Monthly Archives: August 2014

una volta vedevo questo

(…)Ogni estate sostiamo in banchina, nel Porto Grande, aspettando le manovre di qualche diportista d’oltreoceano. Non i maltesi ci interessano, non un british man al timone di un trealberi solenne, col muso lungo e severo; no, esultiamo ai piedi di un catamarano battente bandiera neozelandese, agitiamo il braccio a mò di saluto, accecati dal fuoriclasse di George Town. Riteniamo possibile che la signora Ciccone abbia pranzato in verandina con figli e tate e governanti, sul panfilo ancorato al molo Zanagora. I Benetton con la barca di Briatore, valli a capire, Ibrahimovic, sceicchi sparsi, Tom Cruise e la Stone a braccetto per le vie di Ortigia. Ci raccontavano l’antefatto, noi annuivamo fiduciosi, in attesa di un epilogo qualsiasi. Sarà tutto vero? Quei tre piani blu erano sul serio la bagnarola di Valentino?

L’amico Sergio del Canton Ticino dice di sì. Dorme sotto le stelle, lo zaino sotto la testa, guarda sulla linea del faro, traiettoria dritta, steso in panchina, girato di fianco, la lucina rossa che ammicca intermittente, e un viaggio, un viaggio nella testa, un lungo viaggio per mare, fino in Giamaica(…)

(La città racconta, giugno 2005)

Siracusa cambia colore: i neri siciliani come nella Napoli di Malaparte (Il Fatto Quotidiano)

(…)La storia ha già risposto per noi e Siracusa sta cambiando colore, mentre l’Europa dibatte ancora su Mare Nostrum. La storia ha già scritto il futuro a Siracusa, snodo modesto delle sorti geopolitiche del mondo. Eppur sembra che parta proprio da qui. Città di provincia, primo infuocatissimo scalo di questo continente che si sposta, 60- 70 mila arrivi in pochi mesi. E’ un fenomeno davvero nuovo. Noi dibattiamo sui morti, e invece quel che sta accadendo attiene alla vita, all’amore per giunta, concetti ameni, fuori luogo. A togliere un attimo gli occhi dai ventimila morti del Canale, simbolo apocalittico di tutte le nostre colpevoli leggerezze, noteremmo i tanti vivi per le vie di questo modesto snodo del nuovo mondo. I figli di una integrazione che ha perso i suoi severi appeal moralistici, per diventare semplicemente  melting pot. A Siracusa i neri finiscono in un ghetto che chiamano bar Africa o aprono  internet point che profumano di incenso, frequentati dalle ragazze italiane. C’è una storia che esce dal ghetto, anche. E’ una nuova umanità. Accadrà come per i neri d’America a Napoli, i figli meticci con il blues nel sangue. Non ci saranno donne smunte ai lati della strada, chiedere vergognosamente, le mogli italiane in piroscafo, le giubbe a doppio petto blu, i soldati della liberazione: era la via Toledo di Malaparte ne “La pelle”, degli shoe-shine, gli sciuscià. Era il ’43, era uno sbarco epocale. Di vincitori. Tuttavia, sono impressionanti le assonanze.

Giovani immigrati nel Cspa di Pozzallo

Giovani immigrati nel Cpsa di Pozzallo

 In quell’immigrazione di ritorno, c’erano le nostre donne in piroscafo, partivano con i vincitori, la baldanza di un piroscafo, in luogo di un malandato barcone. Leggiamo la storia al contrario. Vincitori e vinti tutto sommato erano categorie fasulle già allora: ma chi aveva vinto la guerra, l’avevano forse persa gli italiani, e oggi non possiamo dir lo stesso, chi vincerà veramente, chi ha perso adesso? E’ una guerra? Il colonnello Hamilton diceva a Malaparte nelle pagine de “La pelle”, indicando sprezzante forse l’animosità laida dei vicoli: “this bastard people”. Malaparte scrittore concludeva il dialogo con il punto esclamativo e faceva rispondere al suo personaggio: “Anch’io sono un bastardo, anch’io sono uno sporco italiano”.

