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Per un’idea di scrittura

Se non scrivi tutti i giorni, non sei uno scrittore.

di Vanni Santoni

Quando Veronica Tomassini, autrice che conoscevo per il bel Sangue di cane, mi ha chiesto un contributo per il suo blog, esso era ancora poco più che un nudo scheletro wordpress (in realtà non è passato molto tempo da quel giorno, ma la notazione mi viene inevitabile, vedendo quanto già ricco di contenuti e interventi esso sia oggi): quando lo aprii per vedere in che spazio mi si volesse convocare, c’era in bella vista, oltre che alla foto dell’autrice nell’header, un pezzo di Matteo B. Bianchi intitolato “cinque cose che direi a un esordiente”. Un tema per me di grande interesse, e dal quale, dunque, ripartirò: sarà perché ho cominciato tardi a scrivere, e non avendo coltivato il sogno in giovane età non gli avevo preso le misure; sarà perché questo mio cominciare avveniva in una città, ai tempi, pressoché sprovvista di scena letteraria, al di fuori di qualche scrittore isolato, che non conoscevo, e della rivista autoprodotta alla quale mi unii; sarà perché non avendo santi in paradiso (anzi, non conoscendo proprio una segaccia nessuno) mi sono fatto tutto l’“iter”: autore di racconti in una rivista ciclostilata dagli autori medesimi e distribuita in centri sociali e facoltà, blogger su Splinder, persona che spera di essere selezionata nel “laboratorio esordienti” curato ai tempi da Matteo B. Bianchi su Linus, vincitore di un concorso-truffa che non mi diede la pubblicazione promessa in premio, vincitore di un concorso onesto che mi permise il debutto con un editore minuscolo, agonia e morte dell’editore minuscolo, debutto su un blog letterario “importante”, rifiuti da parte di svariati editori grandi, medi e piccoli, partecipazione al Premio Calvino, blogger su wordpress, esordio con un grande editore, primi soldi guadagnati con i libri (ecco un landmark vero, direbbe King), partecipazione a tornei letterari, rifiuto di altri libri, sviluppo di progetti paralleli, consolidamento, pubblicazione di altri libri, collaborazioni a quotidiani, traduzioni, letture, curatele, editing informali, editing formali, fino al fantomatico contratto per più libri, fattispecie che avevo ritenuto certamente mitologica durante l’intero percorso; e tuttavia sempre, su tutto, un’angoscia profonda, una sensazione di inadeguatezza nei confronti dei giganti della letteratura che – per quanto ovvia e inevitabile – ti flagella ogni mattino, e ogni notte, trasfigurata in spettri in redingote, ti sussurra all’orecchio: niente, non sei niente.
Dunque sì. Negli ultimi otto anni ho cercato di diventare uno scrittore. Ma sono così vicini i giorni dei miei primi, scombinati testi, e così lontani da me gli autori che prendo a modello, da sentirmi ancora, per quasi ogni verso, un esordiente. Ecco perché la questione mi interessa. Vi è però una differenza capitale. Come in certe fantasie universitarie, nelle quali uno vagheggia di poter “rigiocare” il liceo con le competenze erotiche acquisite dopo i vent’anni, di certo, se mi ritrovassi oggi a essere un ventiseienne con qualche idea e un sacco di letture alle spalle, non commetterei gli stessi errori. Ma non mi sento neanche di mettere chicchessia in guardia contro tali errori, che, insomma, pure loro sono formativi – lo dice del resto il più trito dei proverbi. C’è una cosa sola che vorrei dire a un esordiente: è, credo, la più importante (insieme ai cinque punti del buon M.B.B., e in particolare il numero 1, che era: leggi) e l’ho capita solo dopo un paio d’anni di lavoro: scrivi. Mi dirai: e ‘sti cazzi? E io risponderò di nuovo: scrivi. Tutti i giorni. Sempre. Non pensare alla pubblicazione; non aspettare l’ispirazione; pensa a scrivere. Coltiva più progetti in contemporanea: se ne hai sempre un paio aperti, sarà più facile scrivere tutti i giorni. Scrivi. Apri un blog: non per la visibilità ma perché ti forzerà a produrre qualcosa ogni giorno. Accetta qualunque collaborazione, se prevede di scrivere: meglio se pagata, ma prima che arrivino quelle pagate accetta anche quelle gratuite. E proprio perché la letteratura paga poco, e all’inizio non paga proprio, dovrai sacrificarle tutto il tempo libero dal lavoro. Ti rimarrà solo lei. Ma scrivi. Se non scrivi tutti i giorni, non sei uno scrittore. Se non scrivi tutti i giorni fino a logorarti, non sei uno scrittore. Se non scrivi tutti i giorni fino a mutare personalità (e in peggio, si capisce: notti insonni, idiosincrasie, disfunzioni relazionali, fissazioni, introversione oppure sindrome istrionica oppure entrambe, feticismo, superstizione, schematismo ossessivo oppure disposofobia, eccesso di sangue o collera o flemma o malinconia), non sei uno scrittore. E il brutto è che, anche se lo fai, non è detto che tu sia uno scrittore. E peggio ancora è il fatto che – se prendi sul serio, come immagino, la letteratura – anche quando avrai messo il tuo nome accanto a quei bei marchi storici, i tuoi compagni di catalogo, quelli antichi e grandi, ti diranno: non ci siamo, non ci siamo per niente. Il bello però – c’è anche un lato bello, sì – è che l’unica risposta da dare, se ancora “non ci sei”, è una sola, e semplice, e sempre la stessa: più ore, più ore di scrittura.

