La storia di un’ossessione – Tutto è compiuto

Gropiusstdat era il magistero da cui procedevo, attraverso cui – sbarra opaca e di sbieco su cui sbattevano tutte le possibilità di sperare – avrei applicato la mia vita. Sotto il grigiore avverso sui tetti dei palazzi tirati su come una riga alla fine o nel bel mezzo di un destino, si sarebbe compiuta la mia stessa esistenza, lacerata, brani sfilacciati che non avrei avuto cura di acconciare per rivederne affranta il disegno malvezzo. Il sintetismo, in fondo le mie vicende, tolta una rilettura densa di ardore e di un qualche segreto superiore alla amalgama dei giorni, si adunava al cospetto di sventure, succedute, una sopra l’altra. Avrei dovuto rincorrere per sempre l’identico ozioso coacervo di disfatte, per articolare la risposta inesatta intorno al traguardo piuttosto vago: la felicità o l’amore. La felicità o l’amore a patto di fendere la cruna dell’ago con una baldanza circense: ce la faremo, ce la faremo. O raggiungere l’una o l’altro. E nel balzellare tra i vari smisurati errori, pencolare come automi al servizio della casualità, nella consapevolezza che la precisa caduta morale dell’uomo non avrebbe risolto il quesito, al massimo avrebbe consegnato il bagliore su un dopo ulteriore quindi ultraterreno, nell’alveo di una salvezza, celata dalla criptografia umana, architettata dalle cosiddette cose del mondo.

Dovevo uscirne dai sette anni biblici, avvinta alla miseria del tossico e degli altri, negletti, ignoranti. Mi competevano nelle stanze decise anzitempo per me.

Perché chiedersi ancora la severità dello stesso tramato? Era ed è.

La sventurata o la vittoriosa?

Erano sette anni biblici, la cattività e il deserto. Le acque che si aprono come il costato di una bestia ferita, nella agonia inudibile. Cerco di consolarmi da me. Or che mi sembra che tutti i piani combacino per consumarsi, o meglio dissolversi vicinissimi alla fine.

E alla fine, affiorano le parole della santissima pietà: tutto è compiuto.

Ricordo un capodanno, i vent’anni così gravosi, mi lasciarono presto. Ero stanca, sempre, sfinita, magrissima, invisibile. Come se avessi mille anni e tutti i secoli di guerre e sconfitte da computare in olocausti, vari ed eventuali, una caparra sulle virtù future, che comunque non avrei acquisito. Non una medaglia al petto che mi facesse compiacere. Ero l’estinta. Non ero una principessa appena qualche abbaglio prima? La più stronza e la più graziosa, quella che snobbava i coetanei liceali, imbranati, senza calamità da proporle?

Senza un vizio. Senza che capissero la differenza tra un quartino di sugar e uno tagliato con la stricnina. Io ero preparata allo slang dei perduti. Perduti balbuzienti incapaci di usare un congiuntivo.

Ricordo un capodanno. Il tossico misurava la propria socialità con il gruppo di sodali, eroinomani dal viso butterato. Uomini o donne da non poter distinguere, l’età, la provenienza. Belli, brutti. Vecchi, bambini, giovani. Piuttosto lemuri, spiriti malauguranti. Sedevano al tavolo di una casa popolare. Un cucinotto illuminato da una luce bianca, spettrale. Ogni tanto qualcuno si alzava e spariva in bagno. Tornava dal suo lenocinio, il sangue ancora fresco sul bordo del polsino della camicia, la camicia appena rivoltata sulle maniche, da una parte.

Farsi. Farsi di eroina. Il mio sguardo inchiodava il lenocinio, un tormento che risultava inesplicabile, malgrado avessi visto. L’eroina. La lusinga. Malgrado avessi letto il diario di Christiane Felscherinow e fossi entrata nel destino, nel mio, una latebra dalle cavità molteplici e ardite, caleidoscopi terrei, a cui consegnare bandoli di innocenza o di curiosità. Sapete distinguere l’una dall’altra? Come la felicità dall’amore? Come la caduta dal rosario di un riscattato?

Il tossico in quel capodanno era il figuro sinistro che ritrovava una ciurma di trapassati con cui condividere il rito antico. Il passaggio, la condivisione di una morte fasulla. Il lungo flash, come il titolo di un romanzo che lessi subito dopo aver letto il diario di Christiane.

Il capodanno era una notte buia, fuori i petardi di quella miseria nera accendevano ilarità slabbrate, volgarità talmente feroci da desiderare la morte vera e non un qualsiasi sinonimo rimediato in sua vece. Non l’eroina, non il sesso acerbo, non il mio vagabondaggio, una fuga mai confessata, una fuga dal nido che non ricordavo, una tana, una placenta. Tornarvi, senza pagarne il pedaggio, l’esclusa.

O ancora: l’estinta.

Ma io cercavo l’amore. Si nascondeva, dietro nuvole gravose, sotto i cieli di un quartiere berlinese dove non ero mai stata, al riparo dalla sferza della mia terra, sotto il tremore del piumaggio del fenicottero rosa, placido sull’isolotto al centro dei flutti sulla linea dei calanchi; si nascondeva sotto l’ombra di un’agave gigantesca.

Nel mio cimitero, la chiamavo piazza. Consumavo la grazia ricevuta, la giovinezza, la bellezza, l’audacia perché io riuscissi a guardare oltre l’orizzonte striminzito, come fanno tutte le ragazze.

Cercavo l’amore.

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La storia di un’ossessione – Una solitudine.

C’è un monte di cenere. E’ una immagine di desolazione efferata per quanto rappresenti essa soltanto la solitudine in cui era necessario dimorassi. Lo spirito negletto, o tacito, che reprime il singhiozzo, sprofondato nelle tenebre di una qualche vicenda temporale e per ciò transeunte. Era necessario. Era necessario il monte di cenere. Sapete come certe disfatte, la fine di un mondo, un lasso. Ogni cosa predestinata a consumarsi. Io sulla cima, un colle di lapislazzuli fragilissimi, effimeri, guardo infastidita svolgersi la trama e non so ancora dare un nome all’attimo sovrapposto all’altro, una china sopra l’altra, per assommare destini, destini svuotati, abitati da mancanze, terrori giusti perché l’uomo sia raffinato nell’oro, provato, bruciato. La vita degli altri mi fendeva e feriva persino nella precisione noiosa, era la vita borghese e irreprensibile, non concedeva ristoro, similmente alla luce scoppiata del mezzogiorno sbattuto contro i palazzoni popolari. La violenza del cielo terso fino alla cecità. Rondinelle ondeggianti, finanche loro esitavano in talune ore del giorno, par così di assistervi, il requiem sopra la vita. La vita, gettata, arrotata da istinti maldestri, volgari amenità da raccogliere e tenersi come un pegno, un dazio irriconoscente.

