Un tale aveva appena finito di radersi. Il barbiere della piazza era una stazione di frontiera. Non era raccomandabile sostarvi. Io lo facevo. Era un modo di procedere contro, non era una strategia vincente. Il tale diede di stomaco. Un liquido bianco. Era la roba che saliva.
L’eroina.
La piazza era l’eroina.
Io volevo sparire. Non mi odiavo abbastanza per farmi una spada. Ne avevo paura. Ti rompeva le ossa, stavi a rota una settimana.
Ho conosciuto meticolosi terrori, uno dopo l’altro. Questo è inaugurare una carriera, vi dicevo. Sedevo al freddo, con le gambe scoperte e le calze rovinate, sul marciapiedi di un giardino. La fontana non zampillava. I nostri visi erano maschere, ceroni stralunati. La giovinezza non era gagliardia. Vigore.
Aspettavo in un giorno di sole di dicembre che quella sventura arrecasse qualcosa. Non intercettavo il dettaglio, l’assenza. Ridevamo con le altre. Nella finzione, nella disperazione di non trovarci.
Era forse cercare una verità, procedere contro, bere Martini alle dieci del mattino, con in testa il suono ferale di una festa alcolica? Non trovarsi era la deduzione di una parziale e inesatta condizione di impoverimento, da cui la necessità di prostrarsi oltre i cancelli, l’intuizione dell’infinito. Ma lo leggo oggi da Cristina Campo. La geografia del passato esaurisce la sua sentenza, senza di me. Mi avverte adesso. E sarà ancora una volta tornare nel tempo fissato e lontano e smarrirsi, da perdere la ragione, chi ero allora? E adesso?
Il tale vomita sull’asfalto. La roba sale, dicono i tossici della piazza. Indossavo abiti neri. Il visino smorzato. Avrei dovuto asciugare ogni infamia, con un panno decoroso, la mia ottusità, l’innocenza interrotta da letture precoci, la presunzione dell’inanità, inconcludenza senza un vezzo aristocratico a depurarla di ibride circostanze; ripulire il pusillanime con indolenza, con raccapriccio, con una pietà difficile da perdonare. Lo farò in seguito.
Riproducevamo il mondo degli adulti, nella nostra anarchia bisognosa di un fine. La piazza era un luogo cimiteriale. La stazione di confine.
C’erano alcune canzoni che ascoltavo come una ragazzina sentimentale, lo ero sul serio, bisognosa di un’anarchia senza un fine. La mia esistenza era del tutto irrilevante. La tentazione al pietismo è un fatto congenito. Non mi ha tuttavia riscattato, ancora oggi, l’anarchia senza un fine è la risoluzione blanda all’irresolutezza; non contiene uno slancio in avanti, non ho costruito, mendicando diritti astratti, battendomi il petto nel nome di un sacrificio consumato. Gettare il cuore oltre lo steccato, inutilmente, senza brividi. Senza altro che l’abitudine a punirsi.
Il castigo di essere comunque, esistere, scalpitare, ero la bambina che piangeva di più, nel reparto neonatale, una domenica di dicembre, con la neve sui bordi delle strade, in una città del sud. Io sono destinata a sopravvivere.
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