Vanni_Santoni_media

Vanni Santoni (1978) ha pubblicato Personaggi precari (RGB 2007), Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008), L’ascensione di Roberto Baggio (Mattioli 2011, con Matteo Salimbeni), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), Tutti i ragni (:duepunti 2012). È fondatore, con Gregorio Magini, del progetto SICScrittura Industriale Collettiva, il cui romanzo storico In territorio nemico sarà pubblicato questa primavera da minimum fax.
Scrive sulle pagine toscane del Corriere della Sera, su Orwell e sui principali blog letterari italiani. Dirige la narrativa di Tunué. Il suo prossimo romanzo uscirà per Mondadori a fine 2013.

Le contadine di Jasna Gora

a P.

“(…)Bogdan finì in strada. Il tale lo aveva avvertito: “Qui non si entra ubriachi, siamo intesi?”. Bogdan aveva promesso al tale di tornare entro le ventuno. “A io ti dico che no bevi” promise al tale. Il tale faceva il custode. Il centro di accoglienza della provincia di P. era pulito, le stanze potevano dimostrare un ordine rassicurante in qualsiasi momento. Il tale era zelante e imponeva con fermezza l’osservanza del vademecum del buon pellegrino. Bogdan non era un pellegrino, era uno che beveva, che non raccontava mai del figlio in Polonia, dei vent’anni di quel figlio che aveva dimenticato oltre l’alba, oltre la sponda del Danubio. Bogdan non aveva dimenticato invece. Nessuno lo avrebbe creduto. Bogdan si dava da fare, sapeva evitare quando era l’ora: le risse, le coltellate in un binario cieco. Bogdan sapeva vivere, non temeva le feritoie di certi insolenti ricordi. Bogdan aveva una madre, bella come le contadine di Jasna Gora. Bogdan adesso pensava meno alla madre. Il tale lo spinse giù dalle scale, “via rompicoglioni di polacchi!” berciò. Era un tale che sentiva il peso dell’impegno, la responsabilità civica e tutto il resto. Faceva il custode. Bogdan aveva bevuto una birra, giurò. Aveva incontrato un rumeno di Valea Seaca, certe volte faceva pure bene scambiare due parole. Il centro di accoglienza sbarrava le porte alle ore ventuno, c’era scritto nella bacheca della portineria. In guardiola il tale dormiva. Però intercettò Bogdan. Bogdan puzzava. “Io no bevi, amigo”. No, il tale scuoteva il capo con veemenza. In strada. “Hai bevuto” gli urlò da sù il tale, “rompicoglioni di un polacco, ti avevo avvertito” berciava. La provincia di P. era parecchio fredda. Bogdan notò un ponticello, curvo, di legno, dove vide aggrapparsi le luci delle fabbriche e dei lampioni, sotto scorreva un modesto rio. Bogdan ebbe desiderio di una strana vita,  allora immaginò se stesso, immaginò sentir vibrare dal ponte la sua potenza, la sua prestanza di polacco abituato alla fatica e al dolore. Bogdan urlò dal ponte: “Ja cie’ kocham”. Magoska. Gli venne in mente lei. Scura, non bionda, non bella come le contadine di Jasna Gora. “Posso amarti Magoska” le giurò una sera d’estate. Magoska strinse gli occhi duri. Non pianse. Magoska non piangeva mai. “Non è facile” disse lei. “Non è facile amarmi, domani saremo già divisi”. Magoska indossava una gonna a quadri, larga, che le arrivava sotto al ginocchio. Sognava i dollari, ma partiva per l’Italia, sognava i jeans, non quelli che la madre trasportava dalla Turchia. Sognò qualcosa Magoska che la convinse ad un sorriso, ad uno strano sorriso.

