Andare a capo ♠
La rubrica di Elio Grasso
Trascorsa la Pasqua, non invano nonostante l’attuale avventura terrena, riprendo le corrispondenze con la poesia che sa di lotta e salvezza: il poema, nel più vero senso del termine, portato dal libro di Carlo Alberto Sitta, Museo degli astri. Testimoni delle cose poetiche, persona e libro, come raramente accade negli esiti della realtà a cui siamo di fronte. Di fronte all’orizzonte che oggi si fa vedere, tessuto in abbondanza di rilievi e scabrosità, contaminazioni radioattive e climatiche, molti giovani si raggruppano in nome di eventi biografici minimi, assumono battaglie minime, e davvero non so quanto sia giusto farlo. So che, ancora di fronte a tale orizzonte, vivono poeti meno giovani (alcuni addirittura hanno varcato la soglia della vita – e penso a Spatola, Porta, Sanesi, Beltrametti, Vicinelli, Costa, Raboni, Rosselli… – senza però davvero andarsene) che diversamente combattono con belle ragioni, con armi distinte e leggere, capaci forse di ferire ma non di uccidere, anzi di rinvigorire i corpi degli ascoltatori, siano questi puri ed esenti, siano questi altrettanti poeti capaci di vedere partenze e approdi, dilemmi e coscienza. E così porto i miei passi dentro questo libro, non senza cautela, e avanzo come se anch’io fossi capace di dispormi dentro a un tal genere di destino. Anche se so bene quanto il destino, nel caso di Carlo Alberto, sia venuto fuori da un mai esaurito rapporto intero con la terra e i suoi abitanti, le città i paesi (Modena, Nonantola) e foreste, pullulanti di anime corte e lunghe, di corpi magnifici e forse anche brutti. Ognuno ha il suo rilancio di vitalità, e la vita mai sparisce del tutto: comincia proprio in Rara Requies (1999) questa capacità di prendere le redini della morte per convertirla e spingerla a forza in “un luogo indenne”. E’ qui dentro (o qui fuori?) che l’amore per la moglie non più fra noi, per Marie-Louise Lentengre, s’incide dentro stagioni che se non hanno la lusinga del mito almeno si ampliano sempre di più. Il poema è la lingua del poeta, che cammina lungo il fiume, contiene numerosi spazi fra una strofa e l’altra, lascia che le radici si allarghino nel folto. Ma quanto costa scrivere che l’acqua trascina la cenere “finché non diventa insensibile”? Quanto si riesce a tagliare le radici fino a che il fusto si allarghi sull’amore, vicino alla terra come si deve, senza che si protenda inutilmente verso l’alto? E’ il costo che ha l’imbrigliare la prosodia dentro la propria percezione, senza che la realtà si capovolga o diventi addirittura metafora. Il costo altissimo che si scontra con l’esilio, tenendolo a bada, e rifiutando le droghe del dolore. E’ così che la verità della parola si può paragonare a quell’altra verità che strappa proprio tutto: “Il corso del tuo ultimo viaggio ha strappato / la foce dove una spuma irrisolta si frange…” Carlo Alberto è stato dentro, senza mai smettere, questo paragone, rovesciando su di sé l’ultimo fiato, l’ultima fiala di medicina, come se davvero esistesse una bella dimora per tutto. Rara Requies è il Salmo che semplifica e rende noto l’accaduto, dentro un corpo e lassù sopra la collina, l’assoluta sincerità dell’uomo che canta la propria fragilità: “Per non vederti più come eri e non farmi / tradire dal verde perpetuo ho murato ogni / antro nella retina che mi conduce in città”. Per fare questo, Carlo Alberto ha attraversato le tradizioni della poesia europea, ha negato e liberato, ha assunto l’aspetto francese della lotta, in direzione della realtà psichica e drammatica dell’esistere. La luce e la sensazione della luce, là dove è nato e forse non è già più provincia, e il Secchia è il fiume di tutti i fiumi, ancor più della Senna: “Anche nei giorni felici ci potevamo stancare / prima del contrarsi delle canzoni che amavi / nelle linee della mano…” Si dà il tempo alla vita di diventare donna, prenderla e lasciarla secondo i propri slittamenti, per poi affrontare il dolore con risentimento, e questo soltanto nel trascorrere dei giorni, mai nella poesia che invoca altri metri, altri meridiani: “A questo serve il distacco, a colpire la vita / nel momento in cui l’affanno prorompe”. Cos’è questo, se non una dichiarazione di poetica e al tempo stesso una dichiarazione di esistenza in vita? E rendo ragione del fatto, adesso che è trascorsa la Pasqua, che questi due versi sono davvero una culla, una fonte, un ombelico, per chi voglia avvicinarsi al grande fiume della poesia contemporanea. Di quale condizione è, dunque, un poeta come Carlo Alberto Sitta, che avvia il suo libro più importante con il poema che sa “essere” qualunque possibilità legata alla lingua? Ragionamento, dolore, speranza, capacità di nutrire un sobrio costituirsi: 101 versi soltanto, solcati da una grossa manciata di spazi bianchi che, come molti sanno, assumono il significato del lutto. Ma c’è anche il candore dei primi tempi, perché qui spesso il cammino va verso l’origine, o almeno verso l’inizio che aveva molto da imparare, e già lo sapeva: “Sono coralli i drappi stesi nell’immemorabile / candore dei primi anni, prendono il posto dei / frutti certi di questa terra…” E dunque sia, Rara Requies.
