Monthly Archives: June 2019

Lettere. Volevi morire.

L’upupa rincorreva il suo medesimo suono, la fissità gutturale di un canto che ti procurava il tedio, il più simile alla tristezza. Le mattine in casa della creaturina la penombra ti ricordava la fuliggine e la nullità, ma non sai spiegarti meglio. Il rintocco di un campanile a mezzogiorno. Eri prostrata, dalla finestra scovavi la luce tremante raggiungerti da fuori come un richiamo remoto. Fuori era un tempo remoto, a volte per te era pauroso. Eri bardata sempre, non potevi arrenderti, cedere, quando sembrava che l’universo ricominciava a strutturare un destino più consono, i fatti che accadevano destituivano qualsiasi autorevolezza nella speranza. Toglievano prestanza a tutto il resto. L’universo diventava un’orchestra caotica che rovinava addosso sulle tue fragili membra, il tuo piccolo seno, la tua insensatezza giovane e restia a intercedere con la brutalità o qualcosa di simile.

La donna di servizio si muoveva in cucina tra le pentole e il sugo da controllare. Il professore ascoltava Radio Radicale, nella sua stanza. Le camere erano nella penombra. La creaturina era lieta. Tu volevi morire. Per quale ragione? Per l’upupa, il suono stantio e ripetitivo, il mezzogiorno bianco prossimo a travolgerti, perché non sapevi come uscirtene. Il siberiano e tutta l’infamia dei luoghi e i miserabili, elemosinanti buoni  a nulla. Suonavano il campanello e sapevi che il siberiano aveva la scimmia, la rota come per l’eroina, veniva a derubarvi, con la sciocca scaltrezza, con le maniere gentili e alticce e quando occorreva stringendoti i polsi fino a farti dolere, con le minacce che farfugliava non meno noiose dell’upupa gutturale sui rami del salice.vera 6

Questo amore: è stato il tuo assillo, oggi come ieri. Averne conferma dal di fuori, un certificato sulla tua esistenza. E invece non è stato altro che un ricredersi, ripetitivo come il suono dell’upupa, addolorarsi nell’inganno, esercitarsi nella resistenza alla furia dell’abbandono, che ti ha investito con una precisione indefessa. Lo accoglierai questo abbandono.

Oggi lo riconosci, fattelo amico. Dici, in un mormorio fitto e nella considerazione avvelenata dalle ombre. Ombre come tradimenti, una stortura onnicomprensiva, nella constatazione che tu meritavi questo amore. E non ti dai pace. Fino alla fine è il destino a cui non chiederai udienza, mai più.

Il campanello della porta era un trillo insopportabile, impaziente. E’ il siberiano, pensavi. Il professore raccomandò all’inserviente di non aprire.

Oltre la porta sentivi un gran trambusto, la voce rauca del siberiano inveire contro qualcuno. La vicina di casa petulante aveva osato oltrepassare lo spioncino. Il siberiano era un cane rabbioso perché doveva bere, nella zapoj protratta.

Cosa ti è rimasto? Ogni sacrificio disumano è reso umano e passabile dalla vita stessa. Sei sicura di non essere nulla, di non certificarti nell’amore di un altro. Un rifiuto primigenio sarà il rifiuto a prescindere per tutti i giorni, fino all’ultimo della tua vita.

La creaturina era lieta, leggeva i salmi. Tu sedevi sul divano, avevi poggiato la schiena, provato a chiudere gli occhi. Speravi che il trambusto fuori finisse senza il pandemonio della polizia o di un ricovero forzato. Con il siberiano finiva spesso così.

Chiudevi gli occhi e immaginavi l’azzurro di una mattina di giugno similmente all’azzurro medesimo del mare in cui andavi a tuffarti, alla fine degli esami, da liceale.

Ma ogni volta la tua libertà era un incedere misterioso verso la gravosità, l’andito all’infinita tristezza, alla tragedia altrui, al parossismo irredimibile.

Ti senti sfinita, l’agonizzante che la creaturina solleva con la sua voce sottile, la pazienza della sorella mistica. Aiutami, con lei puoi piangere, il dolore diventa una coperta dove puoi avvolgerti, nasconderti; puoi dimenticarti di esistere per chiunque. Non essere un cruccio la tua assenza, non sarà l’assedio la tua assenza.

Vuoi una spiegazione?

Rispondi.

(continua)

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Lettere. Tu, dov’eri?

Limonov cerca ancora la sua Tanja. Dopo tanti anni, torna a Mosca, era già uno scrittore affermato. La vita gli grondava addosso, Carrère ti sembra piuttosto che non si stacchi da terra, soltanto l’indolenza raminga di Limonov lo sostiene. La narrazione è orizzontale. Ecco cosa convieni. Limonov torna a Mosca, nel cimitero di Novodevicij pensa a Tanja, non perché sia morta. Chi ti ha cercato con la medesima disperazione? Perché adesso vuoi fare i conti?

Leggi Carrère.  Chi ti ha amato come Eduard la sua Tanja? O Nastasa, Nastasa che beve, lui la cerca in qualche sozzo sobborgo della città moscovita. L’alcol che diventa una categoria morale. Persino farsi scopare da qualcuno o infilzarsi le budella al massimo della forsennatezza. Nastasa. Come Paulina nella zapoj.

Lasci il parco quella mattina di giugno. Il siberiano ha il vestito della domenica. Usa ancora il baciamano con le signore che poi rianimerà di rinnovato gaudio alla sua maniera, persino in un bagno pubblico. Tu non dovevi fiatare se no ti tagliava la gola. Lasci il sentiero di tigli alle tue spalle, c’è un lontanissimo mormorio di una vita che ti sfugge ogniqualvolta e che evidentemente appartiene ai fatti minuti. Tu ragionavi per apocalissi, per archetipi universali, di tragedia amore e pianto.

Esci da un romanzo di Dostoevskij o dall’attitudine al bovarismo. Hai letto Flaubert a dodici anni. Ed eri Emma. Christiane Felscherinow a otto anni ed eri lei e ti calavi il trip con un succo di ciliegia. Scriverai romanzi per ricordarti le tue manie inconfessabili.

Che poi tu abbia perso tutti oggi non ti sgomenta, al massimo ti spinge a un sorriso cattivo, di quell’amarezza che non conoscevi, da adulta, da adulta scampata agli anni delicati come un tank. Sei stata ingannata fino alla fine.

Così devi calmarti.

La tua nostalgia è impraticabile. Da dove viene? Si è fermata in un promontorio, a Sarajevo, i cecchini sparano, grancasse e suggestioni al napalm. Il tuo paesaggio è stato felliniano circense. Pietro farfugliava qualcosa seduto in poltrona come un primo ministro, salvo crollare da un fianco. Il professore si incazzava, Pietro era ubriaco e incontinente, il siberiano svolgeva una pratica simile davanti l’uscio del commendatore. Se usciva il poliziotto in quel mentre berciava: ti rimando al tuo paese, delinquente!

