Un dicembre.

Il sole sembrava un sole di aprile. Ed era dicembre. Ero bruna di capelli. I miei capelli erano forti, arruffati, lunghi.

Il sole bianco era la patina sopra il nostro cielo, personale e disperato, di quella disperazione da liceali che pregusta soltanto sfolgoranti amenità e molto presto. Inciampavamo su scarpe da adulte, ed eravamo ragazze. Ragazze – io credo – oggi lo credo – sia necessariamente una condizione dello spirito, in cima alle pretese o nell’ultimo scranno della gerarchia, un po’ come i portoricani per i newyorchesi. Eravamo sempre sopravvissute a qualcosa, alla notte umida e pregna di gas di scarico, fumo acre da uno chilom, la musica era sordida, da atmosfere clandestine e gotiche.

La mattina c’era la piazza. Ed era Natale. La mia attesa non aveva risorse, l’intimità feconda che è capace di orazioni, non teme la supplica, l’abbandono. Sarebbe la vita a concorrere, alla fine, lo farà lei, disporrà le orazioni. Allora ci limitavamo a essere ragazze.

Gli amici erano gli spostati di una periferia. Bevevo un aperitivo amaro alcolico, il sole era la raggiera, il sole, l’amaro alcolico dell’aperitivo bruciava maledettamente. Che ore sono? Chiedevo all’altra, la faccia sconvolta di una come me. Che ore sono?

Il sottile piacere era bruciare maledettamente. Nell’immane simbolismo potremmo infilarci tutto, ogni privazione, didascalica alle sequenze degli avvenimenti futuri. Ripetitivi, noiosi, fino alla svolta fulminante, l’aver inteso che in fondo non era altro quel tempo che la pioggia sopra l’erba la notte, concentrata in certi visi imberbi, il tedio immobile e severo, il ronzio di un’autoradio, lo stolto avanzare di un amico stravolto.  Le luci di un’automobile sbucare da una sera qualsiasi. Era soltanto un tempo, una stagione. Dicembre con un sole di aprile. Indossavo vestiti corti e leggeri, crudelissimi vestiti da pin up. Sentivo spesso un gran freddo addosso. Fumavo pensando tuttavia con eccitazione al cielo gonfio di novità, simili al baluardo verdastro che finiva al mare, una linea di contiguità tra sfumature e prospettive disordinate. La desolazione era il cilicio vestito con virtù. Era l’alibi inoppugnabile per iniziare una carriera: lo svolgimento degli errori. Cominciai a sbagliare, fui io stessa la ragione di molti errori. Issare la bandiera esultante del pronome, solo e sventurato: me e me soltanto.

Eravamo sopravvissute a certe feste alcoliche, dove alla fine era avventuroso persino riconoscersi all’alba. La piazza era la traduzione precisa di un ordine sociale e classista. C’era il bar dei tossici, l’arco dove sostavano i fighetti dei licei, con il loro stile borghese e pretenzioso.

Frequentavo il bar degli eroinomani. Aveva un nome volgare, come slabbrato diseducato, detto alla maniera meridionale. Ma ero una liceale. Sedevo sul gradone di un giardino, con il sole di dicembre che sembrava aprile assiso intorno, nel giro sbagliato, la speranza era di là. Il sole, altrove, altrove era un luogo desiderato. Stringevo le braccia alle ginocchia, le calze erano smagliate. Aspettavo sempre qualcosa. La figlia di nessuno.  Dentro la compiaciuta voragine, dilaniata da un esercizio di perfezionamento del risentimento, mi sono formata, nel giogo perfetto dell’imperfezione. Aspettavo qualcosa. Ed era l’amore.

Dibatto ancora, con il patetismo confacente alla bambina, poi la ragazza, poi la donna, interrotta. Forever.

Le altre non erano amiche, erano compagne. Reduci dalla festa alcolica, feste free le chiamavano.

Oggi – e ripeto oggi con una sillabazione tediosa, da vetusta consegnataria di sciocchezze, abbordabili e soprattutto non necessarie.  Oggi sono sicura che abbia perso un mucchio di tempo. Quel tempo ritorna nella scrittura. Non la spada di bellezza fulva, netta, e strumento di rivendicazione, come lo fu per altre, altre scrittrici. Leggo a margine di un testo biografico: sulle donne c’è da congiungere la vita e l’opera.

La vita e l’opera. E non sai mai decidere – mi dico – chi o cosa – abbia perso di più.

Copyright © Veronica Tomassini.