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Per un’idea di scrittura

Il bulgaro

(…)Ti venne il coraggio infine e lo andasti a trovare nel suo covo dimesso. Per te fu amore, per te fu la rivoluzione, fu l’impegno, l’ideologia che mancava nella lista delle cose da fare prima di diventare vecchia e stanca. Non hai esitato ad andargli dietro nel suo errare rilassato. Ti sei accovacciata col bulgaro dalla lingua forata davanti al centro commerciale appena inaugurato. Lui disegnava volti misericordiosi, tu sorridevi alle massaie e all’andirivieni borghese e alle monetine che titillavano leggiadramente. Eri la musa aurifera, portavi doni e piacere, ti diceva Walter, e ne eri compiaciuta. Brava ragazzina, facevi la rivoluzione gagliarda. Non erano i tempi, non era propizio osare. I tuoi amici ti lasciarono al gagno, era sconveniente tutto ciò, ed erano affari tuoi. La tua era una concupiscenza vile, non avevi chiuso del tutto con gli altri, i vincenti, i fortunati, che dolente consideravi.

Hai provato vergogna quando varcasti la porta della mensa di via del Crocifisso. In fila vedesti donne avvolte da veli – in seguito le chiamerai musulmane, mostrando una tiepida assennatezza – che ti parvero sbiadite pure se coperte da vesti gridellino. Aspettavano, a loro sarebbe stata concessa una magra scorta di latte e succo di pomodoro in scatola e forse una visita dal medico condotto. Tu facevi la coda con Walter. Che ti occorreva, occidentale? Avevi la rogna, tu? Walter l’aveva, forse. Avevi fame, tu, donnetta grima? I tempi non erano maturi. Eri una ragazzina. Walter era un segreto, era una sfida inutile. Stesa sulla fredda panca della stazione della città di studenti, udivi i treni sfrecciare e tu rabbrividivi  al sibilo lontano, era il mistero della vita che si rincorreva di borgo in borgo, la tentazione delle distanze che dilatavano gli affetti. Walter ti cedeva il suo maglione di lana grezza, ma il freddo lo sentivi ugualmente, era un gelo mortale, temevi il distacco, l’ideologia frantumava i suoi propositi zoppicanti. Non era rivoluzione. Ti amava il girovago, se ne accorse nello spazio di un mattino. Ostap che avrebbe fatto? Energico cosacco, incosciente, avresti sollevato la tua bella fra le braccia?

Walter lo fece. E ti portò in ospedale, in un borghese comunissimo ospedale. E tu che tossivi come una dannata e non ti curavi della spina nel petto. La testolina nuda, le guance smilze. Eri una giovinetta. Le infermiere lo tennero lontano il bulgaro dalla lingua forata. Non sta bene, ripetevano. La polmonite non ti portò via. Walter bagnò la copertina nel rimboccarti, piangeva il cane bastardo senza padrone, tu dormivi e non ti accorgesti del miracolo(…).

(L’attesa tratto dalla rivista Mono, Tunuè editore)

Copyright © Veronica Tomassini. Tutti i  diritti riservati trattati da Agenzia Letteraria Internazionale,  Milano

cinque libri da leggere secondo me

Sono i libri della mia formazione. Ce ne sarebbero molti altri da citare, ma bisognava fare una scelta.  Comincio con il neorealismo di Cesare Pavese ne Prima che il gallo canti, ripubblicato da Einaudi di recente. Io ho la versione Oscar Mondadori (molto datata) in cui ci sono entrambi i racconti lunghi (“Prima che il gallo canti” e “La casa in collina”). Perché Pavese, perché quel testo, è presto detto: per tornare alla letteratura, quella che racconta un tempo preciso; per leggere ed incocciare uno di quei casi (cito letteralmente Emilio Cecchi) in cui s’era cercato uno scrittore e si è trovato anche e soprattutto un uomo. Pavese perché nutriva le mie stesse aspirazioni, innocenza e fervore umano, questo era il suo dramma, la sua innocenza tradita, rivelata nelle vicende di un giovane dissidente a suo modo, un proscritto, negli anni della seconda grande guerra; Stefano, il protagonista, bardato di malinconia, nel suo confino, è struggente e perentorio, condannando così il genere umano ad una irreparabile solitudine.