Una pozza davanti lo zerbino.  Era tutto molto deprecabile. E c’era da morir dal ridere, ridere con la disperazione, ridere come un singulto, il riso con il suono del singhiozzo. Poi tutto taceva di colpo.

Il professore smetteva di borbottare, la creaturina fissava Pietro steso sul pavimento, la vecchia del campo sputava la sua acredine sul derelitto, scostando la cenere della sigaretta sui capelli bruni e fradici del vagabondo. Tu?

Sotto lo stipite della porta guardavi Pietro dormire indifferente alla vergogna, al decoro, alla rispettabilità.

Avevi lasciato il sentiero di tigli, l’azzurro di una mattina di giugno. Un giorno lo avresti raccontato il mondo capovolto e sfrontato di quegli anni.

La creaturina ti allungava la mano ossuta per dirti: vieni, siedi. Sorrideva. Il mondo capovolto poteva essere la disdetta, la somma di ogni sconfitta. E in effetti, sai, eravate la somma di ogni sconfitta. Ruderi. Legni storti galleggiare in acque opache. Non avreste guadagnato il perdono del mondo esatto, preciso, eretto. vera3

Voi eravate la sovversione, sbalzavate dentro soluzioni ardite. Dovevi farti almeno una doccia. Tornare a casa, dormire.

Il professore ti ferma sul pianerottolo, serrandoti il braccio.

“Mi raccomando” dice, “riprendi gli studi”. Lo guardi stralunata, di quale enormità ti stava parlando? Disciplina, coerenza, congruità. Tu dov’eri?

Scuotevi la testa. Con una mano asciughi gli occhi. Sei una maschera, il trucco colato sulle guance. Eri bella per nessuno.

Prometti al professore quel che vuole.

Lo sai che le promesse non si mantengono, mai?

(continua)

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Lettere. Un giorno d’estate.

Attraversi il grande parcheggio. Vedi Tomek, la sua zapoj è ubriachezza patologica. Gira con un tale Kuba, un ragazzino con le braccia rovinate dalla scabbia. Dormono sotto il distributore di ticket per le auto.

Lucia è sparita. Ci avevate creduto entrambe a questa possibilità. Perché no? Perché non credere all’amore di nuovo?

Recita un proverbio slavo: lo zingaro passa una sola volta dalla campagna.

Le mattine di giugno erano azzurre, un azzurro capace di penetrare le ombre del parco dove andavi a sederti. Seguivi il sentiero di tigli. Sembrava tutto abbastanza innocuo. Non lo era, se non per gli altri. Eri bardata di accortezza. Dovevi sempre essere lucida. Capire e in fretta quando le cose potevano mettersi male, quando soccorrere, quando andare, quando suonare dalla creaturina e pregare il professore di aprirti la porta. Legavi i capelli in una coda forte e spessa. Un vestito a pois, le scarpe consumate. Sedevi al parco,  mentre il mondo deragliava compitamente da tutt’altra parte. Al parco c’era l’umanità bieca che di norma rotolava, incespicava, dava di stomaco. Finivano di sopportare la rota. L’astinenza. Non avevi mai visto qualcuno in astinenza da alcol, fino ad allora. Non cambia molto dalla cosiddetta scimmia dell’eroina.  Sedevi, mentre dinanzi a te si svolgeva un commercio di poveracci, qualcuno vendeva, qualcuno comprava, forme inedite d’amore. Un vecchio con la cinta slacciata forse lo pretendeva, con la medesima stoltezza con cui tu oggi lo reclami. L’amore. Puoi comprarlo, come un vecchio davanti a una donna discinta  che lo vende, eccome. E’ un affare. Tu vuoi la reciprocità, vuoi essere divorata.

Sono combinazioni che viaggiano nell’ordine dell’improbabilità.

Accendevi una sigaretta. Per un secondo saliva la felicità, un secondo, un picco di adrenalina non quantificabile, repentino, la chiami felicità. Tutto può succedere, pensavi. Poi da lontano notavi l’andatura arrogante e incerta nello stesso tempo del siberiano. Aveva i capelli pettinati come un boss della mafia americana. Un Gessato. A giugno. Dietro di lui marciavano con l’incedere dei prigionieri di un mondo concentrazionario, tenuto desto da ogni bassezza, donne dilatate, irriconoscibili. Era giugno. Ed era un Requiem. L’azzurro vinceva la resistenza dei rami, le rondinelle erano in ritardo sulla stagione, ma vigevano nella loro allegrezza quasi a renderci migliori, per riscatto, per pietà. Il creato voleva chiederci scusa, forse. Noi lo abitavamo con irriguardosità, insozzandolo dei nostri errori. Eravamo professionisti nell’errore. Nessuno avrebbe sbagliato meglio di noi, colpito, deluso. Non è commiserazione oggi, è curiosa disamina di un fatto accaduto esattamente, con un irrevocabile significato da tradurre in seconda istanza e non necessariamente.

Franavano in un bivacco. Il siberiano ti vede. Dice che gli dai alla testa. Lo dice quando è ubriaco, più o meno sempre. Resta nel suo bivacco. Bevono. Donne devastate, sembrano donne da postribolo, lo saranno state in un qualche lurido albergo di una città industriale anonima e ex sovietica. Il male le avrà prevaricate, abituandole al gesto disumano.

Spegni il mozzicone, schiacciandolo con il tacco logoro. Rifletti sulle tue scarpe. E’ tutto miserevole. Hai gli occhi anneriti dalla matita che usi come una maschera, qualche volta. E’ una specie di punizione. cropped-ver-pa-e15376175702601.jpg

Le bacche piovono sulla panca dove siedi, il guano delle colombe rende il piano infrequentabile. Il prato è svilito. Tigli, magnolie, pini. Aiuole come orinatoi. Un vecchio polacco ti chiede qualcosa, era un militare anche lui: dai cinque euro.  Kurwa. Dai cinque euro. Un tunisino lo prende dalle spalle, “togliti cazzo di qua, lasci sorella”.

Finiranno a botte. Il siberiano è steso più in là. Ti alzi e vai via. Il sole adesso è un albume, caldissimo opaco vischioso. La luce ti raggiunge così, rendendo la città nembosa, addormentata.

Vorrei spiegarti l’insensatezza apparente, un lutto ingannevole, perché invece era il rudere che diventava gloria.

Non dovevi essere amata. Eri una madre. L’amore della madre: hai presente? Perdona tutto, sopporta tutto. E’ San Paolo. E’ la carità.

O non so, l’amore.

Non ti voltare, non guardare dove li hai lasciati.

Così un giorno il professore ti chiede: “perché, ragazza mia?”.

Per la pietà, per qualcosa di terribile, mio caro professore, si chiama pietà.

Allora immagini – come in un brano di Hlasko – il professore impallidire, sorridere soddisfatto, e poi impallidire. Allorché vide il “volto stralunato e gli occhi bianchi di Kuba”.

Era un giorno d’estate di mille anni fa.

(continua)

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Lettere. L’abbandono.