La solitudine in cui dimorare era un anello del destino. Il più tenace. Da subito, annunciato. Quando? Mi chiedo. Quando il mio vagito soffocava dentro una culletta, in una stanza bianchissima di una casa in stile patrizio, con un lungo viale polveroso. Ramingo. Io nella culletta. E un canto. Era mio padre? Ricordo le parole: canne al vento. E malgrado fossi un’infante, vedevo molto chiaramente il canneto piegarsi alle spire che provenivano dal mare, la luce era blanda e ingrigita. Una solitudine necessaria, in cui dimorare. Poi lessi il diario di Christiane Felscherinow. La solitudine erano le rotaie gelide, dentro cui urlava l’eco di un treno, arrivava da estraneità irrigidite, da quale sconosciuta esistenza su cui gravare pulsioni e attese ignote? La solitudine in cui Christiane mi trascinava, oscurità mutilata da possibilità invertite, come la speranza, a mezzo di ineluttabilità argomentate dal dramma eterno di esistere per inciampare, inciampare per sollevarsi, sollevarsi e tendere alla luce. La luce desunta da ombre cattivissime, negli slummies, dove smarrivano i suoni, intronati e confusi, smarrivano alla stregua degli aloni opachi impressi sui volti. Smarrivano i colori. Individui sottili, disegni senza profondità, un quadro di Bonnard, Denis, Vuillard.

Una tela enorme di paurosa laconicità, di errori moltiplicati nella caricatura, dicono i fauves, traduzione appassionata di un gesto, una qualche vita. Christiane negli slummies, il suo chiodo nero, i jeans cuciti sulle gambe sempre più magre, le scarpe da donna. Dietro di lei si allungava il leviatano, smisurato e nero, la galleria dove l’umanità spariva, inghiottita da velocità bestiali, prive di un orecchio spirituale, secondo l’assunto degli artisti del primo dopoguerra. L’uomo dell’età borghese allora aveva una discreta ed elegante ragione per cui osteggiarlo, rigettava il suono del mondo, non pronunciandosi. Filisteismo con una edotta capacità di determinarsi. Ma non era il mio terrore, contemporaneo e acerbo insieme perché riguardava me, una giovinetta.

La solitudine necessaria avrebbe marciato lungo gli anni, come lungo il sentiero bianco e polveroso della villa patrizia un rapace introverso. Un piccione d’allevamento, il gabbiano lungo i fili, il tacchino domestico preparato a marce inverosimili per la sua natura.

E c’erano distruzioni necessarie, non ricapitolo i versetti del profeta Qohelet. Eppure il senso è inevitabile. Il bisogno della stagione del raccolto divelto, la gramigna, i covoni magri.

E c’erano sogni di redenzione per ogni visionario, da appaiare alla necessaria solitudine. Non ho mai udito lamento più stanco dell’uomo giusto che non riesce più a pregare, che non raggiunge la tregua disperante, la requia nella giaculatoria, dopo il pane dell’afflizione, l’acqua della tribolazione.

Così è cominciata, capite, senza sapere che ogni parola appresa, amata, ogni pagina sfogliata, non era altro che il termine svuotante, il termine svuotante è la solitudine necessaria. La solitudine necessaria è la medesima pagina de La livella di Totò, che leggevo e rileggevo, confortata alla scheggia tremebonda di un lumino. Pinnacoli di mestizia ad ogni capoverso. Una mestizia non riconosciuta, che non avrebbe rischiarato mano mano, fino a rivelarsi, l’antipodo di qualcosa a venire. Il preludio. L’inizio o la fine?

E invece il significato è nella circolarità, non l’inizio, non la fine, ma la circolarità, in cui l’inizio coincide con la fine.

E quella è l’eternità.

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La storia di un’ossessione – Brillante oscenità.

Se oggi dovessi restituire il rimpianto in una forma precisa, maneggiabile, quasi una statua, un’edicoletta votiva da rimirare con tristissimo sospetto, dentro infilerei la riproduzione di me medesima così come io davvero possa presentarmi alla vita e non saperlo, se non perché qualcuno, un giorno, riferirà il colore dei miei occhi, e non lo farà. Erano i libri ad avermi raccontato in anticipo una vita, non credo fosse la mia, no, mai, malgrado abbia tentato di avvicinarla, con una strana curiosità mista al terrore. E se lo fosse davvero la vita? La madeleine della medesima affiorare da circostanze non esattamente gentili o profumate. Leggendo Miller, Henry Miller, da ragazzina, avevo inteso davvero ben poco, se non una vaga eccitazione infusa da pagine di brillante oscenità. Nondimeno, adesso, in cui tutto appare una nitida ricapitolazione di uno spasimo perduto nei millenni, vigile al suo stato di allerta, il mio vagito in anticipo, direi che sia possibile che io fossi un’idea affamata, una forma dedita a gettarsi smarrita nelle vicende, non conoscendo l’esito e il passaggio dall’una condizione di inconsapevole gloria e leggerezza alla pesantezza del filo a piombo chiamato esistenza consumata, in un modo o nell’altro; o anche: frequentatore del pianeta terra e suoi connessi. Con il provvisorio vessillo a cui promettere fiducia: la salvezza di qualcuno.

Nel più completo, incontaminato, disinteresse.

Alla fine dei sette anni biblici, l’Eterno mi ha liberato. E mi reggevo in piedi appena sorpresa, indecisa se esser in definitiva felice, di quale sostanza fosse incastellata una simile felicità non mi sarei chiesta nemmeno. Piegata per la mancanza assoluta di vigore, non ero che un’idea appunto, un’idea senza cibo direbbe un personaggio di Miller, negletti e infausti detengono verità tali da procurare indignazione. Verità che confliggono con l’idea affamata che portavo in me. Era la domanda. Il tossico alla fine dei sette anni biblici era salvo.

Non mi ispirava l’edificazione dello spirito contrito che finalmente giubila. Piuttosto la mangiatoia di sentimenti deteriori era lì, occhieggiava da qualche parte, cauterizzando l’insulsa mole di pulsioni demagogiche, ad esempio la bontà appuntata dalle cose del mondo, non necessariamente conforme a quanto di segreto sarà rivelato.

Deduco che le nostre ragioni non ragionevoli al cospetto della maestosità che ci è inaccessibile non siano utili se non per guadagnarci da vivere un giorno in più, rabberciare alla meno peggio quel che serve per coprire la distanza, da qui a laggiù. Laggiù è l’infinito o l’eternità.

Il destino. Parola che non può mancare nel dizionario di uno scrittore. In ogni romanzo ne enuncerà una forgia, una suggestione. Serve. A sentirsi inani con autorevolezza. Destino. Il mio comincia dentro le pagine di un diario.