Le ambizioni sbagliate

Le ambizioni sbagliate

Ancora neorealismo con Alberto Moravia de Le ambizioni sbagliate, rieditato nel 1963 da Bompiani. Quel che è in mio possesso è l’edizione Garzanti, invece, del 1974. Ho amato moltissimo Moravia,  ho amato moltissimo il personaggio femminile di questo romanzo, Andreina, capricciosa, voluttuosa, banale come certa borghesia che l’autore raccontava con impietoso, crudele disincanto. Un romanzo che ho letto e riletto parecchie volte nel tempo, dove ogni passione si traduce nel suo significato più greve, dove quel che il romanticismo elevò, qui si rovescia in fallimento, in tragedia. Andreina  rappresenta poi la grande forza narrativa, in fondo colei che ne fece il romanzo più dostoevskiano scritto in Italia, considerato che fu pubblicato per la prima volta nel 1935.

Continuo e aggiungo alla lista L’ottavo giorno della settimana di Marek Hlasko (edizione integrale Mondadori, 1963). Scrittore polacco, Hlasko, morto di alcool, giovanissimo. Raccontava la Polonia degli anni di Gomulka. Erano gli anni in cui gli scrittori dovevano  prendere posizioni ufficiali, indottrinate se così si può dire. Hlasko nella sua prosa scarna, laconica, denuncia la sua giovinezza tradita, la sua Polonia periferica, notturna. Con i suoi barbari avventori, ubriachi di ideologia, apologetica ideologia. Violenza, disumanità, alienazione, questi sono i temi affrontati da Hlasko  in grado di restituirci la sua umanità dolente, celebrata con un ghigno che ha il suono del singhiozzo.

Tropico del cancro

Tropico del cancro

C’è stato poi il libro che mi ha ispirato una diversa idea dell’amore, Il riposo del guerriero di Christiane Rochefort. In prima, in una vecchissima edizione Longanesi, compare una fascettina che recita: “Il romanzo più anticonformista della Francia, famoso per aver fatto arrossire la signora de Gaulle”. Ricordo i miei sussulti leggendo pagine così nuove, così scandalose. La commovente attrazione tra Genevieve e Renaud, diseducato nelle faccende amorose, intemperante, alcolizzato, mi è rimasta addosso a lungo. Una scrittrice che ho ammirato per la capacità quasi sovversiva di imporsi, anticonvenzionale, sopra i ranghi. Ho desiderato un amore simile da allora, un uomo simile, un coraggio simile.

Chiudo con Henry Miller ne Il tropico del cancro (ho l’edizione Feltrinelli del 1967). Un romanzo autobiografico, con tutta probabilità, che raccontava di una Parigi popolata nella sua frangia più oscura da artisti squattrinati, debosciati di ogni specie, americani soprattutto, ambientato negli anni ‘30.  E forse Miller rappresentò l’outsider, l’anti Hemingway. Un romanzo audace, che guadagnò meriti e riconoscimenti a distanza, diventando paradossalmente il vero romanzo degli anni ’60.

Veronica Tomassini per Libri Consigliati

 L’articolo originale è qui: http://www.libriconsigliati.it/5-libri-da-leggere-veronica-tomassini/

Smettere di scrivere

Certo la questione non interessa tutti, ci mancherebbe e meno male: smettere di scrivere? Cosa vuol dire, in definitiva? Per quel che mi riguarda, ho già capito che l’azione è da un pezzo una condizione, uno status, un modo di stare al mondo, di raggiungere le cose, di guardarle (uh, ho scoperto l’acqua calda). Quando si pensa di voler chiudere con la scrittura, forse è il momento in cui si scrive di più, pur non scrivendo. Il momento della consapevolezza o del deserto, in realtà, è il momento in cui la scrittura agisce di sua sponte (concedetemi la locuzione). Ho scritto di più quando pensavo di avervi rinunciato, ed era invece il momento dentro cui si compivano le cose, nell’ora del deserto o di un giardino rinnovato (da oggi piuttosto ricamerò lenzuola) è facile che sopraggiunga ed esaudisca il vero colpo di mano, della sorte. Lo scrittore non sarà mai che questo, sarà uno scrittore, perché è un destino, è una mansione, chiamatemi scema o l’ultima dei protoromantici: sparissero pure tutte le rondini del cielo, diceva il teologo, la primavera si annuncerebbe comunque.