La tua solitudine era la risonanza o ancor meglio la grancassa morale di tutte le altre.  Il signor Rybicki, un omino innocuo, l’evaso di Hlasko (lo leggevi, pagina 155, edizione integrale, Oscar Mondadori), traduce una certa intemperanza, una intemperanza molto stupida. L’intemperanza era la ragione del disordine, le risse, la promiscuità, la correità con i balordi che frequentavi. Evadere, con la rivoltella del guardiano, Ribycki di Hlasko preferisce esercitare l’inutile crimine destinandolo al fallimento, evade al termine della sua pena, con la rivoltella del guardiano che ucciderà. Ribycki, torni indietro, si augura il capitano di Polizia. Lo sa che la vedova del guardiano oggi è una vedova piacente?

C’è una inesorabilità patetica nell’esito delle cose che ti hanno occupato, attraversato. Non eri mai veramente disperata e quando lo eri, sedevi su una panca al porto, e fumavi, guardando le navi cieche verso l’orizzonte, svanire. Liberavano l’assedio della noia che replicava i medesimi giorni.

Sali di corsa, una due tre rampe. Il professore non vuole aprirti. Sono sola, prometti. Apre. Il siberiano beve, non è così veloce, non ti troverà. Schiatterà sotto un cespuglio, vedrai. Poi te lo vai a riprendere o finisce dentro.

La creaturina ti aspetta. Siede sul letto, due cuscini la reggono su. Sei stravolta, accaldata, le ombre scure del tuo volto sono il segno della paura o dell’impazienza. Il siberiano ti verrà a cercare e dovrai fregarlo come sempre o tenerlo a bada o lasciare che la sua sbronza si esaurisca su di te. Il tuo istinto virgineo e il siberiano. L’anomalia è la tua cifra, diresti oggi. Molto più sostanziale della poetica che hai dedicato all’abbandono.

Ti scoccia moltissimo doverlo riassumere così: ma tu sei il risultato di un abbandono, replicato, come la noia nei giorni, i ricordi pedissequi quando diventano farneticazioni.

Siedi, ti fa segno la creaturina. Siedi sul letto. La vecchia del campo è sulla poltrona di Damasco. Un borbottio che è una lingua paurosa: ce l’ha con te, con i tuoi casini. Lei deve rimediare qualcosa, alla fine non se ne va mai senza una banconota da piccolo taglio nella tasca della gonna.

“Lasci tua merda di uomo”, sibila mentre tu eviti il suo sguardo. E’ una vecchia fiera e efferata. Sì, i suoi pendenti, la sua memoria, sono efferatezza nell’insieme. La figlia ha accoltellato un tale, un macedone, rimase tre giorni in carriola, al campo c’era una grande festa, quel tale puzzava maledettamente. Non è morto. Era ubriaco.

Il professore sulla porta dice che devi andartene. Sei mortificata. Ti sei guardata allo specchio? Guardati. Indossi un vestito bianco, lungo fino alle caviglie, lo hai comprato a Parigi, da studentessa. E non riesci a immaginarti dentro quella felicità. Eppure. Ha pieghe e volant sui fianchi e sulle gambe. Il bianco è opaco, le tue mani sono sporche, annerite, hai il tacco delle scarpe consumato. vera5

Devi andartene, dice il professore.

“Ti sei messa nelle mani di un pezzente, un delinquente” dice il professore sulla porta. Parliamo di socialismo, di inoppugnabilità dell’ideologia sulla coscienza. Non lo segui. La vecchia del campo continua a mormorare nella sua lingua di anatemi. Il professore era malato di schizofrenia. Non lo sapevi. Non hai incontrato mai più tanta intelligenza, delicatezza, irreprensibilità, volubilità, tutta insieme.

Devo andare allora. Dici. La creaturina tiene la tua mano. Chiedi scusa. Scusate. La vecchia mormora i suoi anatemi.

Fuori, il caos ti ricorda che è estate, e qualcuno vive, cammina, si muove. Vive. Ti sembra di intercettare un profumo antico, forse sono tigli. Pensi a una pioggia di fiori blu. D’un tratto. Ti costruisci le soluzioni, prima che diventino terrori, persecuzioni.

Puoi farcela. Sei così stanca. Sei in partenza o alla fine di una guerra o dentro.

Il siberiano striscia nei suoi abomini. Non riesce  a sollevarsi, prova a reggersi sui gomiti, ricasca sulla terra, accanto alla carogna di un animale. Piange. Matka. Piange. Lo sollevi. Si aggrappa alla tua gonna, in ginocchio.

Matka.

(continua)

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Un viaggio a Marsiglia con John Massa

Ho conosciuto John Massa durante un Festival in Ciociaria, ad Alvito, Il Festival delle storie, organizzato dal giornalista e scrittore Vittorio Macioce. Con un gruppo di musicisti e la scrittrice Stefania Nardini, John e l’ensemble mettevano in scena musica e parole della Marsiglia di Izzo. Rimasi colpita dall’intensità di questo artista, considerato uno dei maggiori sassofonisti della scena jazz contemporanea. Vive a Marsiglia, dirige il più importante jazz club della città, Le Jam, realisticamente un crocevia formidabile di artisti da tutto il mondo. Ho chiesto a John di raccontarmi questa Marsiglia, vitale, vibrante, sensualissima. Lo ha fatto e lo ringrazio infinitamente. Di seguito la prima parte, con il testo originale in francese (vt). 

 

di John Massa

 

I bambini della Piana

***

Prima parte

Alla Piana (in francese La Plaine), tutto inizia spesso con un malinteso. Anche questo nome – La Piana – di solito indica una regione o un’area situata tra le colline, La Piana di Marsiglia: si trova in cima a uno di loro! In Provenza il “Plateau” si chiama “Planos”; nel tempo, un’abitudine in coppia con una brutta traduzione ha dato origine all’espressione contraddittoria “salire sulla Piana” dal momento che il nome è rimasto e stiamo parlando de La Piana, senza fare domande … Se Marsiglia è un villaggio, come tutti i suoi abitanti sono d’accordo, La Piana è allo stesso tempo il suo mercato, la sua scuola, la sua strada principale. Il cortile della scuola! Sì, è tutto! Ma non queste scuole tranquille dove ci sono studenti che giocano saggiamente e altri che aspettano in fila dal loro insegnante, no, piuttosto di queste scuole dove c’è una sorta di caos continuo e spettacolare, un gran casino pieno di urla, risate e musica: La Piana è il quartiere degli studenti degli artisti assetato di piaghe e ubriaconi, senza una virgola tra ogni parola perché a volte sono le stesse persone.

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John Massa, considerato uno dei migliori sassofonisti della scena jazz contemporanea. Nasce a Marsiglia, ha origini italiane, direttore artistico del jazz club “Le Jam“.  Si è diplomato al Conservatorio di Aix en Provence . Ha intrapreso la carriera di solista. Insegna matematica in un liceo di Marsiglia.