Il cambiamento è in corso, un fatto ieratico per Siracusa. Giovani donne del luogo e africani degli sbarchi, sono le nuove coppie, che hanno già procreato. Nessuno è inorridito o ha sussurrato sgomento con le mani davanti la bocca (e la Sicilia che ci compete, tutto sommato), nessuno è saltato sulla sedia o ha issato scudi arroventati contro una terribile violazione. L’altro, il lercio, lo sbarcato, il mendico, che postula ai semafori o davanti a una mensa Caritas, era – usiamo volutamente l’imperfetto – una specie di spiritello valido solo per alcune paure tribali diremmo e che per giunta ci saremmo aspettati da questa città da profondo Sud. E invece no. Malgrado le petizioni di pochi sparuti proseliti puristi, le giovanissime del luogo, le ragazze di Siracusa, sono già ignare e felici dentro questa storia contemporanea. E i virgulti di un tale “inaudito” crogiuolo frignano in un passeggino, comunissimo passeggino occidentale, e l’occidente così assolve le sue colpe, è meno pingue, colpevole solo un tanto e con le attenuanti. Quel che colpisce in questa neonata storia è la facilità con cui tutto è accaduto, mentre noi dibattevamo poco più in là, mentre i morti morivano ancora nel canale, e Mare Nostrum guadava pietà perplesse e stridore di denti da una sponda all’altra, da un confine di acque internazionali a una riva italiana. Ci sono anche i vivi. Ortigia, il centro storico del modesto snodo di un nuovo mondo, è la città dei ragazzi, dei pub, delle band dal vivo. E’ la città vecchia della musica la sera, dei caffè, degli africani che servono ai tavoli, spavaldi come i nostri, non chini e simili agli schiavi del cotone. E ridono con i nostri, e siamo davvero pochi ruderi a utilizzare ancora il possessivo “nostri” ad ogni capoverso, per il resto le cose che accadono ne ignorano una qualche segreta utilità. Fa specie la facilità con cui si è realizzato il più vero melting pot degli ultimi decenni. Non si era mai visto niente del genere con le prime comunità di arabi e di uomini dell’est. Lì erano di solito ghetti o storiacce finite male, da contare sulla punta delle dita. Ora gli africani hanno insegnato la contaminazione disinvolta, una partecipazione onesta, un tentativo perlomeno. Con le prime comunità era di norma un guardarsi da una parte all’altra. Qualche anno fa, a Cassibile, frazione a sud di Siracusa, oggi musulmana in buona sostanza (considerato le percentuali), terra di stagionali, e invisi perlopiù, una levata di scudi si consumava lungo le strade del paese che per dire ha dato i natali a un serial killer, rigorosamente indigeno, cioè nostro. Paesani contro immigrati, quelli stessi che crepavano su un campo di patate per pochi euro a giornata, oppressi dai caporali e da inqualificabili obiezioni della comunità locale. La questione era  tutta concentrata sul timore di perdere alcuni connotati di questa terra di trazzere e pale di fichi d’india, salvo accorgerci oggi più che mai che la medesima è estinta, con buona pace di una tradizione meridionalista – quella sì morta e sepolta – un tempo capace di contagiare  finanche il nostro modo di sentire. Non vedremmo mai sulle strade di Siracusa, modesto snodo del nuovo mondo, come scriveva Curzio Malaparte “torme di donne spettinate e imbellettate, seguite da turbe di soldati neri dalle mani pallide, fendendo la folla con stridi acuti: ehi, Joe, ehi Joe”.

Eppur, morti i gattopardi, adesso ci sono gli africani, gli sbarcati.