Leggendo un post di Giulio Mozzi

Leggendo un post di Giulio Mozzi sul suo blog (www.vibrisse.wordpress.com) – in cui enuncia una specie di decalogo sui motivi che lo avrebbero potuto indurre a smettere di scrivere o al contrario a insistere invece – ho riflettuto su quel che so già. Senza la mia tristezza non avrei scritto un accidenti. Cosa ho ancora da dire? Non saprei, se non sempre la medesima storia, raccontata ogni volta, come quel regista che gira sempre lo stesso film, io racconto il medesimo dolore, quindici anni di vita, assurda per certi versi, tanto che a volte mi chiedo: chi eri, cosa hai fatto, e adesso cosa farai chi sei. Un giorno di primavera incontrai un ebreo, un ritrattista di origini serbe, senza conoscermi così bene mi esortò: “Tu sai che il dolore è una dipendenza”. Ne dovevo uscire e non volevo, non volevo perché senza quel dolore ero niente, senza quel dolore le mie parole sarebbero restate al fondo, seppellite nell’abulia del mio spirito, simili a certi oscuri bastimenti, calati a picco silenziosamente, di cui nessuno abbia poi accertato l’esistenza. Sarebbero esistite mai quelle parole, sgorgate dal pianto, lo dico con molta enfasi, strappate dalla carne? Sarebbero esistite?

perché scrivo scrivo scrivo

D’Annunzio morì tra le sue carte, sepolto dai suoi scritti, nel suo studio da cui non usciva più. Leggevo di Sciascia, proprio ieri, che volontariamente scelse il medesimo esilio, stufo di ascoltare le amenità, poco interessato al mondo che avanzava fuori forse. La scrittura, ho letto di loro, pretese tutto. Nel mio piccolo universo, nella mia prospettiva di gran lunga minore, posso confermarvi che è vero, che la scrittura vuole tutto, proprio così. Sono sepolta anch’io, nel mio piccolo modesto universo-studio, dalle mie carte, e febbrilmente china scrivo scrivo scrivo, poco interessata al resto, non per indolenza, no affatto. Perché non c’è tempo non c’è modo di sfuggirle, ma non sono posseduta, è un respiro la scrittura. Lo è sempre stata, la compagna, quella fedele, discreta, eppure ostinata. Lo fu da quel giorno in cui ho aperto il diario e non sapevo cosa fosse, un regalo di compleanno scelto molto distrattamente da alcuni parenti, avrei preferito una barbie. Non sapevo quali abissi e quali strani approdi avrei incontrato da allora, da quel giorno in cui con la mano incerta scrissi: Caserta, 7 marzo 1976, caro diario. E lo scrissi di sbieco.

La scrittura è una scienza esatta come il wrestling

angelo

Angelo Orlando Meloni è nato a Catania e vive a Siracusa. Ha scritto la raccolta Ciao campione(Limina) e il romanzo Io non ci volevo venire qui (Del Vecchio Editore). Suoi racconti, interventi e recensioni sono stati pubblicati su riviste e antologie. Aggiorna saltuariamente un blog di colore verde come la speranza, la benzina e l’ecologia. Un altro romanzo, anche se non glielo aveva ordinato il dottore, è in dirittura d’arrivo.

di Angelo Orlando Meloni

Dispensare consigli è affare problematico. In ambito letterario, micidiale. Basta poco per trasformare un compagno di birrette in un vampiro che mai più vedrà la luce del giorno. In un golem animato dalla parola “pubblicazione” che passerà il resto dei suoi giorni a leggere ultramodernisti o neopseudorealisti e il cui tasso metabolico di tristezza sarà quanto meno pari alla rabbia montante in un Bruce Banner costretto ad assistere a una conferenza di Renato Brunetta. Il punto è che la scrittura è una scienza esatta come il wrestling. Si tratta di saper fare, cioè, le mosse giuste, ma c’è sempre il rischio di ricevere una sediata sulla schiena. Quando scrissi il mio primo racconto ci vomitai sopra. Davvero, quella microscopica cacatina era lontana anni luce dai racconti di Kafka che divoravo ben sicuro di emulare e superare il maestro. Invece il mio primo, inedito e cestinato romanzo, una storia d’avventura la cui bruttezza avrebbe intimidito un’orda mongola, non era poi così diverso da un sacco di libri che in questi ultimi anni hanno venduto milioni di copie. Ci deve pur essere una morale, in questa faccenda, un insegnamento nascosto. Il punto è che di riffa o di raffa siamo sempre dalle parti della pedagogia. Ma se la pedagogia giura di essere amica della letteratura, la letteratura quando vede il suo numero sul display butta il telefono nel camino. Per cui lasciamo perdere gli insegnamenti nascosti e i manoscritti perduti e ritrovati da templari che fanno shopping con tacco quindici in un biblio-bar dimenticato. La verità è che alla letteratura piacciono le cattive compagnie, e se è vero che l’hanno chiusa in riformatorio un sacco di volte, lei è sempre riuscita a scappare per darsi alla pazza gioia con il primo che passava di lì. Infine, se poi a qualcuno interessa scoprire come ho fatto a diventare un insignificante scrittore di provincia, ecco l’infallibile metodo per l’autodistruzione: ho letto per un sacco di tempo un sacco di libri perché mi piaceva farlo.Tutto qua. Ma quando ho smesso di pensare che: a) tutto ciò sarebbe servito a qualcosa b) da grande avrei fatto lo scrittore c) leggere romanzi bavosi, arrapanti come una foto di Jabba the Huttcon con una parrucca bionda è un dovere sociale, dannazione, all’improvviso sono comparse le trame, le storie, lo stile. E ‘sti stronzetti non hanno smesso di allenarsi un solo giorno, sperano che la letteratura prima o poi li degni di uno sguardo. Illusi. Sono convinti che la scrittura sia una scienza esatta come il wrestling.

