene allo stesso modo: con effetto raccapricciante l’orda di uccelli piomba giù sui resti della bella e sullo scuro cadavere della Creatura colpita fra le spalle, sbranandoli in un turbinio che soltanto una scena bellica può ricordare, con tutto il dolore che si stende sotto il cielo oscurato.

            Il Minotauro poteva essere crocifisso? E’ stata o no un’operazione delittuosa verso un solo individuo, figura di disagio e avversata dal potere? Ecco, osservando certe opere di Bacon, e non soltanto quelle relative ai due trittici delle Crocifissioni (1962 e 1965), sembra proprio di sì. Le figure, non si sa bene quanto umane, rappresentate in quadri del 1953 (Study of Figure in a Room e Man Kneeling in Grass) già possono ricordarci la posa della Creatura, accovacciata dentro il suo spazio chiuso, recintato e ingannatore. L’essere è privo di risorse, così rannicchiato, o forse sta pensando alla propria sorte, a quanto gli resta da fare lì, in quella posizione, dominato senza conoscere il dominatore.    Bacon mette radici nel dramma, non ha nessuna intenzione di sfuggire alle forze ostili, anzi ritorna ogni volta sempre più profondamente, col passare degli anni, nel regno della devastazione moderna. Nel periodo “dei Papi urlanti” (presi di peso da Velásquez, senza nemmeno aver visto le opere originali), lo stesso delle Figure, e precisamente nel 1954, Innocenzo X ha alle spalle una carcassa sanguinolenta, e quella bocca aperta sembra prendere forza dagli inferi per consegnarla all’opera di macelleria che l’immagine sottoscrive con la propria presenza. Il potere percepito colonizza il mondo sottostante, il buio dei colori e il viola papalino ne consacrano l’attività. Giasone non è l’eroe ma il soldato che viene ferito, e  che ugualmente giunge al compimento della missione. Sia essa l’attacco al micidiale sbarramento nazista in Normandia, o la leva che libera “Little Boy” a bordo dell’Enola Gay. In tutti e due i Trittici della Crocifissione, in uno dei pannelli è appeso il quarto di un animale macellato, rosso di sangue e bianco d’ossa scoperte. Del 1969 sono le tauromachie, dove le torsioni dell’animale, sullo sfondo giallo e piatto, fin troppo ci ricordano quanto descritto nel racconto di Dürrenmatt. Scenografie pittoriche e narrative che s’incrociano nella seconda metà del Novecento, alludendo entrambe a un mito sanguinario e imparagonabile a qualunque altra cosa. Bacon, lungo tutto il corso della sua vita pittorica, ha percepito e messo su tela la vera immagine dell’uomo, cogliendo l’aspetto reale – per così dire “genetico” – di tutti noi, mai concedendo spazio alle immaginette colte negli specchi che riempiono le nostre case, e dove vediamo altre cose, altri volti, non certo simili al naturale repertorio che ci contraddistingue. Bacon non deforma, non stiracchia, non fa contrarre i muscoli e le facce, ma lascia che il sembiante umano si mostri per quello che è. Basta guardare bene la sfilza dei Papi, i ritratti di Henrietta Moraes, di Lucian Freud, di Isabel Rawsthorne e di se stesso,  per accorgersi come la distorsione non muti la vera carne del modello, ma documenti in uno sforzo immane tutti i sistemi che rendono vivo un uomo: il nervoso, il muscolare, il vascolare. La carnalità così ordinata non genera mostri, ma li evidenzia per quello che sono, all’origine: prima gli dei, poi gli uomini, rinchiudono il Minotauro in un labirinto di specchi, inventandosi così i loro limiti morali. Poi lo mandano a morte e lo macellano con macchine veloci e letali. Dürrenmatt e Bacon dimostrano che la condanna è loro, sconfitti nel confronto col mondo che violano. E’ il significato primo e ultimo delle epoche che hanno visto l’avvento della razza umana, senza nessuna reinvenzione, qualcosa che almeno un terzo maestro del Novecento, che qui appare e sparisce di traverso, è riuscito a calare di peso nel proprio lavoro: Beckett.