Nomi che accompagneranno molti anni della mia vita. Christiane. Vera. Gropiusstadt. Bahnhof. Kurfustentrasse. Kurfustendamme. Babsi. Stella. Ufo. Detlef. Haus der mitte. Sound.

Lo slang degli eroinomani. Dopo furono solo perlustrazioni immaginifiche. Non credo si possa definire vita calpestata. Eppure sono viva. Non sono l’idea affamata, non più soltanto.

Ho procreato.

Dunque esisto.

I tossici che incontrai erano la somma ignorante di quel che avevo appreso sui libri. Tre, non di più. Libri sull’eroina. Ce n’era uno di Evan Hunter, “Aria chiusa”, fu una rivelazione trovarlo nella piccola biblioteca di mio padre. Musicisti di jazz, eroinomani. Uno lo era. Siamo negli anni Cinquanta, ma non ricordo esattamente, potrebbero essere anche gli anni ’30. Poi lessi la storia di Carlo Grimaldi, “Un lungo flash”. Eroina. Eroina. Eroina.

E quando sono finita nella piazza della mia giovinezza, gli eroinomani malfatti, poco edotti, morirono quasi tutti, non ebbi il modo di capire (ma cosa cosa dovevo capire?). Cercavano una verità? Nutrivano le loro vene dell’oppio di una qualche filosofia abbagliante, a mezzo tra boutade new age e rapide consultazioni di versi pop o altrimenti maledetti, ma irrimediabilmente pop.

E il gusto metallico in bocca? Era l’eroina?

Sembrava che il respiro mi si spezzasse a metà dello sterno soltanto a osservare il patibolo che era il giorno, e poi la notte, il susseguirsi di una precisone anfanante. Non era un delirio dietro l’altro? Una prova, la resistenza, gli inferni prefabbricati di Strindberg? I colori si smorzavano nella terra che vantava la luce delle solenni gouache dei grandi viaggiatori. Ed erano colori luttuosi piuttosto. Non palpitanti, sferzanti enigmi pregni di significati senza via di uscita, ma almeno sgargianti.

Una tavolozza cimiteriale, tradita da verdi opprimenti, bagliori infuocati e fatui. Il firmamento ardeva persino nel blu delle due del pomeriggio, in certi giorni d’estate.

Il tossico era salvo, ebete. Gagliardo. Mi ispirava pietà, una pietà scoscesa verso l’amarezza o nel ghigno nascosto per buona educazione. L’irredento ebete era salvo.

Perché lui? Perché si era infilato nel mio destino un insulso caprone? Perché?

Quale santità nel gesto può mai dimorare se alla fine della ruota del mozzo subentra l’untume risentito che indica l’irredento e sopprime un riso intinto nel disgusto. E sono solo domande, vedete? La vita alla fine rinfaccia soltanto le domande, quando si crede di solito che sia la stagione delle risposte in verità. E sono domande. Una raffica di insinuazioni talvolta se in noi non sia fiorito il bocciolo della fede. In qualcosa. Io spererei in Lui.

Il più bello delle creature.

Che fine ha fatto la ragazzina smunta seduta sotto i portici di una piazza, alle tre del pomeriggio?

Le tre del pomeriggio sono l’ora della tristezza inenarrabile. L’ho appreso in seguito, scritto e riscritto, agitata dalla propalazione verificata. Eccomi. Eccomi afflitta, stanca, sbattuta dalla tempesta.

Sconquassata, in una delle più diffuse traduzioni bibliche. E’ Isaia.

Eccomi. Sono la ragazzina, seduta sotto i portici di una piazza alle tre del pomeriggio. Sono una donna adesso. Non riconosco il mio viso. Contengo molte memorie. Non ricordo nulla.

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La storia di un’ossessione – Il dono.

L’ultima estate mi colse d’un tratto. Con allettamenti e possibilità, come le pioggerelline che anticipano brani di autunno. Diventerò adulta. E indosserò una maglia morbida, di lana, i jeans desiderati, gli stivali con la fibbia come le ragazze dell’ultimo anno. Erano i miei pensieri. Gli allettamenti. Il piacere non indagato di una cartolina sulla roccia. Un paesaggio, ancor meglio. Una casa bianca, il pergolato sovraesposto al vento di scirocco. Si ingrigiva in attesa di settembre, quando le nubi si concentravano sulla sommità, sporte verso le onde arroventate nel precipizio, il grigio si sommava al blu introverso, il blu di Prussia nella tavolozza dei colori. La mestizia che conforta, al riparo del sole fecondo di falde abbaglianti, attese e poi respinte, ogni cosa si sottomette al principio di repulsa quando raggiunge il parossismo dell’innocenza; scaglie vibranti sotto la cuspide azzurra e profumata di incenso, vorremmo, simile ad una rivelazione, gli arcangeli e Maria, il cielo che finalmente ci si mostra, allargando la maglia di tutte le grazie, dentro cui risalire ogni esitazione, piolo dopo piolo; assurgere, leggeri, liberi dal giogo che sconta nella mitezza la prova, il sacrificio e l’abbandono confidente. Ma non avevo idea di altro allora se non che avessi una età in cui la nitidezza imbatteva il tedio fosco dell’errore umano. Lo faceva in anticipo, nello sgomento improvvido, restavo. Lo chiamavo errore forse un po’ sbrigativamente, gettata mio malgrado e quasi subito nella graticola dell’impossibilità, del poco, della privazione che sarebbe tornata a indicarmi la sostanza di un destino. Destino ancor piccolo. Era l’ultima estate. Avevo diciassette anni.

La casa si ergeva resoluta sul picco della roccia, al di sotto il mare fremeva, ed era trascorsa la stagione e si erano consumati i fuochi fatui, così che ognuno potesse tornare a sperare, o vibrare, nuove seduzioni, durature e plumbee. Il liceo. Gli amici. Le feste. Avevo già perduto il meglio che doveva ancora accadere.

Ed eri tu Christiane. Ti eri infilata nella mia modica esistenza, persino inutile, perché ne modificassi i confini brevi. Gli accadimenti si piegavano al sentimento segreto, la pietà che rifulgeva percorrendo le vie della luce cristallina, nascosta al nostro sguardo, confermava la parola pronunciata nell’Eternità, perché io fossi, può darsi, lo strumento vacillante, la fragilità tanto voluta e per questo amata, la medesima incontrata anni dopo nel diario di Maria Valtorta, in cui il Figlio dell’Uomo mi educava nel senso della santissima nemesi e poi ancora nel diario di Sarah Young: A te ho donato la fragilità(…) Accetta questo dono, è delicato ma irradia una Luce splendente.

Eccomi rivelata. Non basta a guarire davvero. Non ero guarita quando finalmente tornai ad essere una ragazza? Eppure era finita la stagione e per sempre. Il tossico eroinomane era salvo. Trascorsi i sette anni biblici, fui liberata dalla seconda oppressione. Vedete, procedo gerarchicamente, l’esistenza di chi vi scrive fu suddivisa in molteplici oppressioni, perché riparassi all’ombra dell’Eterno, perché confortassi – nel contributo gracile – le piaghe e il pianto nel giardino dei Getsemani.