A nord, lungo la rue di Thiers, incontriamo la vecchia Cannebière, a ovest, lasciando il
conservatorio di musica sulla destra, apriamo lo sciame del quartiere di Noailles, la piccola Africa. Dall’altra parte, verso sud, si trova il distretto della Prefettura, diviso in due dalla bella e lunga rue Paradis. Infine ad est, è il distretto di Camas e Sebastopol, molto popolare tra i bobos e gli insegnanti di ogni tipo. La Piana è al centro di tutto e di tutto ciò che accade a Marsiglia. Lei – La Piana – sa tutto, sente tutto, non sussurra mai, parla poco, spesso urla. E spesso, non capiamo cosa voglia dire. Devo dire che lei è su tutti i fronti, afferma, lei fa tintinnare, bilancia gli slogan! Quindi, necessariamente, è un tumulto ed è difficile da navigare. Piazza Jean Jaurès ospita il più antico mercato di Marsiglia, un’istituzione! Tre volte alla settimana, questo grande spazio accoglie sotto i suoi platani centenari oltre 400 mercanti. Tutto quello che si trova lì potrebbe raggiungere le porte di Marsiglia, via mare, via terra o aria: tessuti, biancheria, vestiti, profumi, prodotti per la casa, utensili, apparecchiature elettroniche, e naturalmente tutti gli alimenti possibili, e gli odori delle bancarelle di pesce, verdure, formaggi, carni e polli arrosto che si innalzano sopra l’intero quartiere.

Tutta la città viene al mercato comune, in particolare il sabato mattina, è il posto dove andare con gli amici, si potrebbe fare in fretta due gare dal costoso, bere un aperitivo in uno dei tanti caffè situati intorno a Piazza Jean Jaurès e finire mangiando, su un angolo di una panca, una porzione di paella o un cono di panisses. La fiera si rivolgerebbe felicemente agli ospiti con l’accento e, per alcuni, esprime una verve degna dei più grandi oratori dell’Assemblea Nazionale. Era viva, rumorosa e puzzolente … era come Marsiglia.
Era … perché pochi mesi fa, il municipio ha deciso che fosse necessario ristrutturare la piazza del mercato, per riqualificare lo spazio urbano; a dimostrazione, due pannelli esplicativi, non si capiva nulla. I progettisti hanno anche tenuto incontri di consultazione con i residenti per ottenere le loro opinioni sulla questione. Eppure hanno raso al suolo tutto senza ascoltare nessuno: la piazza, l’asfalto, gli alberi, l’asilo, il mercato, gli odori, gli aperitivi e i cornetti di Panisses. Le persone si sono lamentate, hanno manifestato, a volte violentemente. Il municipio ha eretto un enorme muro di cemento costruito attorno alla piazza per rendere sicuro il cantiere, la gente si lamentava ancora di più, urlavano… si sono scaldati per più di un mese: dimostrazioni, broncas, fumo , spazzatura antincendio, carichi di Crs … Ma il muro era solido, e la gente era sfinita, La Piana ha perso il suo mercato e il sindaco di Marsiglia si è guadagnato centinaia di metri quadrati di muro di insulti, di riflessioni meditate su di lui e slogan non riconoscenti per la sua azione politica … Forse il nuovo posto sarà molto bello, moderno e molto più presentabile ai turisti, ma tutti sanno ora che parte dell’anima di Marsiglia è sepolta dietro un grande muro di cemento. È così.
Tuttavia il fatto non ha impedito a La Piana di continuare ad esistere, addirittura, sembra che tutta questa commozione abbia attratto nuovi discepoli, dapprima curiosi e poi gradualmente sedotti: tra la piazza del mercato e il famoso Cours Julien, i bar e i ristoranti sono pieni per tutta la settimana, le piccole strade pedonali offrono i loro laboratori artigianali a numerosi turisti. La Rue des Trois Rois funge da spina dorsale per tutta questa gioiosa carcassa. Nell’ordine: la rue di Bussy L’Indien, la  Pastoret e infine la Crudère, che scendono tutte su Cours Julien, sono ciò che chiamiamo strade assetate, in tutto il mondo.
Qui ci sono caffè e bar di tutti gli stili e le dimensioni. Poche terrazze, la terrazza è la strada! La sera (e spesso la sera inizia poco dopo mezzogiorno a Marsiglia) centinaia di marsigliesi si mescolano ai turisti per praticare una specie di gomito del campionato del mondo in piedi. Birre e vini al bicchiere sono sotto i riflettori perché sono le bevande più economiche! La notte che avanza vede sguardi sempre più scintillanti e sente le voci suonare più forte, le persone si mescolano, familiarizzano. Molte risate rumorose, quelle di studenti che si incontrano e si lamentano gentilmente, quelle delle coppie che discutono anche a volte. L’alcol scioglie le lingue, i fumi, le risate e le passioni, brulica in tutte le direzioni, sentiamo la musica, non sempre sappiamo da dove viene: un bar che scende, le danze, un piano bar, un appartamento che accoglie gli amici

Il cuore de La Piana, la sua sede principale, si trova all’incrocio tra la rue  des Trois Rois, la Bussy L’ Indien e la rue Poggioli. Qui si trova uno dei più antichi bar di Marsiglia, lo Champs de Mars, un piccolo birrificio chiamato Melting Potes, una crêperie chiusa per secoli e chiamata The Lost Cat , e il miglior jazz club mai esistito a Marsiglia, il JAM, al 42 rue des Trois Rois.

(continua)

 

 

***

 

