La storia di un’ossessione – Una mitezza sconosciuta.

Dicembre era incolore e freddo. Il freddo anomalo per una città del meridione. Ricordo un pallore indossato alla maniera di uno stile, persino una poetica. Vestivo di nero, ma ero all’incirca felice, prima di incontrare il tossico. Volevo che crepasse. Doveva crepare lui. La sua ignoranza indigesta al mondo. Ricordo, procedendo a tentoni, con in testa la musica di Tracy Chapman. Le strade erano grigie e una certa ebbrezza che sentivo agitarsi, con un battito accelerato, una baldanza, concorreva al picco di adrenalina guardando alle cose che potevano accadere.

Non sarebbero mai accadute. Il destino si conforma mentre opera la contraffazione di un sentimento, una passione, svolta abilmente, mi impedisce d’amare.

Amare così l’incanto sbagliato, quello che scolora, che si traduce in una camera di tortura, espiare nel nome di nessun singulto. Qual è il senso? Lo invoco oggi. Invoca il suo nome, dinanzi al quale si piega ogni ginocchio.

Il Nome al di sopra di ogni nome.

Le strade erano grigie. Era inverno. Uno in mezzo alla ripetizione di una stagione, replicata fintanto si chiami ancora giovinezza, prima della fine, dunque era l’ultimo inverno. A un’ora del pomeriggio, sostavo sotto l’arco della piazza, la penombra era già buio pesto, la sera quando è funesta, e le foglie turgide delle magnolie vibrano come tormentando capocchie di cristallo, sgretolarsi, vederle sgretolarsi, non è altro che una reiterazione, il vento di tramontana tra i rami. Una vedovanza che si annuncia, la mia, esatta, la solitudine reiterata e funerea.

L’amore mi sfuggiva, era la tentazione attraverso cui perfezionare le virtù, la pazienza, lo stoicismo. Camere di tortura.

Sotto l’arco della piazza, c’era un solo fanale ad illuminarmi, ero una piccola stella, possiamo definirle fantasie di una giovinetta. Un signore distinto passava da lì, sapendo di trovarmi. Ogni pomeriggio. Un signore facoltoso. Potevo avere qualsiasi cosa, davvero, essere una stella.

Saperci fare, come alcune coetanee, i sogni si adeguavano, le ambizioni, il futuro. Diventare un’entraîneuse. Far bere i clienti, in uno squallido locale aperto fino all’alba. Di una tale ambizione non sentirne nemmeno l’ambivalenza con una sottaciuta vocazione all’immacolatezza, si poteva esser contente di una tale piccolezza morale, una specie di controcanto al molto poco che mi aveva allattato, l’aborto.

L’amore era un giovane di nome Massimo, ma il destino doveva conformarsi con l’inetto, con l’idiota ancor meglio. Non c’è stato altro, tutto sommato, fino ad oggi, che uno stornare di passioni verso un lido discreto, con aspettative modiche, dove arrotare il retrogusto di un espediente, per vivere, in definitiva; non era altro la vita, in quella stagione perfetta, che la perfetta esecuzione della vita stessa? Vivere per vivere. O parteciparvi, come a una epifania, sulla soglia dell’altro, e l’altro detiene ancora la prerogativa dell’avvenire. Dell’altro non hai paura.

E nemmeno dell’amore. Non ti guardi le spalle. E quello è l’amore.

Ma non lo conoscevo. Può darsi che il diario di Christiane Felscherinow non fosse soltanto l’esecuzione a priori di un fatto, un modo deragliato di arrendersi al mondo. Sissignore, arrendersi, benché avessi soltanto pochi anni. Non mi fu annunciato l’estremo compito, tergere l’empio, ovunque e comunque, offrirsi a strali di ferocia e traghettarla verso una mitezza altrettanto sconosciuta e sempiterna. Forse era già il grande vuoto dentro cui abbandonarsi, inghiottita, la cuspide della stoltezza ibrida che vuole salvare tout compris; la mandibola abnorme del mondo la triturerà, il sacrificio ignaro.

Il sacrificio si connotava di pennellate indaco, o incolore. O grigie. Eccole le strade, alle tre del pomeriggio, è inverno, forse l’unico. Ho una strana contentezza, in realtà è l’ebbrezza rovesciata, intorno i compagni sono eroinomani, e muoiono di overdose, e morire sembra assumi uno spirito epocale o semplicemente epico.

Non puoi che morire su una panchina, dentro un eschimo usurato. Riscatti la tua provincia di merda. Hai una spada conficcata sull’avambraccio.

Le vene si sollevano, poi franano, crepitano, sono dure, sono morte.

Avevo diciassette anni, i capelli lunghi, ricci, spessi. Tingevo le labbra con un rossetto color mirtillo, come Christiane negli slummy di Berlino. O nella Kurfustendamme. O forse stava battendo? Il resoconto di un quartino, da iniettarsi in un cesso pubblico del Bahnhof Zoo.

I capelli le si appiccicavano sulle guance.

Pioveva. A Berlino, piove sempre. Ma anche dicembre in una città del sud annuncia nuvole brevi, piogge malinconiche. Così cercavo Christiane. Cercavo la verità.

C’era qualcosa da sorprendere.

L’avrei trovata.

La verità.

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