Era un diario, il diario di Christiane Felscherinow. E invece no, non semplicemente. Una pellicola mortale e incolore avrebbe avvolto ogni scelta, sorretta in una prima versione – la verità sbagliata – da un senso curioso, ipnotico e malato della debolezza, dell’inciampo, del vizio. Ma la pellicola mortale era lo scudo infuocato, la merlatura di berilli, la cinta di Zaffiri, che l’Eterno promette alla sposa abbandonata. Isaia libro 54.

Forgiata nel palmo della sua mano, diventai l’ostia. Consumata nei giorni biblici della mia giovinezza e quando pronuncio la parola giovinezza mi stringe al cuore il rimpianto e il laccio antico della costrizione, dell’abnegazione a qualcosa non più desiderata, il vuoto in cui lasciarsi cadere perché in una legge non riconoscibile, chiamata misericordia, l’orda dei penitenti vi fosse trascinata, non nell’imo profondo, tuttavia nelle alture celesti.

Io credo. Io spero.

Nella delusione amarissima, il calice di fiele, dovevo raffinarmi. Consumata dal luogo arso dall’ignoranza, le frescure rade, la terra divelta – scostante al germoglio o a aiuole di margherite – le ostilità dell’uomo tribolato, meschino; le mattine in cui aspettavo il tossico eroinomane davanti la porta del Sert. Ero anche allora l’ostia. Scarnificata, ne sarei uscita, privata di qualsiasi brama. Sparito il desiderio, la vita, qualsiasi circostanza potesse ricondurre alla comodità, all’appagamento, alla fortuità leggiadra di aver vent’anni o giù di lì.

Potevo salvare ancora qualcuno, ma non per conto di Christiane, il cui secondo nome è Vera.

Era l’ultima estate. Sedevo in una poltrona di vimini, nel giardino barocco di una casa di campagna. Davanti a me c’era un amico, forte e biondo, bello e prossimo. Si chiamava Nico. La nostalgia mi afferrava a ondate, subdolamente. Stavo per lasciare lui, la mia giovinezza, l’ebbrezza dei giorni a venire. Era un congedo. Non era il dettaglio avvertito, se non nel libro della vita.

Avrei dovuto lasciare tutto, una scelta vicina al dogma, alla perentorietà. Nico non lo avrei più rivisto. Parlavamo dei giorni e del futuro. E ridevamo. Era davvero bello illudersi di essere soltanto una ragazza.

E le feste private. E il mio bel visino. Bisognava deporre sull’altare ogni conforto. Avrei dovuto abituarmi alla sottrazione puntuale. Un refrain, la ciclicità del significato all’origine. L’origine era il cerchio.

Io sono l’alfa e l’omega.

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Noi poveri giù al Sud (Il Fatto Quotid.)

La città del sud in cui vivo è tornata nel medesimo ronzio. Il giorno dopo la dichiarazione un po’ cafona che ha raggiunto i pusillanimi con un sms. Il fedifrago che non sa mollarti e si dilegua con un messaggino. Vi piace la metafora? Il ronzio si concentra sulle panche divelte del centro storico, unte e imbrattate di guano. Il suq nauseabondo. Siedo con i venditori ambulanti, sono sinti, vengono da Noto. Gli anziani sono pochi e fanno spallucce. Ma quale rivoluzione? Stiamoci calmi, dice qualcuno. Ché tanto sulla soglia della morte, voglio dire, abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno. Nel senso, in dialetto: “cchi mi stai cuntannu?” (che mi stai raccontando ormai, traduco, nda). I vecchi tornano a casa, quando si fa sera, voltano l’angolo con i colli di mondezza e salutano un altro inutile giorno. Ed è sufficiente. Cosa facciamo? Vorrei urlare. Chi sono i miei sodali? Una donna appena più giovane, vive in borgata, spera con cuore acceso in un assalto armato vero e proprio. Inforchiamo roncole, manganelli. Spariamo, bruciamo il mondo? Siamo al sud, dobbiamo tornare dove niente mai cominci. Al sud. Il posto migliore dove lanciare i poveri, le disgrazie, la malarazza, la chiamano così i siciliani. Siamo noi? La sventura, la povertà. D’un tratto mi coglie un dissidio, piangere o imprecare: si sgrana nella mia homepage la foto luccicante del premier e della figlia, durante il volo privato (verso gli Usa?). La malarazza. La premier scrive qualcosa a proposito del camminare insieme, mano nella mano, verso il mondo, si improvvisa Prévert de la Garbatella; nel frattempo però sul medesimo mondo ha fatto già pipì (in concorso). Qualcosa di torrenziale. Poteva dircelo, noi credevamo davvero che fosse pioggia.

E siamo al giorno dopo. I servizi sociali sono un concetto misterico. E chi li ha visti mai? Ma ndo stanno? Non sanno come mettere insieme il pranzo con la cena, per dire; mò si devono occupare di una torma di miserabili? Per carità. Ne hanno a tonnellate da smaltire, pratiche marcite, passato presente e futuro incollato nell’identica inedia, messa a tacere in qualche cassetto che geme per la lunghissima degenza nell’inattività. E questi nuovi? Ultracorpi informati, educati a strane forme di speranza che passano per parole mai pronunciate ma assunte con coraggio rinverdito: ammortizzatori sociali; sussidio per la causa dignità o piccola libertà, ancor meglio. Il sindaco, leggo da qualche parte, è bloccato su un letto, pare abbia mal di schiena. Ma la sinti con cui siedo, senza sapere l’entità della sua rivelazione, sostiene di averlo visto ballare in un paesino, appena fuori Siracusa. Cassibile. Noto alle cronache per aver avuto un serial killer nei suoi annali. Bisognerebbe disseppellire le vecchie cabine telefoniche, per consolare il signor Meloni, sull’autenticità del povero: il povero deve telefonare da un telefono a gettoni, altrimenti non è povero. Ma tanto al sud non abbiamo voglia nemmeno di telefonare. A chi? Siamo tornati nel luogo dove non comincia niente. Ognuno nella destrezza che gli compete, l’antinomia della verità: una monta di sopruso e diffrazione della legge. Qualsiasi cosa sia confinante con la violenza, l’infrangimento del diritto in generale, ecco quello è il sud. Quello faremo. Quello è ciò che vogliono da noi. Cercheremo di fregarci l’un l’altro, cioé sopravviveremo. Torneremo a difenderci dalla brutalità di una solitudine geografica, sociale, politica, ammutoliti. Lasceremo il solito euro al fumatore di crack posteggiatore abusivo; torneremo nello stato di guerra che è il nostro senso civile del vivere. Stato di emergenza perenne. Ovunque giri lo sguardo: è guerra. Anche quando non si spara. E da noi si spara. Forse torneranno a farlo. Vorrei dire di no. Ma non ne sono sicura.

