La storia di un’ossessione – Tutto è compiuto

Gropiusstdat era il magistero da cui procedevo, attraverso cui – sbarra opaca e di sbieco su cui sbattevano tutte le possibilità di sperare – avrei applicato la mia vita. Sotto il grigiore avverso sui tetti dei palazzi tirati su come una riga alla fine o nel bel mezzo di un destino, si sarebbe compiuta la mia stessa esistenza, lacerata, brani sfilacciati che non avrei avuto cura di acconciare per rivederne affranta il disegno malvezzo. Il sintetismo, in fondo le mie vicende, tolta una rilettura densa di ardore e di un qualche segreto superiore alla amalgama dei giorni, si adunava al cospetto di sventure, succedute, una sopra l’altra. Avrei dovuto rincorrere per sempre l’identico ozioso coacervo di disfatte, per articolare la risposta inesatta intorno al traguardo piuttosto vago: la felicità o l’amore. La felicità o l’amore a patto di fendere la cruna dell’ago con una baldanza circense: ce la faremo, ce la faremo. O raggiungere l’una o l’altro. E nel balzellare tra i vari smisurati errori, pencolare come automi al servizio della casualità, nella consapevolezza che la precisa caduta morale dell’uomo non avrebbe risolto il quesito, al massimo avrebbe consegnato il bagliore su un dopo ulteriore quindi ultraterreno, nell’alveo di una salvezza, celata dalla criptografia umana, architettata dalle cosiddette cose del mondo.

Dovevo uscirne dai sette anni biblici, avvinta alla miseria del tossico e degli altri, negletti, ignoranti. Mi competevano nelle stanze decise anzitempo per me.

Perché chiedersi ancora la severità dello stesso tramato? Era ed è.

La sventurata o la vittoriosa?

Erano sette anni biblici, la cattività e il deserto. Le acque che si aprono come il costato di una bestia ferita, nella agonia inudibile. Cerco di consolarmi da me. Or che mi sembra che tutti i piani combacino per consumarsi, o meglio dissolversi vicinissimi alla fine.

E alla fine, affiorano le parole della santissima pietà: tutto è compiuto.

Ricordo un capodanno, i vent’anni così gravosi, mi lasciarono presto. Ero stanca, sempre, sfinita, magrissima, invisibile. Come se avessi mille anni e tutti i secoli di guerre e sconfitte da computare in olocausti, vari ed eventuali, una caparra sulle virtù future, che comunque non avrei acquisito. Non una medaglia al petto che mi facesse compiacere. Ero l’estinta. Non ero una principessa appena qualche abbaglio prima? La più stronza e la più graziosa, quella che snobbava i coetanei liceali, imbranati, senza calamità da proporle?

Senza un vizio. Senza che capissero la differenza tra un quartino di sugar e uno tagliato con la stricnina. Io ero preparata allo slang dei perduti. Perduti balbuzienti incapaci di usare un congiuntivo.

Ricordo un capodanno. Il tossico misurava la propria socialità con il gruppo di sodali, eroinomani dal viso butterato. Uomini o donne da non poter distinguere, l’età, la provenienza. Belli, brutti. Vecchi, bambini, giovani. Piuttosto lemuri, spiriti malauguranti. Sedevano al tavolo di una casa popolare. Un cucinotto illuminato da una luce bianca, spettrale. Ogni tanto qualcuno si alzava e spariva in bagno. Tornava dal suo lenocinio, il sangue ancora fresco sul bordo del polsino della camicia, la camicia appena rivoltata sulle maniche, da una parte.

Farsi. Farsi di eroina. Il mio sguardo inchiodava il lenocinio, un tormento che risultava inesplicabile, malgrado avessi visto. L’eroina. La lusinga. Malgrado avessi letto il diario di Christiane Felscherinow e fossi entrata nel destino, nel mio, una latebra dalle cavità molteplici e ardite, caleidoscopi terrei, a cui consegnare bandoli di innocenza o di curiosità. Sapete distinguere l’una dall’altra? Come la felicità dall’amore? Come la caduta dal rosario di un riscattato?

Il tossico in quel capodanno era il figuro sinistro che ritrovava una ciurma di trapassati con cui condividere il rito antico. Il passaggio, la condivisione di una morte fasulla. Il lungo flash, come il titolo di un romanzo che lessi subito dopo aver letto il diario di Christiane.

Il capodanno era una notte buia, fuori i petardi di quella miseria nera accendevano ilarità slabbrate, volgarità talmente feroci da desiderare la morte vera e non un qualsiasi sinonimo rimediato in sua vece. Non l’eroina, non il sesso acerbo, non il mio vagabondaggio, una fuga mai confessata, una fuga dal nido che non ricordavo, una tana, una placenta. Tornarvi, senza pagarne il pedaggio, l’esclusa.

O ancora: l’estinta.

Ma io cercavo l’amore. Si nascondeva, dietro nuvole gravose, sotto i cieli di un quartiere berlinese dove non ero mai stata, al riparo dalla sferza della mia terra, sotto il tremore del piumaggio del fenicottero rosa, placido sull’isolotto al centro dei flutti sulla linea dei calanchi; si nascondeva sotto l’ombra di un’agave gigantesca.

Nel mio cimitero, la chiamavo piazza. Consumavo la grazia ricevuta, la giovinezza, la bellezza, l’audacia perché io riuscissi a guardare oltre l’orizzonte striminzito, come fanno tutte le ragazze.

Cercavo l’amore.

© Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

Tutti i diritti riservati, trattati da Emmeeerre Letterature