Bogdan prese il primo treno e saltò su. Ed era Milano. Milano gli diede da pensare di nuovo, mentre la città si avvicinava, i neon freddi inforcavano la sua noia. La sua noia pativa ogni separazione. Milano gli diede da pensare ancora. La sua prima moglie viveva a Milano, si era sposata ad un italiano di Brescia. Il figlio aveva vent’anni. Bogdan aveva dimenticato di patire ogni separazione. Era la sua noia a ricordargli di patire ogni separazione. Bevve cento grammi di vodka.

Magoska leggeva l’ultimo capitolo di un libro di Marek Hlasko. Lo aveva studiato al primo anno di università. Hlasko era la dissidenza, la rivoluzione, il colpo di reni.  Magoska aveva un’idea molto russa dei suoi connazionali. I polacchi sapevano essere parassiti all’occorrenza. I polacchi parlavano ancora bene del comunismo. Bogdan invece no. Bogdan di quella sera d’estate, che le giurò “ti posso amare, Magoska”. Bogdan conosceva Solidarnosc, a suo modo, anche se era molto giovane. “On natchniony i młody był/ ich nie policzyłby nikt/ On dodawał pieśnią sił/ że blisko już św”. Cantava Mury, Mury era la canzone della rivolta, della piazza, della gente , di una recondita vittoria. Cantava stringendo i pugni, e poi imprecava: “cholera!”. Magoska si vergognava di questa sua idea molto russa dei polacchi. Leggeva Hlasko. “Cosa sarei senza gli altri? Senza la vostra paura e la vostra eterna miseria?” esortava un certo personaggio di Hlasko. Cosa sarei Bogdan io senza di te?

L’uomo in uniforme guardava Magoska. Era un finanziere. Milano stazione centrale ore ventidue, ripeté come un automa. Un terribile automa, senza carne, senza cuore. Non ci incontreremo Bogdan. Magoska feriva la sua pelle scura, non bianca, non morbida. Magoska non era bella, non per tutti, e feriva la sua pelle con una punta di penna per la china. Una punta secca, morta, come ogni anelito, ogni vita trascorsa, ogni promessa.

C’era una distesa di ribes  che circondava la sua casa in Polonia. La madre distillava ogni anno, e ogni anno la grappa era buona.  Dal corridoio si udivano voci e concitazioni. Udì la voce di un uomo in special modo. “Amigo, a io no bevi, prego lasci me”. Magoska chiuse le pagine di Hlasko. Maledetto.

Bogdan pregava il controllore: “No, amigo, prego, lasci me”. Altre voci. Milano esercitava la falsità di ogni promessa. Magoska corse fuori in corridoio, individuando appena le spalle dell’uomo un po’ curvo, un po’ pietoso. Bogdan non fece in tempo  a voltarsi”.

 

Copyright © Veronica Tomassini. Tutti i  diritti riservati trattati da Agenzia Letteraria Internazionale,  Milano

vera scarp de tenis

il racconto è uscito su Scarp de Tenis nel dicembre 2011

Spesso per raccontare, bisogna andare e poi ritornare.

                                                             di Mario Desiati

Cara Veronica,

rispondo alla tua sollecitazione con una riflessione che nasce da una polemica politica e un paio di letture dell’ultimissimo periodo. Questo pezzo esce oggi in una versione ridotta su Repubblica Bari.

Una delle mie ossessioni è l’emigrazione, dopo le andate e i ritorni, spesso mi sento punto sul vivo quando ascolto le storie delle origini, delle fughe, ma anche delle improvvise conversioni a U. Voglio ascoltare, rubare, assorbire le esperienze degli altri perché la nostra società sta mutando, e quando dico “nostra società” parlo della comunitas meridionale, un tempo luogo di emigrazione, oggi invece terra di un’ondata migratoria dai tratti inediti, che per comodità potremmo chiamare de locazione o pendolarismo.

Si può parlare della propria terra vivendoci fuori?

Il tema torna alla ribalta in questi giorni dopo che il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, se l’è presa con Roberto Saviano reo di averlo criticato. L’argomento di De Magistris, in sintesi, è che per parlare di una realtà, bisogna viverci 365 giorni l‘anno. Questo modo di ragionare è molto frequente, e come vediamo anche alte istituzioni e magistrati scafati possono incorrere in semplificazioni. La popolazione dei ‘fuorisede’ è aumentata a livelli record negli ultimi anni ed è parte integrante del sistema economico e sociale meridionale come dimostrano alcuni dati di fatto.