L’originale è uscito sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, edizione di mercoledì 2 agosto 2023

“Sono povera con dignità” (Il fatto Quotidiano)

Non dovrei indossare io questo abito, si chiama vergogna. Ma lo indosso. Dovrebbe indossarlo anche lei, signor presidente, moglie-madre-patriota. Un giorno tuttavia la interrogherà, scrupolosa, la vergogna: come ci si sente, signor presidente, a infilare la mano nella tasca vuota di un povero e del poco (eppure) riempire l’epa pingue di un ricco? Diciamo che lei e la sua favolosa squadra, o squadrone, di collaboratori, ministri e consulenti, fate un po’ così. Che paraculaggine, a vedervi da fuori. Mentre i capigruppo alla Camera aggiungono duemila euro alle loro prebende – in una visione molto letteraria e scoppiata, si stagliano paciosi come tranci di mortadella grassa – ecco dicevo mentre di là, da voi, si opera così, da noi, di qua, sul versante dei poveri lanzichenecchi (mi perdoni il simpaticissimo Alain d’antan), si va in giro con le pezze al culo. Ma, signora patriota madre moglie presidente, sto indossando il suo vestito, la vergogna, era cucito per lei, lo indosso io. Sono una lanzichenecca che ha perso il reddito. Finito. Stop. Sono povera, signora mia. Sono istruita, scrivo bene. Meglio dei suoi uffici stampa, talvolta sa a leggere certi comunicati, e il senso imprevedibile di una consecutio, c’è da restare orgogliosa e lanzichenecca (adoro Alain). Reddito sospeso. Sono povera. Il mio welfare si chiama: papà. Mio figlio lavora dodici ore al giorno dietro il bancone di un bar. Io ho fatto tutto, già detto, dalla venditrice di tappeti alla banconista in un pub di spogliarelliste. Inorridisca, signora cara, tanto sa oggi non ho niente. Sono fortunata tuttavia, perché sono meno povera di altri poveri. Io non devo andare in Caritas finché c’è mio padre, sul dopo soprassiedo, mica devo per forza vivere a lungo. E di questi pensieri ne orlettiamo la soluzione in tanti. Siamo lanzichenecchi abituati alla rinuncia. Al sud funziona così, d’altronde i vostri scaracchi antimeridionalisti, antiassistenzialisti voglio dire, propendevano in tale direzione, “sana e giusta”. Pezzenti miserabili sudisti. Magari fra due anni sono morta e abbiamo risolto la questione. Gli altri lanzichenecchi non so cosa faranno. Il sud sarà sempre Beirut degli anni ’80, anche quando non si spara. Non vogliamo deludervi. Lo stigma del suo mandato presidente sarà: la tizia che toglieva ai poveri per dare ai ricchi. Quando ieri pomeriggio ho ricevuto il messaggio telefonico dell’Inps, alla fine ho riso quasi quanto per il pezzo dell’adorato Alain; sa quel riso con il suono del singhiozzo, come restituiscono certi racconti di Cechov o di Gogol e gli eroi capovolti, mirgorodiani. Il messaggio mi avvertiva della sospensione della domanda di reddito, mi invitava a rivolgermi ai servizi sociali. “Si faccia assistere dai servizi sociali”. Lì c’era da morir dal ridere. O balbettare: cosa come dove? I servizi sociali in una città di provincia del sud, che non ha nemmeno un assessorato al ramo. Cosiddetti luoghi dell’imperscrutabile. O sciarade. O scherzo del destino.

Servizi sociali. La miseria più infame e nera vi sosta davanti la porta per ore. E non c’è mai un esito che lo sia. Una pratica che lo sia, definitiva e utile, vincente. Mai, mia cara. Conosco bene i poveri della mia città, sono più poveri di me, e quando discorro con loro, seduta su una lurida panca del rione storico, mi sento persino in colpa, perché sono più poveri di me. E io in fondo ho mio padre.

Il mio welfare si chiama: papà. La carta gialla del reddito vi faceva torcere le budella, mandava in stipsi il vostro intestino. Spero che adesso abbiate evacuato. Nelle ultime settimane il mio reddito non superava i cento euro. In una profumeria la carta non avrebbe funzionato, solo farmacie e supermercati. Perché al povero deve bastare essere affamato, pusillanime e malato. Io vorrei ridarle indietro il vestito che indosso, è suo: si chiama vergogna.

L’originale è uscito sulle pagine de Il fatto Quotidiano – edizione di sabato 29 luglio 2023

The Ave. La strada degli zombie. (Il fatto Quotid.)

Percorri una strana promenade, ha smarrito il cielo. Slummy, sopraelevate grigiastre, il raglio stralunato e tonante della metropolitana. Philadelphia. Oltre il fiume Delaware, le cime dei grattacieli restituiscono il mondo normale, frenetico. E invece c’è Kensington, Kensington ha una storia lontana, una storia di nativi, il quartiere spacca in due la metropoli, non ha confini. È il regno degli estinti. Oggi fa paura, Kensington significa più o meno “tranq”. Tranq in gergo è la xilazina. Oppiaceo. Droga. Mai visto niente del genere. Ci tagliano le dosi di brown sugar, il thc, i cristalli di crack. La assumi per endovena. La xilazina agisce in segreto, se ne fotte dei controlli, non la trovi. Il suo effetto narcotico sovrasta qualsiasi altra sostanza. Muori facilmente, di overdose. O di cancrena, perché la xilazina ti divora dentro, come la bestia affamata che arde nella geenna dei dannati. Sembra una enormità detta così. Basta guardare Ave e i suoi aborti. Kensington ha una strada infinita, la strada degli zombie, la chiamano Kensington Avenue, o semplicemente Ave. Gli isolati sono frequentati da ispanici, portoricani, gli ultimi irrimediabilmente nella scala sociale degli States. Isolati come camere della morte, interregni di golem deformati, immobili, inarcati innaturalmente. Caricature demoniache. È il terrore. A Ave arrivano dalla east coast. Dall’Illinois, Arizona, California, New Mexico. Si fanno di xilazina, così diventano zombie. Xilazina, fentanyl, eroina. Ma i demoni sono quelli fatti di tranq.

Le tende sono conficcate sull’asfalto. I dimoranti hanno perduto ogni parentela con l’umanità. Ricordano vagamente l’uomo, sono figuri, immobili, uno dietro l’altro, piegati, fermi, testa tra le gambe, per minuti, ore. Non solo esangui, gettati in terra, ma contenitori di una anima sorpassata dalla brutalità di Ave, di quel che è Ave. Cioè xilazina. Una strada che si identifica, in una perfetta consonanza, con tutto ciò che di terreo e subnormale possa accadere nelle nostre esistenze: nella più azzardata delle distopie, a Kensington Avenue è già successo.

