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La storia di un’ossessione

Secondo me Berlino è la città che merita preludi piovosi. O cose come, al primo rigo: cominciò a piovere. Sotto la porta di Brandeburgo. Cominciò a piovere. Era Berlino Ovest. I libri di storia contemporanea ricordano l’affondo del presidente Von Weizsacker sulla questione tedesca: “Fintanto la porta rimarrà chiusa” eccetera eccetera, pontificava nel magma capzioso del veleno propagandista, ovunque e fuori la guerra, sorprendere una qualche verità è penetrare una disperazione labirintica. Oltre il discorso di Von Weizsacker, si spalmava una terra inutile, profondissima, si gettava oltre le distanze che definivano il confino inospitale, uomini contro uomini, uomini separati da altri uomini. Una giustificazione legittima, detta Antifaschistischer Schutzwall, una cortina antifascista antagonista di ideologie ricacciate come un taglio nell’andito abbellito e fasullo di talune coscienze, buie oggi come ieri.

Berlino Ovest. Quando tornò la Storia a riscattare epicamente l’oltranzismo senza redenzione di un tempo privo dell’Uomo, ero una bambina, poco più di una bambina. Berlino era Christiane Felscherinow, io avevo nove anni. Christiane Felscherinow aveva scritto un diario. Lo avevo letto.

A 12 anni fumava hashish, leggo in quarta di copertina, a tredici il primo buco di ero. Christiane viveva a Groupiusstadt, Berlino Est.

Batteva al Bahnhof Zoo, imparai a pronunciare parole adulte. Aveva una specie di divisa, io avevo i brividi al pensiero. Cuciva i jeans sulle gambe sempre più magre, indossava un chiodo nero, un rossetto scuro, scarpe lucide con il tacco, scarpe da donna. Teneva il quartino, il laccio, il cucchiaio, in una busta, povera e usata. Io vedevo tutto. Io li ho visti prima. Babette morire di overdose in un cesso lurido di una stazione; l’ecatombe di un tossico senza narici, il demone che tonava apocalissi incendiate, un ago conficcato nel collo.

Riboldi Gino di Testori chino sul water.

E gli altri.

E quale ouverture terrificante. Il rombo di una metropolitana, il volto grigiastro ripetuto freneticamente nel raglio sospinto e schiacciato sui binari, echeggiante nel tunnel eterno. Come i viaggi in treno dove la morte è il tendaggio pesante della carrozza, il brusio cinereo, la nausea, la ripetizione violenta del minuto, delle scritte lette su cartelli sbiaditi, ne pas se pencher au dehors, un tanfo sciupato d’intorno.

E i volti indaco, o peggio, ingialliti. O dalle luci finte di un underground che è già un trapasso, l’induzione al mondo privo della grazia.

L’elegia cimiteriale che farnetica una nuova razza di plebei.

La porta di Brandeburgo era ancora Berlino Ovest, fino al 1990.

La gente attraversava i ceck point, premuta nell’attesa. Il primo colpo di piccone. Giovani berlinesi esultavano sopra la barricata, la porta di Brandeburgo risplendeva dentro i fari della notte, neon e fiamme d’Occidente. Gorbi! Gorbi! Urlavano nelle marce al lumiciattolo tremulo di una fiammella, appena qualche giorno prima, i resistenti, la coercizione introiettata diventava supplica e cercava l’uomo nuovo. Gorbacev. La gente non si riconosceva, guardandosi, di fronte, è pazzesco, è pazzesco, si dicono l’un con l’altro, attoniti per la libertà rovesciata sugli sguardi dei militari. Sui volti di ignari, l’un dell’altro. Tutto era disarmato. Erano passate le 23 da 30 minuti. Cos’è la libertà se non il gesto, l’esoso impulso, osare di credere nell’impossibile, lo diceva Walesa nel suo Solidarnosc, crollerà il muro, l’Unione Sovietica sparirà dalle carte geografiche; il grande Papa, uno strano coraggio rivendicato fin dentro le chiese. Cos’è la libertà. Sembrava un delirio, una visione. Credere nell’impossibile.

Invece Christiane viveva a Berlino Est.

E’ diventata la mia ossessione.

Le ho scritto una lettera anni fa. Se non ti avessi letto, sarei stata migliore? Avrei studiato?

Avrei finito l’università. Non avrei cercato te, Gropiusstadt, Detlef, Stella, Atze, Ufo, Babette, gli altri.

C’era un colle, una montagna di lamiera, nella mia periferia, dove non pioveva mai, e i gabbiani radevano rocce aguzze e irregolari dentro cui esplodevano fiori carnosi, simili a stelle.

Sono fiori che non muoiono mai.

The sense of doubte. Forse ti fai di eroina perché tuo padre beve? Perché ci sono androni sterminati, con le bacheche fracassate e i cipressi lunghi fino alla cima di un torrione, il nuraghe-alveare metropolitano, una catacomba al contrario.

A Berlino pioveva sempre.

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Turgenev e la sua Quercia. L’apocalisse della stupidità o della russofobia. (Il Fatto. Quot.)

La vera domanda è: quante volte un pensiero stupido – un’alleanza, un patto, una federazione, fate voi – può superarsi in stupidità? Non ci è dato sapere il numero, ma un fatto sì: quel numero, se lo trovate, moltiplicatelo all’infinito.

Ivan Turgenev. Uno dei nostri padri russi, scrive cosette da niente tipo “Padri e figli”, qualche drammucolo, roba da nulla insomma. È finito dietro la lavagna. E con lui la rigogliosa quercia che lo scrittore di Orel piantò 198 anni fa. Sergey Palchikov, con molta spregiudicatezza, ha presentato l’esemplare secolare alla manifestazione europea “L’albero dell’anno”. In un battito di ciglia ha dovuto retrocedere, come non detto, signori. La fondazione Giant Trees e l’entourage che si occupa del contest avrà sillabato un sintomatico sapienziale: Niet! Niente da fare, Sergey è russo, la quercia è russa, Turgenev è russo.

Siamo in guerra, accidenti. A ogni declinazione con un qualsiasi sinottico e onomatopeico russo opponiamo un no, per non sapere né leggere né scrivere. No alla quercia russa. Il concorso è bene che lo vinca piuttosto la quercia collega polacca, più anzianotta, 400 anni, vive paciosa nella foresta di Bialowieza. La creatura vorrebbe evitare l’idiotismo collettivo (Marco Travaglio lo definisce meglio: il cretino collettivo) e invece eccola tirata in mezzo. Lasciatemi in pace, mormora tra i rami. I polacchi sono tutti buoni e accolgono i profughi ucraini. Ed è vero, ed è commovente. Mentre asciughiamo i nostri occhi, affondiamo i pensieri nel categorico muro che, proprio da quelle parti lì, si inerpica divisivo, al confine tra Polonia e Bielorussia, dove pare che altra razza di profughi, di una qualche sottomarca, irachena, siriana, afghana, non smettano impunemente di morire.

L’originale è uscito sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, edizione di sabato 26 marzo, 2022.