(Il Fatto Quotidiano Del Lunedì, 11 agosto 2014)

Elena Puliti: Bea Buozzi, quello è il mio libro

Riferisco quanto è accaduto. Ieri sera vengo contattata da una giornalista di Milano, si chiama Elena Puliti. A Milano la conoscono bene, in certi ambienti in special modo, considerato che Elena si occupa anche di pubbliche relazioni, per tutti è Elena del Club dei tacchi a spillo. Ed è la questione. Il Club dei tacchi a spillo (alcune notizie le potete trovare qui: http://www.elenapuliti.it/home/  ) è il titolo del romanzo che Elena pubblica nel 2010 per una casa editrice indipendente, la Liux edizioni, e prima ancora era il nome del suo blog, inaugurato nel 2007.

Il libro di Elena Puliti, uscito nel 2010

Il libro di Elena Puliti, uscito nel 2010

1914607_115760721778089_6309059_n

Elena Puliti, giornalista e blogger

Il romanzo, così come il blog di Elena, racconta le vicende avventurose e sentimentali di una giornalista a Milano, trentacinquenne in attesa del principe azzurro, a un certo punto in volo per New York. Niente di nuovo se si pensa alla fortunata serie Sex and the city. E difatti il romanzo ne è chiaramente ispirato.  Elena mi manda questa mail ieri sera, mi racconta la vicenda, arrabbiatissima, il tutto è già in mano agli avvocati, aggiunge nella mail. Bea Buozzi nel 2014, riferisce Elena, esce con la trilogy per Mondadori dal titolo “Il club dei tacchi a spillo”. Bea Buozzi, qualcuno ricorderà, è l’autrice intervistata dallo scrittore Paolo Roversi sulle colonne del Corriere della Sera. Bella intervista, proprio a ridosso del lancio della trilogy, pubblicata nel giugno scorso: peccato che Roversi non precisò mai durante la medesima il fatto che Bea Buozzi fosse la moglie. Intervenne persino l’allora direttore Ferruccio De Bortoli che si scusò con un tweet, chiosando: “Non lo sapevamo”. Una gran polemica all’indomani della notizia scoperchiata dal critico e giornalista Gian Paolo Serino, fu proprio lui a lanciare quella che per molti – in un battito di ciglia – divenne una “marchetta letteraria” grossa quanto una casa (qui il pezzo che ho scritto su Il Fatto Quotidiano e ripreso da Dagospia: http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/corriere-marchetta-mentre-flebuccio-de-bortoli-tenta-salvare-78660.htm). Elena mi scrive in mail: “Non tollero il fatto che questa coppia (Buozzi-Roversi, nda) possa essere così strafottente da copiare spudoratamente il titolo di un libro già esistente e recensito abbondantemente sui media nazionali(…)Scusa la mia vena polemica, non ho scritto i Promessi Sposi o un trattato di filosofia, è solo un romanzetto rosa, però mi sorprendo che una casa come la Mondadori non abbia fatto una ricerca per vedere se il libro esistesse già”. Il titolo perlomeno. Elena riferisce ancora sull’assoluta assonanza di trama e capitoli, evidente, dice, nella trilogy della Buozzi, trilogy uscita esattamente nel 2014 (ricordiamo). Elena chiude con una preghiera: “Spero darai seguito a questa mail“.
Elena: l’ho fatto.

Nel nome di Christiane

I libri mi hanno annunciato la vita, non tutti. Ma ci sono stati quei libri profetici che non sono arrivati per caso, le cui pagine si sono aperte per una ragione precisa, appunto per annunciarmi la vita. Del diario di Christiane Felscherinow ne ho già parlato, le ho dedicato in fondo il mio recente romanzo per Gaffi, avevo nove anni e mi ritrovai con quell’inferno tra le mani. Era un modo per dirmi – la vita – che quella sarebbe stata la mia cifra, il mio pedaggio per stare al mondo; come molto ironicamente mi ha incoronata Guia Soncini di recente, sarei stata la vestale della marginalità. Molto meno ironicamente gli anni della mia giovinezza hanno confermato tutto, con un tono un po’ più drammatico rispetto all’apocrifo di quell’intellettuale. Niente di più falso in questo ruolo che ho tutto sommato vestito, niente di ieratico nella mia percezione, eppure è stato così, lo è stato. Ne ho già parlato. I compagni che si facevano in piazza o in periferia erano cadaveri simili a quelli incontrati nelle pagine di Christiane, niente di nuovo, conoscevo il loro gergo, i ragionamenti prolissi e fasulli di un eroinomane, la rota, e tutto il resto. Poi ho letto il romanzo della Rochefort, “Il riposo del guerriero”, e anche lì ebbi un anticipo su ciò che sarebbe accaduto, sulla possibilità di amare un giorno un uomo come Renaud, un uomo terribile. Ma non era soltanto terribile, era l’abisso che leggo nella quarta di copertina del mio romanzo d’esordio. Leggendo la Rochefort mi domandavo turbata come fosse possibile – e come era meraviglioso – poter amare così. Con quale spregiudicatezza. Soltanto adesso mi accorgo del nome che ricorre in entrambi i casi: il nome di Christiane.