Les enfants de la Plaine

Première Partie

A la Plaine, tout commence souvent par un malentendu. Ne serait-ce que ce nom, «  La
plaine », ça désigne habituellement une région ou une zone située entre des collines, à
Marseille la Plaine est située tout au sommet de l’une d’entre-elles ! En provençal le
« plateau » se dit « Planos », au fil des temps, une habitude doublée d’une mauvaise
traduction a donné naissance à l’expression contradictoire « monter à la Plaine », depuis le nom est resté et on parle maintenant de la Plaine sans se poser aucune question … Si
Marseille est un village, comme tous ses habitants s’accordent à le dire, la Plaine est toute à la fois sa place du marché, sa cour d’école, sa rue principale. Sa cour d’école ! Oui il s’agit bien de cela ! Mais pas de ces écoles tranquilles où l’on trouve des élèves jouant bien sagement et d’autres attendant en rang par deux leur professeur, non, plutôt de ces écoles où règne une sorte de chaos continuel et spectaculaire, un gros bordel foisonnant de cris, de rires et de musiques : la Plaine c’est le quartier des artistes des étudiants des assoiffés des bobos et des ivrognes, sans virgule entre chaque mot car ce sont parfois les mêmes personnes.
Au nord en descendant tout droit par la rue Thiers, on tombe sur la vieille Cannebière, à
l’Ouest en laissant le conservatoire de musique sur la droite, on s’ouvre au fourmillant
quartier Noailles, la petite Afrique. De l’autre côté, plein sud on arrive au quartier de la
Préfecture, partagé en deux par la belle et longue rue Paradis. Enfin à l’Est, c’est le Camas et le quartier Sébastopol, très prisé par les « bobos » et les enseignants de tous poils. La Plaine est au centre de tout et de tout ce qui se passe à Marseille. Elle sait tout, elle entend tout, elle ne murmure jamais, elle parle peu, elle hurle souvent. Et souvent, on ne comprend rien à ce qu’elle veut dire. Faut dire qu’elle est sur tous les fronts, elle revendique, elle râle, elle en balance des slogans ! Alors forcement, ça fait du brouhaha et on a du mal à s’y retrouver. La place Jean Jaurès, c’est la place du plus vieux marché de Marseille, une institution ! Trois fois par semaine, ce grand espace accueillait sous ses platanes centenaires plus de 400 forains. On y trouvait tout ce qui pouvait parvenir aux portes de Marseille, par la mer, la route ou les airs : tissus, linges de maison, fringues, parfums, produits ménagers, outils, matériel électronique, mais aussi bien sûr toutes les nourritures imaginables, et les odeurs des étals de poisson, de légumes, de fromages, de viandes et de poulets rôtis s’élevaient au dessus de tout le quartier. Toute la ville venait au marché de la Plaine, surtout le samedi matin, c’était le lieu de rendez-vous des amis, on pouvait vite y faire deux courses pour par cher, boire l’apéro dans un des nombreux cafés situés tout autour de la place Jean Jaurès et terminer par déguster, sur un coin de banc, une portion de Paella ou un cornet de Panisses. Les forains haranguaient joyeusement les clients, avec l’accent et pour certains, une verve digne des plus grands orateurs l’assemblée nationale. C’était vivant, bruyant et odorant … c’était comme est
Marseille.
C’était … car il y a quelques mois, la mairie a décidé qu’il fallait « restructurer » la place du Marché, pour « requalifier l’espace urbain ». Il y a eu deux panneaux explicatifs, on n’y a rien compris. Ils ont fait aussi des réunions de consultation auprès des habitants, pour avoir leurs avis sur la question. Après il y a un architecte qui est arrivé et qui lui, n’avait pas dû assister aux réunions, car on a tout rasé sans écouter personne : la place, le bitume, les arbres, le jardin d’enfants, le marché, les odeurs, les apéros et les cornets de Panisses. Les gens ont râlé, manifesté, parfois violement. Alors la mairie a fait construire un énorme mur de béton tout autour de la place pour sécuriser le chantier, les gens ont râlé encore plus fort, ils ont crié, hurlé … ça a chauffé pendant plus d’un mois : manifestations,  broncas, fumigènes, feux de poubelles, charges de CRS … Mais le mur était solide, les gens se sont épuisés, la Plaine a perdu son marché et le maire de Marseille s’est offert, pour pas un sous de plus, plusieurs centaines de mètres carrés de mur d’insultes, de considérations imagées sur sa personne et de slogans peu reconnaissants de son action politique … Peut être que la nouvelle place sera très
belle, moderne et bien plus présentable aux touristes, mais tout le monde sait désormais
qu’une partie de l’âme de Marseille est enterrée derrière un grand mur de béton. C’est comme ça.
Enfin, ça n’a pas empêché la Plaine de continuer d’exister, voire même, il semblerait que tout ce remue-ménage ait attiré à elle de nouveaux disciples, au début curieux puis peu à peu séduits : entre feue la place du Marché et le célèbre cours Julien, les bars et les restaurants sont remplis toute la semaine, les petites rues piétonnes proposent leurs ateliers de mode artisanale aux touristes plus nombreux chaque jour. La rue des Trois Rois sert de colonne vertébrale à toute cette carcasse joyeuse, puis à la perpendiculaire partent dans l’ordre la rue Bussy l’Indien, la rue Pastoret et enfin la rue Crudère qui descendent toutes trois sur le Cours Julien. C’est ce que l’on appelle partout dans le monde des « rues de la soif », on y trouve cafés et bars associatifs de tous les styles et de toutes les tailles. Pas ou peu de terrasses, ici la terrasse c’est la rue ! Dès le soir venu (et le soir commence souvent juste après midi à Marseille) des centaines de Marseillais se mêlent aux touristes pour pratiquer une sorte de championnat du monde permanent de levé de coude. Bières et vins au verre sont à l’honneur car ce sont les boissons les moins chères ! La nuit qui s’avance voit les regards de plus en plus luisants et entends les voix sonner plus fort, les gens se mélangent, font connaissance.
Beaucoup de rires bruyants, ceux des étudiants qui se retrouvent et qui chahutent gentiment, ceux des couples qui se disputent aussi parfois. L’alcool délie les langues, les fougues, les rires et les passions, ça grouille dans tous les sens, on entend de la musique, on ne sait pas toujours d’où elle vient : d’un bar qui s’encanaille, d’un piano bar, d’un appartement qui reçoit des amis …
Le cœur de la Plaine, son quartier général, se trouve au croisement de la rue des Trois Rois, de la rue Bussy L’indien et de la rue Poggioli. C’est là, très exactement là, que se trouve un des plus vieux bars de Marseille, le « Champs de Mars », une petite brasserie à bobos nommée le « Melting Potes », une crêperie fermée depuis des lustres qui s’appelait « Le Chat Perdu », et le meilleur club de Jazz qui ait jamais existé à Marseille, le JAM, 42 rue des Trois Rois.

(continue)

 

Lettere. Cos’è l’amore?

Oggi, il cielo è spalancato su di te. E sono tutti morti. Paulina. Morì mentre era troppo bella per morire. Aveva trovato un italiano. L’amava. Certo, l’amore. Era fuggita dalle campagne ucraine, luoghi senza nome, dopo Glasnost, la democrazia era solo smarrimento. Fuggì dentro una corriera rumorosa e maleodorante.

Bionda, capelli spessi e lunghi, sudata e impudica. Beveva vodka nella cucina del Club con Azib e Beata, Beata era l’aiuto cuoco, ce l’aveva col mondo intero, con Ostrowiec,  laconico borgo da cui proveniva, e con i piatti da lavare. Azib le urlava dietro, quando già Paulina era nella zapoj, “fai sempre casino, sorella, torni a tuo paese, sorella”.

Avevano il cuore malmesso gli ubriaconi. Ma la vodka era un’altra cosa, era persino una parata di ardimentosi senza patria, davanti a mausolei infilzati di medaglie al merito. O l’esaltazione e il ghigno al bacio di Breznev, il sacrificio vitreo e nullo di contadine ammutolite, l’internamento di un dissidente che sopravvive per ricordarne in forza un coraggio lontanissimo, da Armata Rossa e vecchie canzoni del soldato.  Qualcosa di tutto questo ti arrivava dentro la deprecazione di altri, gli apolidi sopravvenuti al cambiamento, erano i balordi che crollavano fradici e folli davanti ai tuoi occhi. E quel paesaggio ti infastidiva, restituendoti il nesso cinereo con la Storia, gli uomini fradici franati nel delirio della sbronza e la storia. Le tue letture davano spiegazioni convincenti, Hlasko ti spiegava nei suoi racconti “la felicità grande e dolorosa” che lo straziava, la felicità dell’alcolizzato, beve e infila ogni crudeltà nel luogo nero e segreto, dentro una seppur minima coscienza, mentre le nubi gonfie sono sporche e il vento sui fanali finisce a ridisegnare il disordine delle pozzanghere, il fango sulle strade, strade che conducono al non senso. Alla fine della Storia.