Come definire chi lavora a Roma, ma risiede in Sicilia, paga le tasse in Sicilia, vota in Sicilia, si cura in Sicilia, ama in Sicilia, investe in Sicilia, ma ci vive lontano?

Ebbene questo aspetto dell’emigrazione che mi riguarda e riguarda molti miei conterranei, è uno dei temi centrali di questi anni. Sono passati due lustri da quando è stato rilevato il ritorno massiccio dell’emigrazione; un’emigrazione diversa, in cui non c’è un vero sradicamento. Se negli ultimi vent’anni sono emigrati duemilioni e mezzo di meridionali verso il nord, molti sono i fuorisede, ossia coloro che non hanno cambiato residenza, ma vivono e lavorano lontani dal loro paese d’origine. Lo Svimez dice che nel 2011 i pendolari di lungo raggio da Sud a Nord sono stati quasi centoquarantamila, seimila in più rispetto al 2010. Il 4,3% in più. Questi pendolari di lunga distanza sono prevalentemente maschi, giovani, single o figli che vivono ancora in famiglia, dipendenti a termine e collaboratori, soprattutto impiegati full-time nel settore industriale. Di questi centoquarantamila, trentanove mila, sono laureati.

Nello specchio che riflette questi dati, si vede l’immagine di chi vive con inquietudine la sua terra per il lavoro, anche o per ragioni esistenziali (che possono essere umane, sociali, o anche sentimentali).

Ma chi va via, mantiene una parte del suo cuore nel proprio paese, vive in città e luoghi in cui non ha nessun morto da piangere come direbbe il Benassia di Di Consoli.

Ho letto e amato in questi mesi due scrittori lucani, Gaetano Cappelli e appunto Andrea Di Consoli, hanno raccontato di due sradicamenti nei modi opposti, ma con eguale efficacia.

Nel Romanzo irresistibile della mia vita vera (Marsilio), Gaetano Cappelli s’inventa la figura di un artista perdutamente innamorato della sua prima vecchia fiamma che diventa scrittore solo per poterla conquistare. Giulio Guazzo lascia il paese e va a vivere a Roma dove entra nel viscido mondo delle patrie lettere. Gli accade un po’ di tutto e nonostante sia sull’orlo del Nobel, universalmente riconosciuto, ciò che gli resta più a cuore sono le beghe del suo paese.

Andrea Di Consoli affronta un altro aspetto, e racconta, nel suo La Collera (Rizzoli), l’andata e un ritorno. Soprattutto il ritorno di chi è stato fuori, ed è andato via. Pasquale Benassìa gioca la sua partita non con il destino, ma con il coraggio, perché lui a Torino non va per evolversi da contadino a operaio “da scimmia a scimpanzé o da mulo ad asino”, ma da contadino a pensatore, filosofo, sacerdote della verità.

Il ritorno a casa è un bagno patetico, Benassìa affonda nei ricordi, nei risentimenti, assomiglia alle macchiette e i mitomani che tutti conosciamo “Ho fatto, ho conosciuto, so tutto io.” Quel sud che lui aveva fuggito perché “terra di mendicanti, miserabili e vigliacchi”, gli dà invece ultimi scampoli di vita, le donne sole  lo amano, i tramonti bodiniani da bestia macellata lo vegliano.

Cappelli ci fa sorridere e provare tenerezza, Di Consoli rabbia e commozione. Spesso per raccontare, bisogna andare e poi ritornare, come fanno i personaggi e gli autori di cui vi ho parlato, in barba alle polemiche e mesti ragionamenti politici su chi ha diritto di parlare, o scrivere, sulla terra in cui è nato. Scriveva Joan Didion che Devi scegliere i posti da cui non te ne vai. Non è facile quando sei costretto ad andartene.

desiati

Mario Desiati, dal 2008, è direttore editoriale della Fandango Libri. Scrittore definito “tra i più influenti” della sua generazione, editor, talent scout. Poeta, nelle antologie “I poeti di vent’anni” (Stampa 2000) e “Nuova poesia italiana” (Mondadori 2004). Esordisce nella narrativa con  “Neppure quando è notte” (Pequod). Memorabili i romanzi: “Vita precaria e amore eterno” (Mondadori, 2006); “Il paese delle spose infelici” (Mondadori, 2008), da cui ne è stato tratto l’omonimo film diretto da Pippo Mezzapesa; “Ternitti” (Mondadori, 2011), con cui entra nella cinquina del Premio Strega.