<Renaud si sentiva braccato, e in modo alquanto drammatico perché tutto si svolgeva in silenzio. Pensavo a un brutto melodramma, Lost week-end; eravamo noi, purtroppo, nel brutto melodramma. L’alcool non consente altra scelta>.

(Il riposo del guerriero, Christiane Rochefort, p.92, Super Pochet Longanesi, 1965)

Guia Soncini: cattiva foréve? Macché

Il giorno in cui Guia Soncini scoprirà di essere buona, segretamente, con aspirazioni da mammoletta, sarà un problema, più che altro per la sua corte dei miracoli. Attaccare, accerchiare, un po’ sputtanare: può dirsi metodo il suo e quello della sua corte. Eppure pensavo fosse una donna intelligente e basta, la seguivo persino.  Qualcosa deve esserle sfuggito di mano, però. Ora mi tocca riesumare il rudere di definizioni come radical chic per parlare di lei? Non mi pare il caso. Un radical chic  rutta tweet  avvelenati uno dietro l’altro? Ora la invito a nozze. Che farà se legge ‘sto post, deve superare se stessa e sarà davvero dura. (Fai una torta di mele, non se lo aspetterebbe nessuno, nda). Quanto grossa la dovrà sparare, come sorprendere ancora, come essere cattiva fino a morire, se lo si è già tutti i giorni, per mestiere, incarognita in quella condanna “che devo da esse”; sennò che cacchio scrive. Togli alla Soncini il veleno e la Soncini evapora, come una  terribile flatulenza.

Trovo un mio post  condiviso nel suo profilo twitter, solito tono, solite iperboli  che diventano una cifra stilistica, sì insomma quella. Va bene. Rispondo perplessa,  penso: ma che avrò fatto mai? Intanto, era già partita tra la sua corte dei miracoli una vera e propria missione sputtanamento, la mia biografia sul Fatto condivisa persino su facebook, con ovviamente tutta una serie di riferimenti ironici (a esser puliti). Esempio qui su un profilo twitter (bé poco male): https://twitter.com/EverydayBio/status/501816661306273793. 

Dentro c’è finita anche un’altra blogger, sempre del Fatto. Non è questo il punto. Cioè il punto è: qual è il tuo problema? Direi. Qual è il problema di questa tizia. Leggo nel suo profilo facebook (lo lascia pubblico): Da grande voglio una bio sul Fatto. Hastag #EverydayMythomaniacs. Sotto la mia foto, la mia biografia. Ok, tutto sommato mi fa anche un favore. Leggo i commenti, quello di una giornalista di un noto periodico di moda, in special modo, una giornalista badate, scrive in riferimento alla sottoscritta evidentemente (fornisce la sua personalissima didascalia alla foto): “ “Pare na zingara”. Il valore dispregiativo e razzista di una simile frase è spaventoso. Zingara per costei è un’offesa. Costei scrive, ha in fondo in mano una parte dell’opinione pubblica. Pensate che testa, quale ottuse certezze la assediano. Dai Guia ti ho invitato a nozze, ora devi da esse cattiva foréve, è un modo di dire eh, te l’ho già spiegato ieri. Nun te devi da offende.  E adesso cosa mi aspetta? Come farai a superare te stessa? Ascoltami, io non devo da esse cattiva foréve: lancia margherite sui passanti, ci stendi tutti ahò.

p.s. nel frattempo la soncini ha cancellato il post nel suo profilo facebook, tuttavia avevo già salvato la pagina, sai com’è.