Comunque adesso non sai cosa aspettare, chi, piuttosto. Adesso sei soltanto tu, tu e i morti. Adam, Adam ricordi? Era un militare. Qui era uno che faceva tutto, Adam.

Aveva una croce al collo. Lo hanno trovato con una croce al collo. Era un giorno d’estate, era caldissimo, il tuo mondo, la tua vita di prima era percossa, sotto i colpi del nuovo destino. Come un kalashnikov, sai.vertom

Il siberiano sapeva usare le armi.

E quando ti disse: vai con vecchio. I suoi occhi grigi erano una fessura.

Tu ancora credevi di poter discutere, le cose normali, in un ménage normale. Stupida. Lui è nella zapoj. Deve bere. Stringe i tuoi polsi, sembra non vederti. Le pupille si fermano in un luogo irriconoscente, lo chiameremo: risentimento. In quel risentimento il siberiano ha perfezionato la crudeltà. Ha imparato a usare le armi, spezzare le ossa ai nemici, in un solo gesto, un manganello. Un solo colpo.

Stringe i tuoi polsi. Non ti ama. No.

Un giorno te lo dirà. E non ti importava nulla, allora, non più.

Tenti di sottrarti alla sua presa.  Riparate all’ombra della magnolia, le radici si avviluppano paurosamente, sono gradoni enormi, secolari. L’aria è opprimente, la luce piomba da un cielo strozzato. Sono le ore del deserto.

Piangi. Lui non ti vede. E non ti vede sul serio, nella rissa ha appena rotto gli occhiali. Non vede. Non vede per una moltitudine di ragioni.

Sei viva. Sei stata viva, sempre. Ti sei salvata sempre. E no, non eri tu a dover guarire.

E quando è accaduto, hai realizzato che non eri tu, eri dentro un destino. Non il destino cattivo, come lo avresti inchiodato da allora in avanti. Il destino compassionevole, della compassione che non governa la terra, ma la sovrasta.

Il venerdì al Club c’era il capitano russo.

Ti prendeva il braccio, non potresti giurarci, ma forse ti sorrideva anche, oltre la fierezza, la severità, il sentimento gravoso del tempo, lo stoicismo, il significato che supera la nostra vita, la confonde. Non cerchiamo adesso – non lo fare – i significati del tempo. O ancor peggio, l’amore.

(continua)

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Lettere. L’ignoto lumicino.

Limonov incontra una russa di nome Nastasa. Beve, canta nei cabaret. Nastasa beve per giorni. Lui la cerca, Nastasa torna, come un cane bagnato, non ricorda molto. Beve fino a morire.

Zapoj, la chiamano i russi. La sbronza per settimane, un vagabondaggio di visioni alticce, traboccanti di deliri, la rivendicazione di un proletariato afflitto da una giustizia inesatta e da infinite inanità. Il balzello dell’ideologia o altrimenti detta elegia senza espiazione. Può accadere di tutto. Zapoj.

Paulina ballava con un marinaio di Vladivostok, era venerdì, il venerdì del Club. Aveva perso un tacco, calzava scarpette di velluto verde, con una punta acuminata e impossibile da sopportare per qualsiasi donna. Paulina sembrava esserlo più delle altre. Aveva un seno vibrante e nello stesso tempo livido, gioioso. Lo consideravi un talento avere un seno così. La invidiavi.

Tu non eri proprio una valchiria. Eri magrissima e malinconica. Paulina era ubriaca e certamente nel bel mezzo della zapoj.

Paulina, come Nastasa, cantava la canzone del Fazzoletto Blu, aveva una voce sottile e commovente. Ed era un  grondare nostalgie, mancanze disperate patriottiche e altrui. Non tue. Poggiata alla parete, la stanza dentro le oscurità e la luce rossastra delle lampade di un boudoir, guardavi davanti a te, lasciando che le parole incomprensibili di una canzone popolare risuonassero nelle intraducibili suggestioni; ti apparteneva qualcosa di quella musica corale, lacerante, corale nell’orgoglio nazionalista e resistente di un popolo, sopravvissuto alla gravità di un sistema ingannevole, il sistema vuoto che per Solzeniczyn era solo Gulag. Come per te la poetica dell’abbandono. Paulina era la rediviva post Glasnost. Era l’emblema, il suo stesso smarrirsi nella sbronza di giorni ne dimostrava la fedeltà. Fedele a una torma di ibridi soggetti umani, contaminati da nuove idiozie occidentali.

E tu cos’eri? Tu e il siberiano. Era la tua resistenza, personalissima, distratta rivoluzione, vacua alzata di scudi contro un nemico più abbordabile, la borghesia. Eri fuori tema. Colpa delle tue letture. Leggevi Moravia. Volevi somigliare all’Andreina de Le ambizioni sbagliate. Farsi mantenere da qualcuno, cedere all’idea di essere un giorno tu la peggiore, tu l’eccepibilità da redimere. Osservavi le nuche chine sul piatto, o i profili muti dentro l’identica traiettoria, la voce di Paulina, a ognuno di loro, avrebbe ricordato l’ineffabilità, il neo nelle nostre tiepide vite, il silenzio smembrato a cui non saper dare un nome. La voce di Paulina era la dimora dove sostare, riconoscendovi un pathos, l’ignoto lumicino sotto cui trovare riparo.

Se il siberiano era nella zapoj, era la fine. Era il disordine, il sovvertimento disumano dell’armonia dell’universo. Vendeva tutto per comprasi da bere. Era capace di tutto, lo sai. Ti strappava con brutalità gli anelli che indossavi. Oro da vendere. Aveva venduto la sua bicicletta con cui andava a rompersi il collo da ubriaco.

Voleva vendere te.

E tu sgranavi gli occhioni. Voleva venderti a un vecchio, un pervertito che spacciava anfetamine per mantenersi una puttana straniera. Le straniere avevano quel non so che di conturbante, analisi documentatissima tuttavia. Che povertà. Non eri una che si comprava per un paio di calze o un pacchetto di sigarette. tomassini1

L’amoralità di quegli anni oggi la vuoi convertire in un sentimento poetico, l’amore di un uomo stavolta che sia prossimo alla tua malinconia. Ti sei cacciata in questa brutta faccenda della reciprocità, oggi.

E hai perso lo stesso.

E invece tu eri fatta per un paesaggio di betulle, la neve sopra un davanzale, un usignolo che confida il suo tremore al tuo trepido palmo.  Eri fatta per timidi passi, la mano dell’uno stretta alla tua. E’ un errore, capisci?

Così il professore un giorno ti chiede: “perché, ragazza mia?”.

