Lettera al lettore
di Giovanni Pacchiano
Nel settembre 2010, quando ancora scrivevo sul supplemento domenicale del “Sole”, mi capitò di leggere un breve romanzo uscito presso un piccolo editore milanese, Laurana. Titolo: Sangue di cane. Dell’autrice, Veronica Tomassini, nulla sapevo, se non che viveva a Siracusa e aveva una trentina di anni o poco più. Il libro mi colpì per il lirismo acceso e un senso di disperazione profonda. Era una storia semplice: l’amore di una giovane donna per un polacco, sbiellato quanto basta e perseguitato dalla vita, che accattona davanti ai semafori: una trama percorsa da una drammatica tensione emotiva che faceva dimenticare qualche ingenuità di scrittura.
Non ricordo chi mi diede la mail della Tomassini: so che scrissi il mio pezzo sul “Sole”, parlando di una voce nuova e non artefatta, fra le migliori delle giovani scrittrici. Poi le scrissi o le telefonai, non ricordo, e le chiesi se stava preparando un nuovo libro. Dopo qualche tempo mi arrivò per mail Christiane deve morire. Lo lessi tutto d’un fiato. Veronica mi sembrava diversa dagli altri giovani scrittori di oggi: il suo stile lirico, fatto in prevalenza di periodi brevi, si era raffinato, prosciugato nella verità essenziale delle grandi scritture. Ma, assieme a questo, quello che colpiva era il rafforzamento e il valore simbolico della matrice già apparsa nel precedente romanzo: l’infelicità della seclusione, la disperazione, l’isolamento: piaghe profonde che sarebbero di tutti noi, nella crudeltà del mondo di oggi, se le sapessimo riconoscere, perché spesso, troppo spesso, camminiamo come sonnambuli. E, insieme, un desiderio vano di condivisione e di felicità.
Disperazione e ricongiungimento mai raggiunto: sono i magnifici, terribili poli attorno ai quali si articola, in pagine toccate dalla grazia, di perfezione e lievità, nonostante il dolore, assolute, la storia della Tomassini. Che intreccia anche un ultimo filo: il rapporto, fatto prima di sguardi, poi di poche parole smozzicate, infine di una visita al campo nomadi, dove la Varrani riesce a trascinarlo, con Eugenio, un omino di mezza età, vestito con abiti troppo grandi, l’aria rassegnata, vittima com’è di una moglie padrona. Un omino che la ragazza vede sovente affacciato al balcone di fronte. Una figura dostoevskijana di mite, che tuttavia sembra possedere, nella sua quasi afasia, una verità nascosta sul male di vivere. E, in un finale fatto di partenze e di abbandoni, toccherà proprio all’aura che circonda Eugenio e il suo balcone la chiusura del romanzo. Con un décalage di grigiore flaubertiano che strazia l’anima (…)
(…)Vorrei, a questo punto, ritornare al discorso di partenza: non più al libro in sé ma alla sorte di questo libro. Torniamo indietro, dunque. Veronica me lo mandò per mail: lo lessi, lo rilessi, le suggerii qualche minima correzione, lei si mise all’opera. Mi chiese poi come dovesse agire. Le consigliai di rivolgersi a un’agenzia letteraria, la più vecchia e nobile agenzia letteraria italiana. Era in buone mani: cominciarono a mandarlo in giro. Una grande e illustre casa editrice lo tenne in lettura per qualche mese, poi dissero no: sembrava che ci fossero state grandi discussioni, ma poi nel comitato di lettura prevalsero i no. Altri lo rimandarono con poche parole dicendo che non gli interessava o che non rientrava nella loro linea editoriale: la solita frase fatta. L’avranno letto davvero? E chi l’avrà poi letto? Un editor, o un “lettore”, magari pagato 60 o 70 euro lordi alla lettura: uno, insomma, che deve leggere in fretta, molto in fretta, se vuole campare. Restai stupito: ero sicuro di non essermi sbagliato, il romanzo era un piccolo capolavoro. Ma oggi, in più, gli editori, il marketing, gli editor non vogliono la disperazione e il grigiore della vita: la disperazione fa pensare, fa riflettere; il grigiore della vita non rallegra. Vengono accettati solo se sono legati a un “caso”. Forse il mondo dell’editoria crede, anche, che non piacciano al pubblico: e da anni il pubblico, complice ma non principale responsabile la scuola, è stato diseducato a pensare. Se mandassimo agli editor di oggi (non tutti, ci sono anche le eccezioni, ma sono così poche), Un cuore semplice di Flaubert, cambiando il nome dell’autore, i luoghi, i personaggi, lo boccerebbero, ne sono certo. E non piace nemmeno la provincia, a meno che non sia “tipica”, folcloristica, sorridente, o non si parli di storie di paese fatte di pettegolezzi e di chiacchiericcio. O non ci sia sotto una storia gialla. Ma, infine, il romanzo di Veronica (una donna che non ho mai visto di persona, è così) ha trovato la sua strada: oggi esce da Gaffi. Sono riconoscente ad Alberto Gaffi per la sua capacità di vedere oltre: la forza lirica e la bellezza (altro termine calpestato dai media) del romanzo sono tali che, ne sono persuaso, trascineranno, nonostante tutto, il lettore. Ma ora tocca proprio al lettore l’ultima parola.
(In introduzione a “Christiane deve morire”, collana Godot, Gaffi, 2014)
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