Gerusalemme degli orti, delle navigazioni sulla sabbia tutta intorno, oltre le mura, a cui si lega questo poema del 2001, con il controllo dei semi e delle idee senza incagliarsi nei rami secchi del millenarismo: “A nominare / dio ne intuivi la folla interrarsi / sotto la spia segreta delle stelle…” Quelle parole che lasciano il segno del passo, perché sempre l’uomo conserva la libertà di dare significato, anche diverso dall’usata cognizione, al proprio sentire. E sentire e “vedere” qui procedono accostati come sensi primari: sentiamo la capacità del distinguere il clima, il calore sulle mura, l’aria che passa fra gli ulivi. Le stanze di Gerusalemme si dilatano, assumono la consistenza di mattoni cotti alla luce della visione, perché in questo poema in misura maggiore si avverte una progressione inedita, forse mai provata, verso l’abbacinante delirio solare che sovrasta una “terra scabrosa”. Carlo Alberto va alla ricerca del sangue, dopo averne conosciuto il rallentamento e l’ingorgo. Sa che nei luoghi ben poco metafisici dell’Oriente più vicino “vegliano le armi”, e il suo entrare dentro il racconto, dentro la storia già scritta e vissuta, trova sentieri destinati a una prova di salvezza. Non che sia facile nascere, mi pare si possa leggere in questi versi, ma di sicuro nemmeno morire è qualcosa di naturale: “Prima di nascere c’era dissipazione / completa, la guerra.” Nei dintorni di Gerusalemme sostano i figli e il nuovo della poesia che si fa largo, appena essa viene scritta. Come avviene che la divinità sia poco più che apparente, che lo sguardo interpreti ciò che a malapena riesce a vedere? A queste domande non c’è risposta, come non c’è quando si capisce che il poema è finalmente risorto, ma “…ecco trabocca una luce che lede / di lato la folla, investe l’oscura / fede inestinta”. Le onde e le ombre vanno a incidersi su quelle mura, che forse crolleranno ma che intanto ci hanno portato lì, sotto un cielo di stelle e dentro il “forte odore speziato del legno”. Gerusalemme, resurrezione del poema.