Rispondi.

(continua)

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Lettere. Un giorno lo racconterò.

Oggi puoi rimettere a posto le cose. Sei fatta per questo. Collocare ogni empietà. Indulgenza, ogni meraviglia accaduta mentre eri – stanne pur certa – alla fine della storia. La Storia di paesi che non ti dovevano riguardare, tu e la tua finestra minima, inibita da fragili gratelle da cui osservare la vita metodica o agonica di una città di provincia. E invece ti raggiungevano tensioni e dissidenze di lontanissime cortine, rivoluzioni di velluto, nomi oscuri, un certo Havel – riferisce Carrère – il drammaturgo ceco che sale al potere. Solidarnosc, seguaci di poeti filosovietici, d’un tratto trasformati in manovalanza delle campagne. Una bieca o inquietante mistificazione connaturava soggetti umani in altri, sospettosi e vigili, stesi su una panca ancor meglio a blaterare di nostalgie politiche, da cenciosi mendicanti di passaggio.

E tu, tu servivi al Club, il venerdì, in attesa del Capitano russo, e non capivi granché del giro elefantiaco che accerchiava la tua boa, non un modesto allungamento di giorni, brevi notizie, fatti di poco conto. Eri già prossima alla competenza solenne più che il destino, eri la testimone prossima, proprio tu, ancora una volta.

E ti capitò di pensarlo: questo un giorno lo racconterò, mentre seduta sulla panca di un giardino pubblico osservavi dimenarsi un uomo circondato da altri, stretto dal tremore, avvitato su se stesso dal tremore alcolico, che i compagni, mendicanti cenciosi chiamavano: “epilepsia”.

Un giorno lo racconterò, pensavi. E lo racconterò mille volte, pensavi, perché è troppo mostruoso, cosa? tutto, il significato, la successione dei giorni, è una cavità di inferno e di terrore, c’eri finita dentro, ma ne saresti emersa. Sempre.

Loser, mendicanti. Il siberiano. L’amore. La tua schiena spezzata. Ecco se vogliamo possiamo rimettere a posto i pezzi, uno per uno.

Il capo ti osservava da dietro il bancone, beveva il cognac delle dieci del mattino. “Somigli a Marta”, dice. Sai di piacergli.

Chi è? Chiedi, ma sai chi è Marta, Marta di Andrzej il caid, quella che le prendeva di santa ragione. Marta era sparita per non crepare sotto le mani di quel caid di Tarnòw.

Stai lontano da Andrzej, ti avverte, bevendo il cognac delle dieci del mattino. Da dietro le tende pesanti e dai colori melanconici e bui come un crepuscolo tra i fiordi, si ostinava la luce del giorno. La città antica era armonica e fiorita, era la celebrazione di una felicità che aspettavi simile al passo successivo inevitabile, sentivi che qualcosa procedeva nella tua direzione, scansando azzerando, venivi da un tedio mortale, anni di una prima giovinezza tradita che erano uggiosi crimini commessi nel nome di innocenze varie. E ti piaceva moltissimo usare aggettivi da quarta di copertina e un giorno la quarta di copertina sarebbe stata quella di un tuo romanzo. A saperlo allora avresti tremato per  l’enormità di un tal desiderio. Chiamare ogni innocenza, ogni errore, ti sembra il modo migliore oggi per perdonare tutti.

Ed è solo un’abile vigliaccheria. Non ti salvi, così.  vera 6

Avresti dovuto incontrare editori sregolati e potentissimi, non so, un Ferlinghetti, ma con te sarebbe stato meglio Pauvert. La tua mitezza era indecorosa, bisognava temerla, perché non ti metteva al riparo dallo scandalo, non metteva al riparo te e gli altri. Non avevi considerazione di te. Non possiamo dire molto di te.

Il siberiano aveva una sensualità altrettanto indecorosa, perlomeno per la tua ridicola consapevolezza. Non ti dava il tempo di fiatare. Zitta. Una mano sulla bocca, faceva come gli pareva.

Ci hai preso gusto. Al condominio ti vedevano compromessa, ti si leggeva in faccia che eri una zingara e non ti curavi di sapere nemmeno cosa avessi indossato sotto il  vestito giallo di pois o le gonne di tulle. Le scarpe rovinate, le ginocchia sporche dove andavi a franare. Le tue mani delicate.

La contraddizione paurosa, il veleno in corpo, il silenzio a scudo di ambizioni derelitte, ecco cos’eri, allora.

Oggi, oggi, mia cara, che piangi sull’amore che ti è stato rifiutato, oggi induci alla pena, la pietà degli uomini, che non dimostra mai una longanimità necessaria a diventar pazienza.

(continua)

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Lettere. Il destino solenne.

Di te non abbiamo molto da dire, vero? Soltanto raccontando gli altri, di te qualcosa avrebbe una certa rilevanza, guadagneresti persino un pur sempre affascinante dettaglio, sfuggito a uno sguardo distratto, da appuntare nella parete delle mostrine. Tu, in relazione a qualcos’altro, di solito di mostruoso come avrai notato. Cosa tu nasconda, tu sia, è un inutile mistero. Inutile, perché non ce lo chiediamo, quante vite tu abbia assommato, non lo sai nemmeno, di te non sappiamo nulla. Un plurale simbolico. Non sei un fatto necessario per nessuno. Due negazioni in un periodo non vanno bene, ma con te le negazioni diventano una poetica.

Il venerdì al Club c’era da rompersi la schiena, fino alle due alle tre del mattino piegata sul lavabo con le infinite stoviglie da lavare e lucidare. Azib fumava fuori la porta finestra che dava su un cortile della città antica, e tutto era antico e retrò, fumoso e pregno di novità, novità che avevano il valore di un capovolgimento apocalittico, prossime e profetiche.

Ti aiuto? Chiedeva con un sorriso dolciastro, un po’ cinico, un po’ stanco. Rideva spesso, eppure come di colpo, preso da pensieri suoi, spesso evidentemente in grado di ingenerare ilarità, lui con un destino solenne da uomo minore, sopravvissuto a un qualche spostamento, anche lui. Il mondo muoveva masse bibliche di esseri umani, eri dentro questa storia. Non lo sapevi.

No, Azib. Rispondevi. Non sono stanca. Ma lo eri infinitamente. Aspettavi il sabato per avere il tuo giorno glorioso, il tuo giorno d’amore con quel siberiano incontrato appena e appena ravveduto, solo per te. Così credevi.