quel numero zero in dodici copie

con Matteo B Bianchi

Matteo, la tua rivista, ‘tina, è considerata un cult, crocevia del meglio che abbiamo (autorialmente) in letteratura. Cosa rappresenta per te tina, quando e perché l’hai fondata?

Ho fondato ‘tina sedici anni fa in un pomeriggio, assemblando racconti di amici che, come me, all’epoca erano esordienti totali.  E’ stato un semplice lavoro di taglia e incolla: ho preso i loro dattiloscritti, ci ho aggiunto una mia introduzione e li ho impaginati in maniera molto artigianale. In un caso particolare si vede persino che il foglio è accartocciato, perché in effetti l’avevo buttato nel cestino per errore, poi sono andato a recuperarlo, cercando di appiattirlo il più possibile, ma è risultato tutto ondulato comunque. Questo per dirti quanto poco professionale fossi. Avevo una tale urgenza di realizzare quel progetto, che mi preoccupavo solo di metterlo in piedi.

Ho fotocopiato quel numero 0 in dodici copie e le ho spedite ai singoli autori e a qualche amico extra.

E’ cominciato tutto così.

Poi, non so come, ‘tina ha cominciato a girare: mi arrivavano a casa lettere di sconosciuti che mi mandavano i loro racconti in lettura, gli amici scrittori la passavano ad altri amici, insomma, in breve ho raccolto materiale sufficiente per realizzare nuovi numeri e da allora non ho mai smesso.

Le prime uscite sono state cartacee, poi ho trasferito tutto sulla rete, trasformando la rivista in una webzine.

Nel corso di questi anni hanno mosso i primi passi su ‘tina diversi autori diventati poi celebri.

Mi sono anche divertito a sperimentare soluzioni diverse: numeri a tema, dizionari, uscite monografiche dedicate a un solo testo o a un singolo autore… Una volta ho persino stampato un racconto su un cartoncino e l’ho spedito in giro. Si chiamava ovviamente “‘tina in cartolina”.

Ho sempre cercato di conservare un carattere ludico, di assoluta spontaneità, nella sua realizzazione.

‘tina rappresenta il mio modo, personalissimo, di mantenere un contatto sempre vivo con ciò che di nuovo sta succedendo nella scrittura. E anche la possibilità, seppur simbolica, di dare una mano a chi si sta addentrando nel mondo della letteratura. 

 Immagino che attraverso tina hai chiuso il cerchio, se si può dire, col tuo lavoro di scouting. Hai mai lanciato un autore attraverso questo canale, appunto attraverso ‘tina?

A dir la verità, quando ho cominciato a fare ‘tina io stesso ero un autore ancora inedito, quindi più che chiudere il cerchio direi che l’ha aperto. La rivista è nata per unire scrittori in erba che, come me, stavano cercando di esordire in qualche modo. I primi numeri della rivista contenevano racconti di Tiziano Scarpa, Paolo Nori, Marco Mancassola, Piersandro Pallavicini… gente che all’epoca non aveva ancora pubblicato nulla, o quasi, e che di lì a breve sarebbe arrivata presso le più grandi case editrici italiane. 

Come riconosci il talento? E dunque l’autore da pubblicare?

Se parliamo di scrittura valida, in genere bastano poche righe per capire se un autore ha un livello buono o se è un disastro. Il problema è un altro: ci sono molti aspiranti scrittori che sanno scrivere mediamente bene, ma non hanno niente da dire o nessuna personalità stilistica. E questa è la cosa più difficile da spiegare e motivare quando qualcuno ti chiede un’opinione sul proprio lavoro.

Per quel che concerne il materiale che pubblico su ‘tina ho una specie di mia formula in testa. In genere il racconto mi deve sorprendere, in qualche modo: per il tono, per il linguaggio, per la trama inaspettata, per la struttura originale. A volte può essere un solo particolare, magari un finale imprevisto oppure la capacità dell’autore di rendere in maniera efficace una certa angoscia adolescenziale o di riprodurre la lingua parlata in un determinato ambiente di lavoro… Diciamo che il racconto deve distinguersi rispetto alle decine di altri che mi vengono sottoposti e in genere questa sua differenza salta all’occhio, almeno per me.