La casa di Erlend e Califano vivo

Dico a mio padre che oltre quel poggio, la terra secca della contrada, forse c’è casa di Erlend. Lui non sa chi sia. E’ un musicista, ora fa anche il discografico. Ma no, non lo conosco, aggiungo. E’ una bella casa patrizia, illuminata dalla luna alla fine della notte, in fondo al viale. C’è un parco che procura i brividi e avanti salendo su per la rocca, le pinete antiche e severe si inerpicano con strani sussurri, abitate da spiritelli o da tutto il tempo che vi è passato sopra, con i suoi uomini, i sospiri, le baruffe ingaggiate, certe betise sentimentali. Ecco vedi, papà – dico – poi finisce tutto. Nel breve porticciolo, c’è una balera, mio padre ordina una birra e una zuppa di cozze. L’ormeggiatore di barche deve essere uno che legge, tiene un libro sopra lo sgabello, accanto alle sigarette. Mi guarda e dice che sono uguale a Frida Khalo quindi attraversa il molo dondolante e le luci della città dall’altra parte sembrano inghiottirlo. La città inebetita dal giorno, dal caldo, dalla noia forse. Al piano suona un tale, suona Califano, lui sì è uguale al Califfo, almeno quanto io sono uguale a Frida. Canta Roma nuda, a mio padre brillano gli occhi, quella romanità è un modo di stare che ci appartiene, è così. Dico: perché siamo venuti qui? Cosa ho io a che dividere con questa terra, con questa gente impermalita, consapevole o sospettosa. Questo paesaggio primitivo, insolente, perché? Penso a Erlend, pur non conoscendolo. Erlend, come se fosse un amico. Lui ha deciso di viverci, ha lasciato i fiordi, poi Berlino, poteva andare ovunque, ha scelto di vivere qui.

dal nuovo romanzo

Cetty fumava sotto l’arco. Aveva annodato i suoi capelli fragili, neri. Aveva le guance rosee, ma era un finto incarnato che lei disegnava molto bene con i pastelli usati per il trucco. Pianse un pochino, fumando le sue Marlboro. Alfredo bestemmiò, aspettando il tipo con la roba. “Non mi fregano, a me non fregano” borbottava. Arrivò il tipo e Alfredo infilò la stagnola in tasca. Cetty lo seguì. La roba era buona, ammisero dopo. “Un quartino e sono a posto” ciarlava Alfredo, sotto l’arco nella valle di periferia. Cianciava strafatto. Cetty fumava una sigaretta dietro l’altra. Con movimenti lenti portava le dita alla bocca, aspirando e facendo fatica a stare sveglia. Qualcosa luccicava tra le sue dita. Erano i brillantini del trucco sugli occhi, che si era strofinata. O erano lacrime. Preferii immaginare che fossero lacrime. Quel cantante si chiamava Agnello. Veniva dalla borgata, era siciliano e incideva dischi in napoletano, dischi che andavano fortissimo nella valle. Parlavano di amori finiti male(…)