C’è un giovane uomo che avanza maldestro, disarticolato, mani protese verso l’alto, in un giubilo cimiteriale, avanza fino a un pullman in sosta ad un crocevia; il giovane uomo procede fino a battere il capo violentemente contro la portiera. È fatto di tranq.

Ave è la strada degli zombie ed è una profezia. Traduce il mondo che ha dimenticato Dio. Su cui orribili strazi si dimenano o esistono immemori, ex portatori di identità, adolescenti, studenti, starlette, veterani di qualcosa. La xilazina divora la carne, procura la morte in molti modi. Consuma le gambe, in necrosi, le braccia, le mani. Gli zombie di Ave spesso siedono in carrozzelle, mutilati. Gli zombie sono nudi, defecano al centro della via. Non ci sono occhi che guardano o si guardano l’un l’altro. Sono ingombri che non hanno volontà, privi di sensi, un ago nel collo o infilato tra le dita dei piedi. Dormono e sono morti, sarebbe preferibile la seconda soluzione; ma gli addict del fentanyl o della xilazina non ricordano la ragione per cui una morte sarebbe preferibile.

Così non esci dal regno degli estinti, se non oltrepassando il quartiere. Jeffrey Stockbridge ha fotografato per cinque anni il volto disumano, scavato, privo di denti, dei dimoranti di Ave. Le sostanze che cambieranno il destino dell’umanità, riducendola a uno scherzo, a un infelicissimo errore, sono entrate nella contemporaneità come la vera atomica, il fentalyn in aggiunta alla xilazina, sfuggono ai controlli, hanno un prezzo di mercato accessibile ai seimila senza tetto di Ave. Il cosiddetto sballo è una morte che dura per molto più tempo rispetto all’eroina, il motivo per cui la via è occupata da cadaveri (ancorché vivi), deformati e ridicoli, quasi il male si prendesse gioco di loro, avesse individuato una possibilità di azione tale, ridicolizzare il dolore, rendere patetica, persino ilare, la fine di un uomo.

La fine di un uomo è Ave. Kensington Avenue. Philadelphia.

L’originale è stato pubblicato sulle pagine de Il fatto Quotidiano, edizione cartacea, pag.16, domenica 16 luglio, 2023.

La storia di un’ossessione – Guarire.

Cercare una risposta, Christiane, oggi mi è impossibile, se non nell’estremo e risentito tentativo verticale. Non ascetico, non sono ben disposta. Proveniamo da disperazioni distanti, Gropiusstadt era una sferza tacita e opprimente sulle vostre vite. Esercizio di resistenza, o un vizio tetragono di sopravvivere. La mia periferia era accecata da una luce manchevole di perdono. Come certe febbri turbolente che hanno motivato la grande pittura, qualcosa di prossimo al giallo dei girasoli di Van Gogh, a patto che quel giallo sia lisergico e inclemente. Che sia una rivendicazione sublime, una resa commossa all’insolenza in cui saremmo stati gettati comunque, fino all’ultimo dei singulti o fosse anche soltanto un riso amarissimo, il singhiozzo spacciato per un sorriso.

Le estati della mia giovinezza avevano già riposto le letture, foriere di precocità, una qualche idea di futuro. Sembrava che a me non dovesse mai spettare. Ero finita in una prigione, dove i carcerieri esibivano armi potentissime, tedio e malanimo. I carcerieri erano ombre, era l’ebrietudine del tossico che dovevo salvare. O il suo sonno protratto. Le sue palpebre pesanti. In fondo a quel castigo avrei dovuto trovare l’Eterno motivo che rigetta gli uomini, nei secoli dei secoli, nella medesima defettibilità, il mulinello della vita. Ed esso ci avvolge, ci stringe a tirannidi sconsiderate, riconducibili al solo errore: cercare una verità. Ma lo chiamiamo amore o non so. Istanze perdute come le mie letture o certi sogni confidati all’amico di liceo, una ultima estate, prima che iniziasse per me la fine di tutte le grazie. La grazia di un giovane viso, un cuore leggero. No, non fu mai più così. Non era nemmeno Gropiusstadt, una pioggerellina fitta, interni dalle tende opache, il linoleum o i casermoni di Plattenbau, una miseria tutto sommato partecipe di un lembo di una vicenda paradigmatica, la crepa nell’universo, qualcosa che un giorno avrebbe detenuto intercapedini dove la storia si sarebbe lasciata interrogare. Non erano i tossici della Haus der Mitte. Giustificabili, figli di pastori protestanti. O svuotati dall’estremo opposto, figli dell’ateismo socialista. Figli dell’ideologia che non nidifica innocenza. Non ce n’erano tra voi, o ce n’erano di rifugiati. Odiavate i turchi. E l’ideologia, che non fosse il Punk. L’ideologia come una vecchia radio di guerra, che gracchia entusiasmi di regime. Squallidi giochi di ombre sulle pareti: vedete, eccola la felicità, come potrebbe accadere. Scherzi del destino, riverbero di possibilità tradite. La dottrina. Ma voi eravate una resistenza, eravate l’Ovest.

Odiavate i turchi. E sono sicura che avreste odiato i meridionali. I gastarbeiter. I tossici che frequentavo erano figli di gastarbeiter. Disprezzavano la razza, coloni, scalpellini, esecutori di sforzi immani e analfabeti. A modo loro replicavano una resistenza, non colta, ma lo era. Prendevano le distanze da una genia malfatta, predestinata al fallimento, al turno servizievole, alla subalternità che li investiva nella tenia secolare: esser poveri. Una povertà arcaica, che risuona similmente a un disprezzo cavernoso, ne intinge i connotati. Gastarbeiter. Meridionali. Rozzi.

I figli morivano di overdose, con il volto butterato e i pochi denti.

Il sole della mia terra non concede riposo. Le urla del mezzogiorno, gli ambulanti e il mercato, è un altro tipo di morte. Una morte secca. Figuri inariditi che istigano uno scoraggiamento cieco e delirante. Il ricottaro, con la motoretta rumorosa, il suo odioso berciare, era già una morte. Non credo diversa o migliore di quella provocata da una overdose. Io ero morta spesso, a mezzogiorno, le urla mi perforavano di una mestizia molto crudele. Mi confinava in una ansa frequentata da paurosi dimoranti. Un purgatorio esteso. Non dovevo riscattare le esistenze degli altri, piuttosto ne ero esclusa oramai. Io non ricordo la ragazza di quegli anni. La ragazza di quegli anni era coperta da stracci, uno sopra l’altro. Il corpicino divorato dall’errore, non suo, dell’altro. Ancora una volta l’altro diventava la spada con cui ferirmi. Non necessariamente per una questione di affezione, di compartecipazione.