Trascorsa la Pasqua, è probabile che il nostro sguardo sia agevolato nella sua primaria funzione, così possiamo inoltrarci e stare dentro quella bolla dove è contenuta la radura della poesia: è qui che hanno dimora le tre parti del Museo degli astri, scritte durante un 2004 fervido e al riparo da equivoci. Forse davvero la luce si spezza se c’è bisogno di ricorrere a una struttura dove evocare e invocare, se non addensare, quegli astri che spesso sono nascosti da una “materia oscura”. Dylan Thomas l’aveva già immaginato, e per questo Carlo Alberto lo ricorda con il verso Light breaks where no sun shines, prima che ci accorgessimo che l’attuale mondo va “fuori dal conto”, da noi indotto a strani comportamenti, come ridurre ogni garanzia di sopravvivenza. Scrivere di questo in poesia è sempre andare oltre, trovare nel mondo ragioni di accrescimento, purché si ascolti il proprio vivere al centro di quella radura, di quella bolla. Il poeta conosce i percorsi e i nomi delle strade, nella prima parte del poema il verso si trasforma in una cadenzata prosa che si alterna alle stanze originali, come in una sorta di coro o di semplice monologo posto subito in primo piano. “Avvolgere il cielo e renderlo illimitato mediante pari altitudine…”, ecco che questa idea di poesia si tramuta in territorio teatrale, si sentono addirittura i passi sulle tavole del palcoscenico. Dentro l’estrema percezione di ciò che sta in alto, e che per forza di cose e struttura delle particelle elementari raggiunge il piano terra, il poema avanza nella descrizione di una creazione e di una disfatta, quest’ultima resa percepibile da profezie antiche, secondo cui “Niente ali per noi, solo pesi, vacillanti misure d’oro…”: le domande disseminate lungo le pagine sono strazianti, se appena ci appoggiamo a un muro graffito e riusciamo a guardarci intorno. Carlo Alberto da parte sua sa trovare nella propria lingua quei sentieri ancora percorribili nell’immensa piana di calce che sta diventando la zona bassa del mondo, su cui le macchine scintillano. In questa esperienza della realtà vengono ribaltate sulla volta del cielo le magagne e i pallori che man mano vengono scoperti quaggiù, secondo una copia che non darà scampo a nessuno: l’elenco degli astri, da Orione a Deneb, da Pegaso ad Algol, è disposta come un rosario che forse sarà capace di guidarci, “nei saloni malamente rischiarati”, dove le “intemperanze celesti” si scontreranno con quelle nostre, quelle che in nessuna epoca ci siamo fatti mancare. E avanti e avanti, fin dove la struttura evocata dei continenti, perché è indubbio che qui si procede per via di terra dato che il Museo ha profonde fondamenta, si trasforma in Africa, l’Africa che più di tutto ha subìto la frattura, per cui non si può che cantare la disfatta delle belve, quel loro disperato smagrire. Le stanze del poema si trasformano in un rendiconto preciso, le attraversa una corrente che lascerà il segno (“A ogni pasto silenzioso dei giorni / consumo lo sbocco naturale della / distanza.”), vi si costruisce un indice puntato contro le infamie, e tutto questo senza che venga mai meno l’eccezionalità irregolare del poema. Poesia concreta, poesia civile, posso invocare diverse fisionomie poetiche, ma qui davvero il significato non viene mai meno: “L’incarnazione in anime vaghe / nel folto della remota mandria / nervosa che stancamente vive / la propria ignominia non sa di / braccare la putrida subcorticale / corteccia africana incolpevole / di affinarsi”. E’ nella terza e ultima parte del poema, nel finale del libro, che fanno la loro comparsa gli alberi di Elena Vadacca, qui nero-grigi geroglifici venuti da chissà quale cunicolo sotto le sabbie del Maghreb. Per la verità si tratta dello stesso albero che si trasforma, da un bianco appena segnato da leggeri graffiti a un nero inchiostro che non mi pare sia dovuto all’evento naturale della notte ma ad una repentina inchiostratura della vita. Come se i laghi di petrolio, dopo le fiamme alzate durante la guerra, adesso spargessero il loro olioso bitume: “La pendenza sospende il buio”, scrive Carlo Alberto, e “Moti offuscati dell’aria”. E’ un procedere “di albero in albero”, tra fremiti fedeli a un codice e a una temperatura. Ormai lo sbilanciamento è avvenuto, la progressione verso la dura sopravvivenza rallenta, e il canto si fa mantra, perché così è la resistenza del poema lanciato nel buio. Qui arrivano codici celesti e terrestri che forse non salveranno l’atmosfera, “ogni diamante è estremo carbonio”, anzi ci lasceranno liberi di cadere per un’infinita scarpata. Così nelle ultime stanze si raggruppa una folla di personaggi che nemmeno sanno più dove osservare le stelle, da Sceab a Murphy, da Malone a Grabinoulor, fino a lui, al “lui” per antonomasia, Stephen Hero. A Stephen toccherà esplorare la valle, discendendo con fari fino a quel che resta della vita: “Il piede sul freno ha dissestato il fuoco / centrale dove arde l’amore del pianeta”. Carlo-Stephen ha scritto un’unica lingua dentro il Museo degli astri, mai come in questi ultimi anni ha avuto dalla sua parte il disastro e la visione del disastro coincidenti col suo lavoro di scrittore. Una fortuna, una santa avaria, un sentimento nuovo per la futura poesia?
Carlo Alberto Sitta, Il Museo degli astri, Edizioni del Laboratorio, Modena 2006
You must be logged in to post a comment.