Christiane deve morire, Gaffi, 2014

pensieri

Di colpo torno al buio. Mi è capitato ieri. Trovo quel tizio che mi ha rovinato la giovinezza, gli anni del liceo per capirci, fissarmi allucinato, in piazza Duomo. Sono passati secoli, dico sempre, e quest’idiota forse non si dà pace. Uno che non è capace di stare al mondo senza cospargere di inedia e tristezza tutto intorno l’universo e la gente che per sbaglio vi transita dentro. Guardavo stranamente allegra una band suonare il blues, di quell’allegria che mi sembra mi faccia tornare ragazza, e all’improvviso scopro lo sguardo di questo tizio; ho cominciato ad agitarmi, un verme, brutto come la fame, curvo, mi copro allora, avevo un vestito chiaro con le bretelle, mi sparisce il sorriso dalle labbra. Nella mia testa questo tizio è pauroso come certi maniaci seriali. E ho avuto paura sì, è sparita l’estate, i pensieri normali, la capacità di vedere oltre, ai miei cari amati obiettivi. E capisco dunque quanto questo verme mi abbia potuto traumatizzare, e io che non credevo. E invece è stata una violenza enorme, non sto qui a ripetermi. Ho letto una frase di Cheever, ieri, era proprio quel che pensavo ieri, dopo aver visto quel mostro, rivalutando tutto in una specie di delirio: “Nella mezza età c’è mistero, c’è mistificazione. Il massimo che riesca a cogliere di questo periodo è una specie di solitudine. Persino la bellezza del mondo visibile sembra sbriciolarsi, sì persino l’amore. Sento che c’è stato come un aborto, una svolta sbagliata, ma non so quando sia accaduto né ho speranza di scoprirlo”.

La lettera al lettore di G.Pacchiano

Lettera al lettore

di Giovanni Pacchiano

Nel settembre 2010, quando ancora scrivevo sul supplemento domenicale del “Sole”, mi capitò di leggere un breve romanzo uscito presso un piccolo editore milanese, Laurana. Titolo: Sangue di cane. Dell’autrice, Veronica Tomassini, nulla sapevo, se non che viveva a Siracusa e aveva una trentina di anni o poco più. Il libro mi colpì per il lirismo acceso e un senso di disperazione profonda. Era una storia semplice: l’amore di una giovane donna per un polacco, sbiellato quanto basta e perseguitato dalla vita, che accattona davanti ai semafori: una trama percorsa da una drammatica tensione emotiva che faceva dimenticare qualche ingenuità di scrittura.

Non ricordo chi mi diede la mail della Tomassini: so che scrissi il mio pezzo sul “Sole”, parlando di una voce nuova e non artefatta, fra le migliori delle giovani scrittrici. Poi le scrissi o le telefonai, non ricordo, e le chiesi se stava preparando un nuovo libro. Dopo qualche tempo mi arrivò per mail Christiane deve morire. Lo lessi tutto d’un fiato. Veronica mi sembrava diversa dagli altri giovani scrittori di oggi: il suo stile lirico, fatto in prevalenza di periodi brevi, si era raffinato, prosciugato nella verità essenziale delle grandi scritture. Ma, assieme a questo, quello che colpiva era il rafforzamento e il valore simbolico della matrice già apparsa nel precedente romanzo: l’infelicità della seclusione, la disperazione, l’isolamento: piaghe profonde che sarebbero di tutti noi, nella crudeltà del mondo di oggi, se le sapessimo riconoscere, perché spesso, troppo spesso, camminiamo come sonnambuli. E, insieme, un desiderio vano di condivisione e di felicità.

 

Disperazione e ricongiungimento mai raggiunto: sono i magnifici, terribili poli attorno ai quali si articola, in pagine toccate dalla grazia, di perfezione e lievità, nonostante il dolore, assolute, la storia della Tomassini. Che intreccia anche un ultimo filo: il rapporto, fatto prima di sguardi, poi di poche parole smozzicate, infine di una visita al campo nomadi, dove la Varrani riesce a trascinarlo, con Eugenio, un omino di mezza età, vestito con abiti troppo grandi, l’aria rassegnata, vittima com’è di una moglie padrona. Un omino che la ragazza vede sovente affacciato al balcone di fronte. Una figura dostoevskijana di mite, che tuttavia sembra possedere, nella sua quasi afasia, una verità nascosta sul male di vivere. E, in un finale fatto di partenze e di abbandoni, toccherà proprio all’aura che circonda Eugenio e il suo balcone la chiusura del romanzo. Con un décalage di grigiore flaubertiano che strazia l’anima (…)