Se devo racchiudere ciò che pubblico in una definizione, in genere utilizzo quella di letteratura “pop”, ma mi rendo conto che è molto vago…

Quando ho curato delle antologie letterarie mi è capitato di selezionare autori che non corrispondessero ai miei gusti personali, ma il cui talento mi sembrava innegabile. Se mi chiedono di assemblare una raccolta di buon livello letterario non devo assecondare miei gusti o capricci. Quello lo faccio liberamente solo con ‘tina.

Chi ti sei perso, tra questi? Chi avresti voluto pubblicare e non hai potuto per qualche ragione? 

Su ’tina ho pubblicato sempre tutto ciò che ho voluto. Il bello di essere direttore e unico redattore di una rivista è che devi rispondere solo a te stesso e seguire i tuoi gusti (il che, come dicevo prima, è ben diverso dall’essere curatore di un’antologia).

Mi è capitato invece di perdere degli autori lavorando con le case editrici.

Ricordo, per esempio, che quando collaboravo con Baldini & Castoldi (oggi Dalai editore) avevo proposto il primo romanzo di Marco Mancassola, che era stato rifiutato (in seguito lo pubblicò Mondadori). L’estate scorsa mi ero innamorato del romanzo di un autore, Sandro Campani, che aveva già pubblicato per due piccoli editori. Volevo assolutamente inserirlo nel catalogo Indiana, ma ce l’ha soffiato Rizzoli.

Ogni tanto in questo lavoro devi imparare a rinunciare, a capire che il tuo buon fiuto non basta. Però mi consola vedere che autori sui quali avrei puntato poi fanno carriera altrove. Significa che comunque ci avevo visto giusto. (Ovviamente succede anche il contrario: autori che segnalo, vengono pubblicati e poi non hanno il riscontro che mi auguravo. Sono i rischi del mestiere).

E poi c’è “Il dizionario affettivo della lingua italiana”.

E’ un libro nato da un numero speciale di ‘tina. Avevo avuto questa idea di chiedere ad alcuni amici scrittori quale fosse la loro parola preferita e perché. Avevo raccolto le loro risposte in forma di dizionario e le avevo pubblicate. Erano circa una trentina.

Il numero aveva avuto da subito molta fortuna, era stato segnalato da qualche quotidiano, gli autori presenti se ne erano entusiasmati e avevano cominciato a diffonderlo in rete. La cosa ha destato l’interesse di Giorgio Vasta, che all’epoca curava una collana per la scuola Holden pubblicata da Fandango, e mi aveva proposto di trasformarlo in un dizionario vero e proprio.  Io ho accettato a patto che lui stesso mi aiutasse nell’impresa. Mettendo insieme le nostre comuni conoscenze siamo riusciti a realizzarlo nel tempo record di soli sei mesi.

Purtroppo il testo è capitato in un periodo particolare per Fandango: stavano cambiando direttore editoriale, la collana curata da Vasta è stata chiusa e la gestazione del volume è stata un po’ travagliata. Per dire, non abbiamo potuto scegliere una copertina o un’edizione adatta (nei nostri progetti avrebbe dovuto avere anche l’aspetto del classico dizionario rilegato, invece è stato pubblicato in formato paperback con un incongruo cuore in copertina). Malgrado questi intoppi, alla sua pubblicazione (nel 2008) il libro ha avuto un ottimo riscontro: ne hanno parlato con risalto tutti i quotidiani, ha avuto due ristampe e ha dato via (direttamente o indirettamente) a una serie di eventi paralleli. Ricordo che quell’anno il festival di Pordenone  chiedeva a tutti gli scrittori partecipanti di selezionare la propria parola preferita da mettere sul sito del festival, la trasmissione letteraria di Radio Rai Tre Farenheit ha posto la la stessa richiesta agli ascoltatori…

L’anno scorso ho realizzato un nuovo numero di ’tina dove ho esteso la partecipazione ad autori che avevano esordito dopo il 2008 o che erano sfuggiti alla prima edizione. Si trova on line qui (www.matteobb.com/tina/issueSP2index.html).

A tuo avviso, dove sta andando la letteratura? 