Osservare lo scrittore che scrive

                                                      di Andrea Pomella

In vita mia ho conosciuto molti scrittori. Con loro mi sono seduto a prendere un caffè, li ho intervistati, li ho ascoltati durante le conferenze e le presentazioni dei loro libri, con loro ho visitato nuove città, ho parlato al telefono e ho scambiato giudizi sulle cose del mondo. Li ho visti fare mille cose. Mille, tranne una: non ho mai visto uno scrittore scrivere.

Intendo dire che non ne ho mai sorpreso uno nell’atto esemplare della sua arte, ossia nel momento di massima concentrazione in cui si compie il suo mandato nel mondo. Se penso agli scrittori che conosco riesco a immaginarli in situazioni di vita normale – mentre scendono dalla macchina, mentre fanno la fila alla posta, mentre fumano una sigaretta in balcone – ma non riesco a immaginarli mentre lavorano alle loro scritture. Questo atto dev’essere una cosa tanto intima e banale da farlo assomigliare allo stare chiusi in bagno a sbrigare le proprie faccende fisiologiche.

Un’omissione di questo genere è un fatto comune, diciamo pure un tratto distintivo dell’arte della scrittura. È vero infatti che le cineteche sono piene di musicisti ripresi mentre suonano, di pittori filmati mentre dipingono, ma non c’è neppure l’ombra di scrittori ritratti mentre scrivono. E questo ha una sua logica. Perché il processo creativo di uno scrittore è tutto interiore, e la sua messa in pratica non ha niente di fantasmagorico come invece potrebbe avere lo spettacolo di un Jackson Pollock all’opera con uno dei suoi dripping. L’atto della scrittura, tanto più oggi, coincide con uno dei gesti più ordinari della contemporaneità: lo stare davanti a un computer (ma era altrettanto ordinario, nei tempi andati, battere i polpastrelli sui tasti di una macchina da scrivere o, prima ancora, impugnare una penna d’oca). Osservare uno scrittore che scrive quindi non ha nulla di diverso dal fissare un impiegato all’opera durante il suo turno di lavoro.

Per molto tempo ho conservato nel mio computer una foto famosa che mostra Hemingway seduto alla scrivania, in camicia e bermuda, mentre impugna una penna e scrive su un notes. Delle migliaia di foto che ritraggono Hemingway questa è una delle meno rappresentative, e il fatto è abbastanza singolare se si pensa che stiamo parlando di uno dei massimi romanzieri del Novecento. Voglio dire, hanno molto più valore testimoniale gli scatti che ritraggono “Papa Hemingway” mentre parla con un torero nell’arena, o mentre imbraccia un fucile a doppia canna, o mentre si atteggia davanti allo specchio in posa da pugile con tanto di guantoni, che un’immagine in cui lo scrittore viene sorpreso curvo sulle proprie carte, con la fronte increspata e il cipiglio assorto.

La verità è che le fotografie del genere “scrittore al tavolo da lavoro” non ci dicono pressoché nulla. In un certo senso l’arte della scrittura è smaccatamente anacronistica, antimoderna: non consente lo spettacolo del work in progress, prende forma sul piano dell’ineffabile, è semplice, puro, spettacolo del pensiero.

Andrea Pomella, scrittore, giornalista, pubblica con Laurana Editore il saggio “10 modi per  imparare a esseri poveri ma felici” (2012). A gennaio uscirà il suo romanzo “La misura del danno” per Fernandel. I suoi blog http://andreapomella.wordpress.com/ ; http://www.ilfattoquotidiano.it/blog/apomella/;

cinque cose che direi a un esordiente

 

di Matteo B. Bianchi

Veronica mi ha chiesto un contributo per questo blog, in particolare se avessi un consiglio da dare a un esordiente. Da anni, tramite una rivista e l’attività di editor presso diverse case editrici, ho a che fare con autori alle prime armi e basandomi sulla mia esperienza ho condensato in cinque punti quelli che mi sembrano i suggerimenti fondamentali.

Il tono brusco è voluto.

1 – IMPARA A LEGGERE

Non è una battuta, lo so che sai già leggere, ma se intendi dedicarti alla scrittura è bene che impari a dedicarti alla lettura con occhi diversi. Comincia a leggere non più (o non solo) per il piacere di farlo, ma con lo sguardo del ricercatore: perché questo incipit funziona bene? cosa mi è piaciuto di questo dialogo? perché l’autore ha voluto raccontarmi questi particolari a prima vista insignificanti sul suo protagonista? perché il romanzo è diviso in capitoli così brevi? Fatti delle domande, indaga il testo come se fosse un gioco di cui nessuno ti abbia spiegato le regole e toccasse a te scoprirle. Riprendi i tuoi due o tre racconti preferiti e ricavane lo schema che l’autore ha utilizzato. Poi copialo brutalmente, scrivi un tuo racconto ripercorrendo le stesse mosse. Alla fine il racconto lo butterai via, ma avrai imparato un sacco di cose.