Direi di ineluttabilità. L’indolente e infausto cireneo. Non sapevo nulla di me. La mia stagione migliore destituita. Dismessa. In luogo di circostanze da necrologio. Una faccenda di morti che attraversavano il mio destino in costruzione, così insicuro. Ad un mattone, ne scalciava un altro.

E non è rimasto nulla. Per me, intendo. Cosa me ne faccio adesso del terrore che continua a svegliarmi la notte? I medesimi carcerieri e io che forzo le catene dei miei sensi di colpa. E non ne esco ancora. Vorrei che fosse possibile tergere una desolazione in disavanzo, corrotta dalla disarmonia, dal dialetto, dalla volgarità espressa nel gergo dei fatti di “ero”. Vorrei fosse possibile persino guarire.

L’ineleganza del male. Ecco, sì. Ecco, dove mi ero infilzata. Sarebbe stato auspicabile crepare subito, percorsa da una scarica di corrente elettrica, finire di agitarsi, contro un reticolato ad alta tensione. E finirla.

O piuttosto inginocchiarsi davanti al legno sacro, ai piedi del Figlio dell’Uomo inchiodato.

Sono anni di preghiere prive di Vocativo.

Il vocativo era Dio.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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La storia di un’ossessione – La via stretta

Sembrava che una spessa veste nera, luttuosa, mi ammantasse. Che tutto intorno la natura, il paesaggio mostratomi, come la libertà più morta, non fosse che la conseguenza di una tragicità remota, che adesso s’appressava a tornare, preceduta da un tonante gong, dalla gestazione di orrori spersi nella campagna arida della periferia e i tossici e quel che vedevo ne fossero i lacchè penosi, ingessati di zelo mortuario, mascheroni sfatti, liquidi bui fuoriusciti da una carcassa. Torme putrefatte. Capite. Non era un sogno.

Era la via stretta. La solitudine biblica. Ci sono cose che finiscono nella contiguità estrema di qualche altra consunzione. Non tornano allo start. Ma sono l’inizio di ogni fine. Allo start torna il medesimo lutto. Lo chiamo dolore.

Avevo diciotto anni. Chiudendo il pollice e l’indice delle mani sui miei fianchi, serravo per intero il mio vitino. Pesavo quarantadue chili. Sono alta centosettanta centimetri. Un paralume. Ero dimagrita in pochissimi mesi, uno due. Potevo riprenderli, e li avrei ripresi e poi persi di nuovo. E’ cominciata così la mia disperazione. Una disperazione biblica, anch’essa. Si spiegherebbero molte cose. Rifletto oggi con indolenza, è la stagione peggiore, un terrore che non riesco a tradurre del tutto, la mia scrittura lo impedisce, mi difende. Sono stata dentro la disperazione biblica, sette anni; sette è un numero biblico.

Le compagne di liceo erano le ragazze. Lo erano ancora. Le guardavo dall’altra riva. Erano lontane, spavalde. Non felici. Il mio pallore non era migliore del loro fondotinta giallognolo. Della bellezza fugace che mi aveva sorpreso a diciassette anni rimaneva poco, un guizzo negli occhi, l’armonia dell’ovale. Nient’altro. Il mio corpo scavato restava nascosto. Non lo conoscevo nemmeno, sepolto da strati di abiti. Uno sull’altro.

Le mie gambe erano tornite e forti. Diventarono la mia vergogna, una delle tante, assommate per salvare qualcuno.

Perché salvare qualcuno non è una questione poetica, esteticamente è ributtante, l’esito finale, dico. Ributtante. Non per questo sarei stata amata di più, al contrario.

Non era rimasto altro intorno a me. Le mie letture, e il divenire, non erano l’attesa eccitante. I giorni si immettevano nella sostanza pratica di una esistenza smorta. Non l’amore, non il desiderio.

Soltanto la morte di qualcuno, qualcuno da salvare a scanso di errori. E il tossico in effetti si era salvato. Era gagliardo, povero idiota, ma a suo modo poteva piacere. Non si faceva più, andava dicendo. Un legno marcio con qualche prerogativa.

Non sapevo come uscirne. Studiavo per la maturità. L’estate arrivava con suggestioni sempre più estranee. Spiavo alla finestra quel che poteva essere. Ero finita nell’irrimediabile. Ero il prigioniero che ha smesso di prefigurare una nuova libertà, fin troppo doloroso configurarne l’equivoco.

Le ragazze si scoprono. Non hanno vergogna. Io non potevo. Dovevo nascondere la ferita. E la ferita era il corpo scarnificato. Il tossico mi guardava, nuda, insicura. Il tossico rideva sulla mia faccia. Il suo riso beota, da analfabeta, il demente che non capiva le parole troppo lunghe. Dunque i suoi pensieri dovevano necessariamente adeguarsi, saranno stati pensieri minimi. Perché non è morto?

I pensieri minimi del tossico non erano sintetismo, non era una semplificazione della realtà. Non posso neanche riconvertire quel contenitore di carne in qualcosa di giustificabile. Sei venuto al mondo per…non so per destabilizzare. No, nemmeno. Sei venuto al mondo per crepare subito e senza rimpianto, legno marcio, cattiva brace.

La mia stagione peggiore. Ecco. Era la solitudine biblica. In superficie sembra non detenere alcuna fruttuosità. Esteticamente discutibile. Ciò che biblicamente ti arrota nel fuoco non è per forza un gran bel vedere. Dov’è l’eccezione? Dov’è la nobiltà?

Io vedo soltanto il misero fuscello trascinarsi nei giorni. Una ragazzina ossessionata da fobie molteplici e improvvise. Una giovinetta denutrita con la speranza di una trapassata. Una finita. Una che era all’inizio di ogni fine.

Ogni tumulto, il mare imperioso, in certi giorni con il vento di terra; le nubi violacee frementi contro il cielo sabbioso, enfio di una luce intrisa di foga, concitata per il tanto precipitare, su volti foschi, tetti sbranati dalla salsedine, casermoni dalle infinite vischiose pareti, privi di lucernari; ogni tumulto urtava nella immobilità di quel che non accadeva. Non accadeva la vita stessa, così come avrebbe dovuto.

Scriveva Marc nel Manifesto dei Blaue Reiter che in fondo il mondo, tolto il mondo, non era questo granché. Non letteralmente, ma più o meno, il senso era: qualsiasi cosa sfiorisce. Qualsiasi cosa detiene la maschera e la verità. Non solo la bellezza. Nemmeno nell’incandescenza della natura, nulla resterà, oltre la brutalità di una fine. Comunque una fine.

Prima dell’eterno sfiorire, c’è l’immondo. Prima della fine, c’è l’immondo.

Perché un fiore sia per sempre, rinsecchito o in bella mostra, o simile a una creatura impagliata, non può esimersi dalla putrefazione.