Dove le pare.

matteo b bianchi

Matteo B. Bianchi ha pubblicato quattro romanzi (l’ultimo è “Apocalisse a domicilio”, Marsilio), è editor presso la casa editrice Indiana ed è uno degli autori della trasmissione tv “Quelli che il calcio” (Rai Due). Il suo blog è: matteobblog.blogspot.com

Nella tessitura di un mistero – Poesie di Milo De Angelis

di Elio Grasso

La vita di Milo De Angelis è un mistero. Un mistero donato. Che sia stato il poeta da giovane, magro e febbrile, o quello maturo e ingigantito mentre percorre quasi di fretta – onnipresente borsa a tracolla – una strada di Milano, a rilasciare agli amici e agli estranei le sue poesie, non è ora dato sapere quale qualità di vita egli abbia assecondato per sé. Per sé una poetessa del valore di Giovanna Sicari, un figlio, e sei libri di poesia dal 1976 al 2005. Determinato dalla miriade di foglietti di varianti sparsi sul pavimento, o dalla creazione di un “canto”difficile”, con una carica propulsiva che non ha uguali nel nostro secondo Novecento, tranne forse che in quel Pavese che si annunciava nel lontano 1932 con i suoi primi versi pubblicati, I mari del Sud. Mistero legato ai passi sotto le tangenziali, specie di moderno Icaro terreno occupato a circondare Milano con i suoi versi, dando alle parole il significato di Oceano ostinato e onnipresente: “Nostra Signora degli insonni, / custodisci queste vene che furono marea, / voce spartita in assemblea e inchiostro, / polvere di una gioia colpita / ad altezza d’uomo…”. Nessun incaglio visibile, o se c’è stato, è rimasto nella tessitura di quel mistero. Perché le poesie di Milo sono come i quadri di Bacon, sembra che tutto sia deforme, incomprensibile, imprendibile, poi ci si accorge di colpo che tutto non può che essere così, proprio in quel modo, esatto, dato: “Noi portiamo alla terrestre / uno sposo, sempre nello stesso / cuore: con le ossa della / grande madre graffiata / nei campi di carbonella…”. E’ l’effetto Novecento che ci pervade e che non faremo più in tempo a sciogliere. Le nostre generazioni si sono legate a questa discesa per certi modi meravigliosa, come se la verità avesse una sola direzione. Una sfida che rimane, ma alla poesia non importa se la vita ha blocchi o slarghi, strade o sentieri. Tutto questo si può leggere oggi nell’opera di De Angelis, trent’anni di poesia e di obbedienza come se l’uomo non avesse avuto altro da perseguire. Eppure dell’altro c’è stato. Ecco il mistero. Nessuna “occasione” montaliana rilanciata, come scrive Affinati nella magnifica presentazione. Occorre una serie di “momenti giusti”, con una presenza continua, anche a costo di pagarla cara. Non è tanto il fuoco, o la febbre, quanto una calma assorta, che quasi possa confondersi con la pratica laconica della parola. E lì dentro, come in una conchiglia, il rumore della città diventa soffio degli dei. Dai greci ad appena ieri, quasi una deformazione magnetica dello spazio, non c’è fuga di tempo, il tempo è sempre lo stesso. Eppure talvolta la poesia di Milo sembra estranea all’epoca in cui appare. E non certo per le visioni “moderne” e sironiane della sua città. Non si tratta di appellarsi a ciò che il suo sguardo vede, nessuno si sognerebbe mai di stare al posto di Bacon poco prima che la densa pennellata posi sulla tela la figura di un uomo nudo, o di un Papa impazzito. Chi oserebbe pensare che sta copiando Velásquez? E chi potrebbe, anche con mezzi critici formidabili, asserire che Milo porti Celan tale e quale o “somigliante” sulla sua pagina? Poi c’è il furore, altra sostanza da cui farsi possedere, senza equivoci o come un destino che appare all’improvviso: “L’inizio ci assale. Volevamo capirlo / alla velocità dei morti, perdonare / le mani, quando urlano che nessuno / udrà il fruscio di queste biciclette / tra quindici anni o un rovescio di pioggia…”. Il furore per una memoria che asseconda la determinazione del padre e della madre, sia che Milo in quel momento preciso si senta padre o figlio. Determinazione a legare, a trascinare o peggio a ripararci dal mondo, contadino o cittadino. Sopravvivere dunque è questo camminare senza mai fermarsi, in mezzo a tutte quelle cose che sapevano di poter dire: “era tanto che ti aspettavamo”. Ecco come si può pensare che il mistero della propria vita Milo non l’abbia lasciato a sé, povero e trasandato, ma l’abbia per così dire vestito di tutte le possibilità che la sua lingua poetica ha prodotto: l’intero spiegamento delle poesie mostra oggi quella “svolta del respiro” avvenuta molti anni fa e mai tradita. Un soffio venuto dall’antichità per alimentare i falò che rischiarano e rigenerano, e per insegnare a protendere nel tempo il potere espressivo, precedendo quel che resta del fuoco. Leggendo il Libro di De Angelis, così come si può leggere il Libro di Montale (un altro poeta novecentesco allo stesso modo avvinghiato alla propria lingua, almeno fino agli anni della Bufera), si intende come la storia sia stata messa al mondo fin dall’inizio, senza che nulla venisse regalato. Pellegrinaggi e speranze, amori e ferite, donne e farmaci, vino e morte vengono dotati di senso e rafforzati nell’intreccio scandagliante e “scandaloso” della vicenda poetica, sapendo bene l’uomo-poeta – dal profondo mistero in cui si trovava – quel che voleva essere, e tenendo stretto il timone nella propria traversata: “… un secolo intero scorreva / nei suoi movimenti / perché era l’unicità. / Eppure qualcuno, già salvo, / sfidando i suicidi vicino al letto e le pastiglie / che cadono dalle mani / qualcuno sta dicendo: / l’isola sarà guardata nella sua bellezza / non importa se da noi o da altri.”