(…)Vorrei, a questo punto, ritornare al discorso di partenza: non più al libro in sé ma alla sorte di questo libro. Torniamo indietro, dunque. Veronica me lo mandò per mail: lo lessi, lo rilessi, le suggerii qualche minima correzione, lei si mise all’opera. Mi chiese poi come dovesse agire. Le consigliai di rivolgersi a un’agenzia letteraria, la più vecchia e nobile agenzia letteraria italiana. Era in buone mani: cominciarono a mandarlo in giro. Una grande e illustre casa editrice lo tenne in lettura per qualche mese, poi dissero no: sembrava che ci fossero state grandi discussioni, ma poi nel comitato di lettura prevalsero i no. Altri lo rimandarono con poche parole dicendo che non gli interessava o che non rientrava nella loro linea editoriale: la solita frase fatta. L’avranno letto davvero? E chi l’avrà poi letto? Un editor, o un “lettore”, magari pagato 60 o 70 euro lordi alla lettura: uno, insomma, che deve leggere in fretta, molto in fretta, se vuole campare. Restai stupito: ero sicuro di non essermi sbagliato, il romanzo era un piccolo capolavoro. Ma oggi, in più, gli editori, il marketing, gli editor non vogliono la disperazione e il grigiore della vita: la disperazione fa pensare, fa riflettere; il grigiore della vita non rallegra. Vengono accettati solo se sono legati a un “caso”. Forse il mondo dell’editoria crede, anche, che non piacciano al pubblico: e da anni il pubblico, complice ma non principale responsabile la scuola, è stato diseducato a pensare. Se mandassimo agli editor di oggi (non tutti, ci sono anche le eccezioni, ma sono così poche), Un cuore semplice di Flaubert, cambiando il nome dell’autore, i luoghi, i personaggi, lo boccerebbero, ne sono certo. E non piace nemmeno la provincia, a meno che non sia “tipica”, folcloristica, sorridente, o non si parli di storie di paese fatte di pettegolezzi e di chiacchiericcio. O non ci sia sotto una storia gialla. Ma, infine, il romanzo di Veronica (una donna che non ho mai visto di persona, è così) ha trovato la sua strada: oggi esce da Gaffi. Sono riconoscente ad Alberto Gaffi per la sua capacità di vedere oltre: la forza lirica e la bellezza (altro termine calpestato dai media) del romanzo sono tali che, ne sono persuaso, trascineranno, nonostante tutto, il lettore. Ma ora tocca proprio al lettore l’ultima parola.

 

(In introduzione a “Christiane deve morire”, collana Godot, Gaffi, 2014)

dovrebbe risarcirmi

Quando in tv vedo Amore Criminale comincio a sudare freddo. E torno immediatamente agli anni della giovinezza. C’era un tale, questo non è mai finito in nessuno dei miei scritti, si faceva, è stato il mio purgatorio o inferno, non so ancora decidere. Lo odiavo, mi faceva persino senso, ero uno ragazzina, lui un tossico, che mi teneva sotto scacco con ricatti morali del tipo: se mi lasci mi faccio un buco e mi ammazzo. Invece non è morto, aveva tentato di ammazzarsi un mese prima di incontrare me. Dovevo scontarla io la sua inedia. Vai a fare in culo, gli direi molto volentieri. Ero proprio giovane, mi aveva tolto ogni energia, questo tizio che odiavo, un carceriere, ignorante, volgare fino al midollo. Non è mai entrato nei miei scritti, nel nuovo romanzo racconto dei compagni della valle, gli eroinomani di Mazzarruna, lui non c’è, c’è Massimo, piuttosto, che ho amato forse, e non ho mai avuto. Non ho mai posseduto ciò che ho amato, ma va da sé che amare non compete a nessun egoismo. Sono stati anni terribili, ho la biografia di una scrittrice romantica, questo mi consola. Ho pudore a ricordare la mia solitudine, senza risorse, la malattia, la mia magrezza paurosa, il vuoto attorno. Dovrebbe risarcirmi questo tizio ex eroinomane. Oggi lo mando a fanculo, con una postilla: non mi hai mai ispirato nulla, soltanto un rutto. Al limite.