Scrivere è come correre: richiede tecniche e allenamento.

Se credi che per produrre un romanzo basti mettersi alla tastiera e seguire la propria mirabolante ispirazione allora ciao, non ha senso che ti stia parlando.

2 – CERCA IL CONFRONTO

Scrivere è una delle attività più solitarie al mondo. E non c’è soluzione, né alternativa: puoi contare solo su te stesso e la tua passione.

Detto ciò, chiunque di noi (e a qualunque livello) ha bisogno di pareri sul proprio lavoro per comprendere se sia riuscito o meno. Prima (e sottolineo vivacemente prima) di aspirare alla pubblicazione, aspira al confronto. Fai leggere le tue cose e non alla ricerca di complimenti, ma di critiche. Fatti dire quello che non funziona e lavora per migliorarlo. E’ importante ottenere dei pareri oggettivi, non mediati dall’affetto di amici e fidanzate. Più estraneo è il lettore, più brutale e onesto sarà il suo parere. Esistono decine di riviste letterarie, in rete e cartacee, è importante (anzi, dal mio punto di vista, è necessario) conoscerle, frequentarle, leggerle. I redattori di queste riviste sono un interlocutore ideale e privilegiato: fatti leggere da chi, per passione, si occupa di narrativa giovane italiana.

Inoltre è importante anche il confronto simbolico: impara a leggere altri esordienti, vedi quello che l’editoria sta pubblicando in questo momento, se c’è già qualcuno che sta raccontando le storie che hai in mente tu, se il tuo punto di vista è davvero personale.

3 – NON SEI HEMINGWAY (O PERLOMENO, NON ANCORA)

Te lo dico subito, anche senza conoscerti, anche senza aver letto una riga di un tuo testo: non hai scritto un capolavoro. Ogni tanto ricevo mail (patetiche) del tenore di: “Ciao, ho scritto due racconti, ma prima di mandarteli in lettura vorrei sapere come posso depositarli per garantirmi che non vengano copiati e pubblicati da altri”. Punto primo, mi stai implicitamente dando del ladro, se prima di inviarmeli già temi che possa rubarteli. Punto secondo, hai scritto due racconti in vita tua e già pensi che siano opere tali che un professionista voglia pubblicarli a nome proprio? Complimenti per la modestia.

Per mia esperienza personale, i casi di plagio letterario sono rarissimi e quasi mai riguardano testi di esordienti (il caso più frequente è quello di coloro che inseriscono nel proprio libro pagine estratte da un libro altrui, spesso straniero e mai tradotto nel proprio paese). Stai tranquillo, il tuo genio è salvo. E comunque con una mail del genere hai solo fatto la figura dell’arrogante, non di colui che vuole consigli e critiche per migliorare.

4 – SBAGLIA

Non avere paura degli errori. Tutti noi abbiamo scritto stralci di romanzi orrendi, racconti che non andavano da nessuna parte, poesie indegne di essere chiamate tali: ma questi vergognosi tentativi almeno ci hanno fatto prendere dimestichezza con la scrittura e ci hanno aiutato a capire quali passi falsi evitare in futuro. Il problema non è sbagliare, ma non fare tesoro di queste cadute.

Quando ricevi pareri negativi, non offenderti. Anzi, impara ad ascoltare e a capire perché il tuo lavoro non ha funzionato. Le critiche, se sensate e precise, sono oro. Ti aiutano a capire la strada quando l’hai perduta. O, meglio, ti indicano la strada che devi ancora trovare.

5 – NON PAGARE

La regola aurea: non pagare MAI.

E’ davvero molto semplice: se ti chiedono dei soldi, ti stanno fregando. Punto.

Non ci sono se e non ci sono ma. Che sia un concorso letterario, un festival, una rivista, una piccola casa editrice, non esiste.

Anche su questo tema mi capita di ricevere mail imbarazzanti: “La casa editrice Questo&Quello mi ha chiesto dei soldi per pubblicare il mio romanzo, ma sono persone serie…”. Sì, credici.