Dall’immondo.

La salvezza potrebbe procedere da qui.

Non una perfezione che mondanamente lo sia, e il suo contrario. Se penso a Miller, i suoi sozzi vagabondaggi. Miller, il suo personaggio, con una terribile erezione davanti alla tazza del water. Le sue donne disumane eppure altrettanto commoventi, si dimenano luride, graffiano i polpacci, esalano odori felini.

Imperfezione che cela un tentativo di purificazione, talmente intrinseco e indicibile, da raschiarlo sulla pagina. Esausti, colpevoli. Sgomenti. Trovarlo infine.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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La storia di un’ossessione – Save a prayer.

Alle tre del pomeriggio, quelli fatti di ero erano sentinelle ferali, seduti sotto i portici, la testa penzoloni, sentinelle dormienti, ognuno nel rango della rota. Ti spaccava le reni. Ne sentivo parlare, in gergo la chiamavano “la scimmia”, la deformità che arrampicava sulle spalle. La curiosità mi assaliva, tornava l’antico adagio: spiegatemi, per favore, spiegatemi perché. L’eroinomane sopravvissuto al tentativo di suicidio sillabava le parole come se fosse in preda a una demenza precoce, una paresi mnemonica. Era lugubre, andato nel regno dei morti e tornato. Il viso cinereo, olivastro. Qualcuno tirava su col naso, era la rota. Qualcuno si era fatto. Qualcuno dava di stomaco la solita schiuma bianca.

Riuscivo a mantenermi integra, cominciavo a difendermi dalla sostanza della vita, ecco che mi si presentava in un anticipo di paranoia. La sera prima di addormentarmi cercavo i preludi del sogno di quando ero ancora ragazza, e lo ero, e invece ero già vecchissima. C’era un divenire ed era eccitante, tentavo di ricordare, convincendomi che non fosse troppo tardi. Le compagne di liceo avevano deciso la città universitaria dove perfezionare gli studi, era l’ultimo anno. Io non avevo deciso. Io mi ero fermata. Non c’era un bivio, non c’era molto da fare.

La roba falciava un campo di destituiti, non era ribellione, non era una caduta colta, non si leggevano i poeti della beat.

Dinanzi avevo il medesimo affresco cascante. La piazza con i rovi, le bacche di ginepro brucianti sull’asfalto nel turgore di una poltiglia. Gli oleandri irti, le siepi ingiallite. Figuri circospetti sembravano sbucati d’improvviso dalle segrete infernali. L’aria tumida, quasi alabastrina, confondeva i contorni, che vibravano nella prospettiva allucinata di certi pomeriggi caldi, opprimenti.

Mi sembrava del tutto inutile la mia vanità, la bellezza, dettagli smarriti, d’un tratto. Dovevo occuparmi che non crollasse l’universo, il suo intrinseco equilibro, che stringe destini su destini, scegliendo nel caso un capo carovaniere. Ero oppressa, senz’altro, condizione che imparai a governare negli anni.

Anni biblici, di privazione, scolpiti dal tormento, da una desolazione umana, morale. Non trovo altro da accusare. La desolazione. La luce opalescente. Le bacche di ginepro, radunate in una poltiglia sull’asfalto. L’afrore di una carogna, ai piedi di un cassonetto. La siringa sporca di sangue conficcata tra le crepe del giardinetto della piazza. La tredicenne stesa di sbieco, all’ombra di un salice. Al centro della piazza. La piazza cimitero. Io.

Ecco, io ero la giovinetta con un rossetto color mirtillo sulle labbra.

Mi avrebbe consumato piano piano la mia ossessione prima di tutto. Semplicemente volevo capire, come si fa a morire con un quartino tagliato male. Cos’è il flash? Sale fino al cervello. Boom. E tu sei in pace con il mondo, dicono i tossici. Lo dicono. E sono talmente in pace che amano chiunque. Smettono di ribellarsi all’irrevocabilità che a certuni tocca più di altri; il senso malfatto che regola sentimenti inferiori.

Ero pudica ancora, stordita dalle fattezze di una volgarità indigena, la sceglievo, la frequentavo. La ragazzina con un rossetto color mirtillo, i jeans troppo larghi in vita. Il turibolo di insignificanza mi fumava accanto, un po’ come dire: cosa accidenti vuoi fare della tua vita?

Ed era il fumo di un narghilè.

Qualche anno dopo, ero l’ombra di me stessa. Disabituata oramai del tutto alla grazia, alla gentilezza. L’incapacità dell’altro era diventato un parametro sotto cui condurre discretamente una natura vivace. La mia natura doveva essere contenuta per rispettare il parametro. Il mondo apparteneva ai morti, a quelli fatti di ero, voglio dire. I vivi procedevano sull’altra riva, un affare da privilegiati essere vivi. E le ragazze? Figure leggendarie, al più. Frequentavano feste esclusive. Un tempo anche io, e non ricordavo, o ricordavo con sgomento, similmente al preludio del sogno che mi concedevo prima di dormire, un tempo. Allora nel preludio ero molto bella, vestita di bianco, ascoltavo una canzone di matrice pop britannico, Save a prayer.

Nel preludio passeggiavo in riva al mare, la spiaggia era bianca, perlacea.

Sapete, c’è l’inizio di ogni fine. Non torna più niente. E’ una salita che libera il piccolo peso ad ogni chilometro. In cima arrivi sguarnita, nuda. Non hai sherpa a sussiego, eccetto i tuoi rimpianti.

Il rimpianto è uno di quei sentimenti secondari che coltivano le anime nobili nelle intenzioni.

Ancora palpitavo, può darsi, al pensiero di ciò che poteva accadere, erano rapidissimi barbagli, in cui l’idea sottesa della morte, era quel che vedevo d’intorno, non soggiaceva a risorse migliori, ma non riusciva a dominare del tutto. Le impressioni modificate dall’idea sottesa di morte erano i colori di una tavolozza in cui sarebbero spariti giubili come il vermiglione o un verde veronese.

L’impressione della vita sulla vita scolorava, priva persino degli eccessi di una caricatura.

Nemmeno certi eccessi che leggevo nei romanzi di Miller, il deprecabile può sollevarsi a una speciosità aristocratica. Miller e i suoi orinatoi, le bettole, le sue puttane. Mai tanta letteratura innalzata si nutrì di sterco come in Miller. Le sue pietose puttane.

Leda. La magnifica africana. I sodali di bevute, di oscenità e ménage impronunciabili. Ma in fondo è già aver visto, concluso, il cattivo odore di cui si impregna la nostra formidabile capacità di fallire.

L’egregio disprezzo galleggiarvi sopra. Il mio lo era, fraintendibile, generosità, tendenza anomala allo stoicismo. Lo stoicismo è una forma di superbia, lo dice Pascal.

Chi volevo salvare Christiane?

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

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