Tu non mi hai dato un bacio

di Antonio Di Grado

Non sembri strano, se per parlare d’amore – e d’un amore ben fisico e terreno, fatto di baci e carezze, di corpi che si sfiorano struggendosi di desiderio – ricorro a un testo “religioso”, ma sterilizzato dalle letture confessionali. Parlo del vangelo di Luca: 7, 36-50.

Cristo è a casa del fariseo. La polemica evangelica contro i farisei è tanto accorata e virulenta da farci pensare, a torto, che costoro fossero torvi custodi della legge o ipocriti baciapile. E invece erano l’ala più avanzata e riformatrice dell’ebraismo, i meno attaccati al fondamentalismo della Legge, i più aperti a una sua revisione alla luce della sensibilità e delle emergenze del presente.

Ma allora perché Gesù li additava al pubblico ludibrio, perché non se la prendeva piuttosto coi vecchi lupi del Sinedrio, coi conservatori arcigni e occhiuti, con gli inquisitori asserviti a questo o quel potere terreno? Per lo stesso motivo per cui frequentava la feccia, i dannati della società d’allora, le prostitute e i ladri, i collaborazionisti ma anche i terroristi, insomma il vasto e variegato popolo dei peccatori. Per lo stesso motivo per cui forse disdegnerebbe, oggi, le nostre opinioni politically correct e le nostre dimore sobriamente agiate, la nostra cultura di ampie ma caute vedute e la nostra condotta borghese, per accompagnarsi ai nuovi dannati.

Chi siano queste creature ce l’ha detto fra gli altri un cineasta, Lars von Trier, intanto riscrivendo la Passione di Cristo (almeno io leggo così il suo Le onde del destino) al femminile, che è già una rivoluzione, ma tutt’altro che estranea al messaggio evangelico, e poi incarnandola in una donna candidissima e perduta, prostituta per amore e anzi vittima sacrificale, in perpetuo e caparbio colloquio col suo Dio ma emarginata dalla sua chiesa, assunta proprio al culmine del peccato e, nel peccato, del sacrificio sublime di sé, a un cielo squillante d’invisibili campane.

Come a dire: l’Evangelo secondo Maddalena. E l’Evangelo oggi, quando – come allora – non bastano la coscienza a posto e le idee corrette dei farisei a capire e a vivere tutto il dolore e tutto l’amore che sono racchiusi nel mistero dell’incarnazione. E addirittura la correttezza intellettuale e morale del benpensante si rivela un ostacolo, anzi una vera e propria antitesi, rispetto al rivoluzionario paradosso proposto da Gesù e negletto dalle chiese che dicono di celebrarlo: «i suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato; ma colui a cui poco è perdonato, poco ama».

Così dice Gesù della peccatrice che si è introdotta nel banchetto per cospargergli i piedi di balsamo e di lacrime. Il fariseo lo ha accolto con compassata cortesia. Ecco invece la donna pubblica che fa irruzione in quella quiete e in quel decoro scombussolandoli coi suoi gesti estremi, inconsulti: passi il fatto di lavare i piedi, ch’era una cerimonia d’accoglienza allora consueta, ma lavarli con le lacrime e asciugarli coi capelli, e poi coprirli di baci! Indecoroso, quel gesto, com’è indecorosa la passione d’amo­re, che vive e si alimenta di gesti estremi e inconsulti, di esaltazioni e di strazi improvvisi ed eclatanti; e tanto più lo è l’amore di queste creature umiliate e offese, escluse dal mondo di regole civili e di sterili forme che noi abitiamo. Ma Gesù non se ne adonta, anzi si lascia amare e onorare in quel modo scomposto e sincero provandone piacere. Sì, piacere: il termine, dirà qualcuno, poco si addice al Signore; e perché non avrebbe potuto provare, Lui, così come il supplizio del dolore, anche il diletto gioioso e puro che promana da una dichiarazione o da un gesto d’amore, e perfino dal contatto fisico?

Gesù mangia e beve, Gesù sorride, Gesù si adira, Gesù è compiutamente uomo. E al fariseo Simone rivolge parole indimenticabili, bellissime, in questo passo di Luca che è uno di quelli che nei Vangeli meglio mettono in luce la sua umanità: «Io sono entrato in casa tua, e tu non mi hai dato dell’acqua per i piedi; ma lei mi ha rigato i piedi di lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; ma lei, da quando sono entrato, non ha smesso di baciarmi i piedi».

È il caso di ripassare in mente, di far vibrare nel cuore queste parole candide, eppure palpitanti, struggenti: «tu non mi hai dato un bacio»… Gesù soffre se gli manca il bacio, di benvenuto e di amicizia, di chi lo ha ospitato; arriva a rimproverarlo, a vincere il pudore di cui questi rapporti, e questi gesti, solitamente si ammantano, a reagire con parole che oscillano fra l’affetto deluso da una parte, e con esso il bisogno frustrato della manifestazione fisica, tattile, palpabile di quell’affetto, e dall’altra lo sdegno, tanto più forte perché dettato dall’appas­sionata difesa di un amore più grande, quello muto e scarmigliato, quasi animale, smisuratamente fisico e tattile, della peccatrice.

È quella dichiarazione muta ed estrema, tutta affidata a gesti di slancio impetuoso e di appassionata sottomissione, che Gesù definisce “fede” in contrasto con la compunta e avara, corretta e colta religiosità dei farisei: «La tua fede ti ha salvata». Colui che si è immolato con un gesto altrettanto estremo e appassionato di incondizionata mortificazione, ha bisogno di noi, ha bisogno di amore. Ce lo chiede, lo mendica: «Tu non mi hai dato un bacio». L’Altissimo che abdica alla sua onnipotenza per farsi sulla croce Dio della debolezza, dell’impotenza, dell’agonia, ha sposato a tal punto e fino allo strazio del corpo e alla sconfitta della verità la nostra condizione, da poterci chiedere un abbandono altrettanto incondizionato. Con la stessa schiettezza disarmata e disarmante, chiederà ai suoi discepoli, sulla soglia del suo destino di patimento e di solitudine: «Non potete vegliare con me un’ora?».

Egli chiede ai suoi seguaci di patire con lui, di vivere il suo stesso terrore per la solitudine in cui si consumerà il suo strazio, di vincerlo mediante le parole e i gesti appassionati e impudichi della confidenza e dell’affetto: quanta carnale verità acquista, allora, il suo ripetuto invito ad amare! Mica con la cortesia, mica con l’etica – farisaica o, diremmo oggi, laica – del virtuoso operare, ma con l’abbandono della fede, vissuta nella pienezza della vita, anima e corpo, sensi e idee, nervi e labbra, che gli rifiutammo col bacio di cui aveva desiderio e bisogno.

 

Note sull’autore

Antonio Di Grado

Antonio Di Grado

Antonio Di Grado è professore ordinario di Letteratura italiana nell’Università di Catania. Da Leonardo Sciascia fu designato direttore scientifico della Fondazione intitolata allo scrittore dopo la sua scomparsa. È stato anche assessore alla cultura del Comune di Catania e presidente del Teatro Stabile della stessa città. Ha pubblicato numerosi volumi su autori della letteratura italiana dalle origini ad oggi. Tra gli ultimi: Giuda l’oscuro. Letteratura e tradimento; L’ombra dell’eroe. Garibaldi nel romanzo italiano; Un cruciverba italo-franco-belga: Sciascia, Bernanos, Simenon; Chi apre chiude. Dispacci e cimeli arenati nel web; Anarchia come romanzo e come fede.