Se decidi di andare con una escort sei liberissimo, però poi non venirmi a dire che lei l’ha fatto perché ti ama. Allo stesso modo, se paghi per essere pubblicato non cercare di farmi credere che il tuo testo sia valido e la casa editrice crede in te.

Chi ha fiducia nel tuo lavoro investe sulla tua pubblicazione.

Chi ti sta chiedendo un contributo economico lo fa per aumentare il  proprio fatturato.

Sono due posizioni assai diverse e se non lo capisci è perché non lo vuoi capire, preferisci raccontartela.

PS: Caso completamente differente è l’autopubblicazione: se io decido di investire per produrmi un ebook o un libro con stampa on demand, allora sono consapevole e in pieno controllo di quello che sto facendo. Nessun intermediario mi sta chiedendo dei soldi per fare la stessa cosa. E’ solo una mia scelta (non passare attraverso una casa editrice tradizionale): rischiosa, ma non deprecabile.

                                                   

Matteo B Bianchi ha pubblicato quattro romanzi (l’ultimo è “Apocalisse a domicilio”, Marsilio), è editor (tra i più importanti e ascoltati) presso la casa editrice Indiana ed è uno degli autori della trasmissione tv “Quelli che il calcio” (Rai Due). Il suo blog è: matteobblog.blogspot.com

A proposito di esordi: Giulio Mozzi

Giulio Mozzi, scrittore, consulente editoriale considerato tra i migliori, talent scout, editor. Lo abbiamo intervistato.

Mozzi, in cosa consiste esattamente il suo mestiere?

Io faccio il portinaio. C’è la Repubblica delle lettere, che è una specie di cittadella circondata di mura, di molte cerchie di mura. Io sono un portinaio della cerchia esterna: posso far passare o non far passare.

Come riconoscere un “vero scrittore” da uno che scrive semplicemente?

E’ un sentimento: come quando, parlando con Tizio, senti – con il corpo, prima ancora che con la tua intelligenza – che di Tizio ti puoi fidare. La cosa, ovviamente, non è molto razionalizzabile.

Cosa si sente di suggerire ai tanti aspiranti scrittori di Siracusa (sono tanti sa)?

Di parlarsi tra loro, innanzitutto. Quindi di cercarsi. Di chiacchierare molto. Di confrontarsi, e poi di litigare. Litigare è importante: aiuta a prendere coscienza di sé, a distinguersi, a definire i propri contorni e i propri limiti. La cosa si può fare in molti modi. Si può trovare un locale di riferimento, dove possibilmente si mangi e si beva bene, e si possa occupare per ore e ore un angolo o una saletta; si può fondare una rivista (niente di più facile, se si vuol farla in rete; niente di più difficile, se si vuol farla di carta – consiglierei la via difficile). Poi: se uno è un aspirante scrittore di Siracusa, e se pensa che l’essere di Siracusa sia importante per lui (per me è stato ed è importante essere di Padova), cerchi di conoscere la tradizione letteraria siracusana: da Elio Vittorini (obbligatorio) a Francesco Candelari (autore, come dice lui stesso, del “primo primo libro italiano di fantascienza con un farmacista come assoluto protagonista”: facoltativo). Non sono un sostenitore del localismo in letteratura. Tutt’altro. Ma non possiamo non notare come spesso i grandi scrittori abbiano concentrato la loro attenzione su un singolo luogo: la Salisburgo di Thomas Bernhard, la Pieve di Soligo di Andrea Zanzotto, la Vicenza di Vitaliano Trevisan.
Gli scrittori del Sud, in particolare campani e siciliani, sono da un po’ di tempo assai concupiti dalle case editrici. E questa è buona cosa.

Dove sta andando la letteratura?

Ma non lo so. Io sono di mestiere un cercatore: cammino con gli occhi rivolti a terra. Seguo delle tracce, a volte: in questi anni, ad esempio, seguo le tracce di quegli scrittori e quelle scrittrici che, senza abbandonare una lingua media, tentano di narrare l’interiorità, la vita del corpo. Quando son lì seduto sullo sgabello accanto alla porta che custodisco, e mi si presenta un testo, io non sto a pensare se il testo è o non è alla moda, lo leggo, finché il mio corpo mi dice se sto leggendo uno scrittore o no.

Il suo esordio è stato abbastanza anomalo, ce lo vuole raccontare?