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para

Una lunga vacanza

di Elio Grasso

La poesia per me è sempre servita a stanare le parti più o meno segrete della psiche e dello stomaco. Per farlo occorre un linguaggio nuovo, quanto meno personale, molto vicino a quello che usa la natura per inventarsi le proprie creature minerali e animali. Qualcosa che spesso assomiglia al caso, ma che forse non lo è. I nostri sentimenti  sono spesso conseguenti a esperienze o incontri che non sembrano legati a un rapporto causa/effetto. I bravi poeti indagano tutto questo, e lo esprimono in modo nuovo. I bravi poeti non lasciano perdere le piccole cose per buttarsi sulla loro natura divina. Perché in fondo è questo che conta: abbandonarsi alla biografia che emoziona. Chatwin commuove se ci parla degli aborigeni australiani e del loro modo di seguire i Canti, per creare il mondo e l’universo. Brodskji ci conquista quando gira per una Venezia sul punto di cadere nel baratro, mentre si percepisce che continua a far parte di un mondo più vasto, dove questi nomadi dello spirito avanzano e cercano, e scrivono come se fosse la cosa più importante. E lo è. Nasce tutto da lì, se ci pensiamo, anche se stiamo tagliando una cipolla per fare il soffritto, o semisdraiati sul divano in attesa di chissà cosa. Conosco un poeta, Sissa, che riesce a mettere in rima esperienze pedagogiche uniche, o descrivere in versi anche un’azione tecnica e paurosa come la TAC.  Conosco Niccolai, che ha saputo scrivere sulla sua esperienza religiosa (il buddhismo) in un modo per niente astratto e difficile: Giulia ha poesie che sono racconti di un’arrampicata in Tibet, o di un Naviglio scomparso a Milano, scovando tutto ciò che lega questi eventi: i pensieri inscritti nelle cose, e non viceversa. Suppongo che ovunque vi siano poeti in grado di prendere la geografia e la biografia,  trasformandole in un’esperienza poetica unica ed emozionante. Ma anche la mia Genova non si risparmia: il ragazzaccio Rimbaud, stufo della poesia, sceso alla stazione di Principe per imbarcarsi verso l’Africa, dove contrabbandò armi e scrisse lettere a madre e sorella perché bisognoso di soldi. E Frénaud (con il Silenzio di Genova), Stendhal, Nietzsche che sbaglia treno e arriva quasi alla periferia dove sono nato e vivo… A parte gli stranieri, c’è Campana che incontra Sbarbaro in uno dei carruggi più belli del centro storico dichiarando con fare tranquillo:  “Tu una volta eri Sbarbaro… adesso chi sei?”  E dire che Campana era stato segnalato dalla polizia genovese come un individuo da tenere d’occhio, pericoloso. E poi Caproni, e Montale in misura minore perché lui pensava ad altro. Dentro a questi rilievi “geografici” non è mancato Wallace Stevens e il suo Connecticut, e Cape Cod di fronte all’Oceano. Ma in questi esercizi vi sono stati anche i signori dell’avanguardia, da Porta a Spatola, a Viviani, molto meno Sanguineti anche se lui pure è di Genova. In fondo ho già un bel po’ di  anni, e dunque ho fatto in tempo a intossicarmi anche del verso libero, o dell’apparente mancanza di emozioni. Se poi aggiungiamo una certa reticenza a parlare dei fatti miei, soprattutto in poesia, il gioco è fatto. Mi ci sono voluti parecchi anni, e parecchi libri di poesia, anche quelli scritti dalle nuove leve,  prima di capire che la poesia non è solo una tecnica, una metrica, una grande lontananza dal mondo, e quindi dal lettore. E per capire che alla finitura di un verso, scritto in quel modo e non in un altro, possono concorrere diverse cose, e non soltanto bravura tecnica. E poi? Poi ci sono gli americani, non solo i poeti ma anche narratori come Hemingway e Fitzgerald e Kerouac seguendo le orme di Fernanda Pivano. E poi Roth, Ballard, DeLillo,  partendo da Pavese, Fenoglio… Ma chissà perché, per molti anni quasi me ne vergognavo.  Non dicevo che mi divertivo leggendo Laughlin, perché sembrava riduttivo leggere un tizio che sciava per tutto l’anno e poi scriveva poesie sulle proprie donne. Ma intanto quest’uomo  pubblicava nelle sue edizioni (New Directions), Pound, Miller, T. Williams, Thomas… Ai tempi dell’impegno era sconveniente seguire un poeta a cui piacciono le belle ragazze. Tutto questo c’entra con lo scrivere bene, con l’interessare il lettore, anche se con difficoltà, anche se nessuno può dire che la poesia sia facile: come tante altre cose ha le sue complicazioni, come cucinare un buon piatto di pasta con le vongole. Forse in molti lo sanno fare, ma pochi riescono ad aggiungere quel tocco che le rende memorabili, poesie e pasta… E qui mi fermo, perché troppi languori tutti in una volta è bene non suscitarli. E quanti altri nomi mi sono rimasti nel cuore? De Angelis, Sicari, Costa, Anedda, Cascella, Massari, Stefanini, Carnevali, Carifi, Ruotolo, Strand, Magrelli, Mandel’štam, Celan, Eliot, Sanesi… Ma è poi vero che occorre andare sulle pagine, tenerle, inseguirne il tempo… per questo bisognerebbe prendersi una lunga vacanza e scrivere un libro… Per quanto mi riguarda nel mio computer questo libro c’è già, aspetta solo una vacanza o la morte perché esca fuori.