Azib rideva e ti raccontava di Paulina, ubriaca, senza scarpe, ballava con i marinai della flotta russa. C’era il tuo capitano, ti informava Azib con un piglio ironico, facendo un gesto con la mano, un dito sulla guancia per indicare la furbizia di Paulina e la stupidità della sua ubriachezza. Sai come finiva no? Le donne ubriache piangono, poi Azib diceva “si fanno scopare, dopo piangono e se ne trovano uno sopra e uno sotto”. Era un linguaggio violento che ti offendeva, la tua insondabile castità, nelle intenzioni, ti rendeva esitante. Non sei mai stata compromessa, fino alla fine, malgrado avessi visto tutto, attraversato il fiume del tempo che era la storia – e non lo sapevi – consumata nelle forze, morali sopra ogni cosa, malgrado tutto, sei rimasta intatta nella pratica di sperare, sperare comunque. Ecco il vero avvenimento esorbitante, non tu e gli altri e la salvezza, tu che pratichi ancora l’esercizio della pazienza e della speranza.  Malgrado tutto, malgrado il siberiano, il vituperio del mondo (qui sei plateale e esosa, drammatica nel puntare accecata il dito, tu, non Azib, verso la stupidità criminale, la menzogna, sì, plateale). 24232677_10212833855954290_2218283671220642491_n

Tu non dovevi essere amata. Dovevi occuparti, accogliere, medicare. Tu, nella stoltezza, nell’incapacità, proprio tu.

Hai attraversato gli altri, non so perché dovessi farlo, hai attraversato il dolore del mondo, oh sei plateale, sì lo sei. Il dolore del mondo, a piccoli brani, attraversarlo, vederlo per intero, a brani. Dovevi attraversarlo.

Per questo oggi hai bisogno di sederti  sulla panca del grande parcheggio. Parlarne di questo fiume sepolcrale. Lucia fissa davanti a sé un punto, ti ricorda qualcuno, una ragazza, bruna e forte, una compagna della tua adolescenza. Guarda fisso davanti a sé. Il dolore del mondo. Lei aveva un uomo, un tempo, un francese. Beveva. La riempiva di botte. Fino a ucciderle il bambino che aveva in grembo. No, il siberiano non ti picchiava, tu riuscivi a sfuggirgli, ecco perché. Solo una volta è riuscito a prenderti. Ma tu eri furba, come la zingara e infatti ti chiamavano la zingara nel condominio, dove viveva la creaturina. Eri scaltra. Riuscivi a fregarlo il siberiano, quando era ubriaco, eri più furba tu. Ti prese una volta, pensavi che fosse la fine. E invece no. Correvi correvi, veloce, le tue gambe, correvi.

Ti sei sempre salvata, in un modo o nell’altro sei fatta per sopravvivere.

Senza amore, che oggi è il tuo assillo, la voragine che si apre e ti dice: su, vieni. Abbandonati. Lasciati andare. Così chiudi gli occhi.

(continua)

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Lettere. Ti mancherò.

Il capitano della flotta russa era severo e aitante come un personaggio dostoevskijano, compromesso dal male, deducevi, senza alcuna ragione realistica. Era una fantasia. Il male non era precisamente la perdizione, era soltanto un passaggio, dunque non è esatto chiamarlo il male, il male, vuoto noiosissimo nella crudeltà che replica se stessa, nell’ovvietà, era la prova dentro cui smarrirsi. E poi c’era l’altro passaggio, il più commovente, la raggiera luminosa, dentro finiva a rifulgere ogni deviazione, trasformata in un fragilissimo ravvedimento, ma bastava a contemplare un fatto misterioso. L’uomo nella sua caduta era un fatto misterioso, quel che accadeva dopo ancora di più. Avete mai visto un uomo risplendere nella brevissima resurrezione, alla fine del sentiero costellato da piccole croci? Tu sì.cropped-ver-e1555704552680.jpg

Il capitano ti invitava a ballare. Posavi il vassoio in cucina. Azib rideva, il cuoco Azib, morto di alcol, sotto un’aiuola, come se fosse un escremento, riluttanza spregevole del mondo velocissimo e distratto. Il mondo dei sani propagava brillantezze opache e mortifere. Ti saresti arrampicata su barricate sbagliate, fosse la tua sola e ultima battaglia. Non ne avresti vinta una.

Oggi dici a Lucia: gli mancherò. Lei non ti chiede nemmeno l’identità dell’uomo al quale ti riferisci. Lo avresti amato. “Credi all’amore per uno sconosciuto?”. Lucia non risponde. “Non è uno sconosciuto” aggiungi, “non più”.

Avevi 25 anni. Il capitano ti invitava a ballare. Azib rideva in cucina: vai sorella.  Il club era nella penombra, le luci erano riverberi rossastri, inducevano alla dissolutezza. Edith Piaf nel grammofono cantava L’hymne à l’amour.

Il capitano aveva occhi grigi, obliqui come quelli di un  kazako. Stringeva la tua vita sottile. La sua mano serrava la tua schiena, stringeva. Non riuscivi a guardarlo. Poi lo guardavi.

Che donna saresti stata? Ti chiedevi mentre il capitano ti guidava da un angolo all’altro della pista, nel club con i drappi alle finestre, sfiorando appena il vestito di velluto che frenava sui tuoi passi. Erano pensieri brevi, intuizioni che ti attraversavano sottilissime come la tua schiena. Intuizioni. Saresti stata una donna veramente un giorno?

Il capitano russo lo pensava forse o avrebbe rimediato lui. Dipendeva da te.  Tornava al suo tavolo. Bevevano fino all’ultimo, vodka pura, la siberiana. E ti sentivi una donna allora, con gli occhi di quell’uomo addosso. Ne sentivi l’oscurità. Tuttavia non lo saresti diventata una donna. Avevi altro da fare. Qualcosa era in serbo per te. Ora capisci. Oggi, che pretendi l’amore di un uomo e che non riesci ad avere, oggi capisci cosa invece allora fosse in serbo per te. Tu eri la madre, di un orfano, un diseredato. Nella tua ottusità, se riesci a smettere di dibatterti, indovineresti qualcos’altro, siamo piccoli agnelli, nella nostra stoltezza, ognuno di noi può darsi è un sacrificio che deve esser condotto al macello, l’esito è identico: la salvezza. L’un per l’altro: la salvezza. C’è un sentiero costellato di piccole croci, agnelli ignari del destino enorme, piccolo e enorme. Allora non dovevi chiedere e infatti non chiedevi. E perdonavi all’infinito, non sapevi fare altro che perdonare.

Il balordo ricordi? Voleva darsi fuoco davanti ai tuoi occhi. Lo hai perdonato.

E oggi chiedi a Lucia la ragione. Oggi pretendi l’amore di uno sconosciuto. Non è uno sconosciuto.

Hai visto moltissimo di questo mondo nella laidezza e nella tormentata poesia che vi soggiace, e tutto contiene. E dal davanzale in casa della creaturina il mondo ti raggiungeva quando ascoltavi la gente vivere laggiù in cortile e la vita ti sembrava polverosa, accecante, come le giornate d’estate, con le strade tumide ardenti, il cielo spalancato. Ne avevi paura, ne riconoscevi un suono o un’immagine che tornava, ne avevi paura. Accostavi le tende. Le parole risuonano adesso, ti ricapitolano significati che ne rincorrono altri.

Attraversi il grande parcheggio, indossi ballerine dorate con la punta consumata. Guardi al piano della creaturina. E’ un giorno d’estate.

(continua)

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