«No, il mio esordio non è stato anomalo. Avevo scritto un racconto, uno solo. Scrivere quel racconto mi era stato utile, mi era servito a vivere meglio. Mi rendevo conto che se avevo potuto scrivere quel racconto era perché da alcuni libri letti avevo imparato delle cose. Da “Camere separate” di Tondelli avevo imparato che di certe cose si poteva parlare, e si poteva parlare con una lingua media. Da “Grande Raccordo” di Marco Lodoli avevo imparato una forma di racconto: una forma che, all’epoca, non ero capace di razionalizzare. Questo avveniva nel 1991. Nel 1988 avevo conosciuto Laura Pugno, e la nostra amicizia si concretava in una enorme quantità di lettere spedite e ricevute: da Laura, con Laura, nella corrispondenza con Laura, avevo imparato che cos’è davvero la scrittura: un modo di parlare con qualcuno. Avevo quindi voglia, nel 1991, di parlare con Pier Vittorio Tondelli e Marco Lodoli: se non altro per dir loro che i loro libri mi erano stati utili, per manifestare la mia gratitudine. Spedii il racconto il giorno in cui Tondelli morì. Lodoli lo ricevette e mi telefonò quindici giorni dopo chiedendomi di poterlo far leggere in giro. Poche settimane dopo avevo due offerte da due diversi editori. La cosa buffa è che io avevo in mente tutto fuorché fare un libro. E, dopo quel primo racconto, ne avevo scritto solo un altro mezzo. Qualche mese dopo consegnai nove racconti in tutto».

Ma come faceva a conoscere gli indirizzi di Tondelli e Lodoli?

«A Tondelli non spedii direttamente, bensì alla casa editrice Transeuropa – quella delle famose antologie “Under 25”. Di Marco Lodoli aveva l’indirizzo Stefano Dal Bianco: che con Mario Benedetti e Fernando Marchiori aveva avviato una rivista di poesia, “Scarto minimo”, della quale io – essendo allora pubblicista – ero per pura forma direttore responsabile. Stefano l’avevo conosciuto anni prima all’oratorio: abitavamo nella stessa parrocchia. E Stefano aveva l’indirizzo di Marco perché Marco era immischiato in un’altra rivista di poesia, “Prato pagano”, di Roma: e i giovanotti si parlavano da tempo. Fare una rivista (o un sito, o quello che vi pare) serve anche a questo: a trovare degli amici, dei compagni di strada».

I suoi scrittori di riferimento?

«Ma, non so mai rispondere a questa domanda. Ieri ho comperato una bella edizione commentata del Libro di Isaia, e adesso leggerò Isaia per un bel po’ di giorni. Se Isaia può andare, ho risposto. L’altro giorno ho finito di rileggere la “Gerusalemme liberata” del Tasso. Bello, tanto bello, anche se io resto più innamorato del “Furioso”. Uno dei primi veri libri che possedetti come libro mio, e che lessi e rilessi infinite volte, fu “Il mondo vivente nei mari italiani” di Enrico Tortonese – un grande biologo – e Lucia Rossi. Nel mio libro d’esordio c’era un racconto con protagonista Yanez, il “fratellino” di Sandokan. Protagonista di un altro racconto, in un altro libro, è Paperoga. Il romanzo che ho più spesso riletto è probabilmente “Dune”. Ho scoperto qualche settimana fa di sapere a memoria un bel po’ di poesie di Elliot»

(15/11/2011 La Sicilia)

Buona la prima

di Paolo Bianchi

Scrivere è abbastanza una maledizione. Non una maledizione completa, dico, perché mi suona falso e retorico. Dico abbastanza, perché c’è sempre e per tutti un momento  di furore contro se stessi per avere iniziato. Di solito poi lo si supera, ma un piccolo trauma rimane e si cicatrizza lentamente. Scrivere è una fatica, è un tarlo del cervello che non ti lascia in pace, ti corrode la serenità, ti toglie benessere. E se non è così, è troppo bello per essere vero e dunque non è vero. Scrivere è diverso che mettere insieme una sfilza di parole e come va va, buona la prima. La prima è in realtà l’ultima di innumerevoli scene che si sono susseguite alla velocità della luce, cioè del pensiero per un numero incalcolabile di volte. C’è da uscirne pazzi. La scrittura ti prosciuga, senza però inaridirti. Al contrario, provoca un rigoglio cerebrale pericoloso perché succhia energia come una foresta tropicale. Ti fa fiorire la mente e ti toglie le forze. A riprova, guardate Veronica come è smagrita e leggete la sua prosa così lussureggiante.

Note sull’autore

Paolo Bianchi, scrittore e giornalista, di sé dice: “scrive, scrive, scrive, e non se ne accorge nessuno. Perciò scrive sempre meno, da anni”. Ma affidatevi alla sua biografia ufficiale sul sito: http://www.pbianchi.it/