Elio Grasso è nato a Genova nel 1951. Poeta, critico. L’ultima raccolta pubblicata è E giorno si ostina (puntoacapo, 2012). Ha tradotto Four Quartets di T.S. Eliot (Palomar, 2000), The Sonnets di W. Shakespeare (Dell’amore, Barbès, 2012), una scelta delle poesie di E. Carnevali (Ai poeti e altre poesie, Via del Vento, 2012). Scrive sulle riviste “Poesia”, “Pulp-libri”, “Steve”, “Italian Poetry Review”, “Gradiva” e altre. E’ stato tradotto in inglese da E. Di Pasquale e in francese da J.-B. Para.

E dopo l’esordio?

                                                         di Alessandra Sarchi 

Quasi un anno fa, il 17 gennaio 2012, è uscito il mio primo romanzo, “Violazione”, pubblicato da Einaudi nella collana Stile Libero. Non era il mio primo libro, avevo già pubblicato nel 2008 una raccolta di racconti, “Segni sottili e clandestini”, con l’editore Diabasis. Ma la stampa meno filologica, o meno scaltrita, ha comunque fatto passare “Violazione” per un esordio. Infatti l’esordio è diventato quasi un genere letterario a sé nel mondo editoriale italiano. La ritualità che si è venuta a creare intorno all’esordio riguarda curiosamente molto di quello che è avvenuto prima che un testo diventasse un oggetto-libro, come se a posteriori – una posteriorità molto breve intendiamoci, nemmeno il tempo di far arrivare il libro sugli scaffali – si volesse mitologizzare il percorso che ha portato alla pubblicazione, sovraccaricandone l’eccezionalità e in un certo senso le attese. Ora, tutti quelli che scrivono e molti di coloro che leggono sanno quanto possa essere difficile e non lineare il tragitto che porta un file del proprio computer ai laboratori di stampa di una casa editrice, di quanti filtri ci sia la giusta necessità e di quante mediazioni, e attribuisco qui alla parola un valore positivo, non clientelare, poiché le mediazioni sono il frutto di incontri umani e intellettuali che nulla hanno a che vedere con le raccomandazioni. Sotto questo aspetto il mio primo romanzo non fa eccezione e, ringraziate a suo tempo le persone che dovevo ringraziare per aver letto, corretto, suggerito e sostenuto, non credo sia interessante spendere ulteriori parole sul come e quando “Violazione” è diventato un libro stampato, o sulle lacrime e sangue che mi è costato. Ciò che è meno evidente da raccontare, e anche da immaginare, è cosa succede dopo che il libro è uscito. Per quanto mi riguarda alla fatidica data avevo un’influenza che m’inchiodava in casa e non mi concedeva il gusto di vedere ‘la creatura’ in libreria. Ho apprezzato dunque gli amici che mi hanno chiamato per dirmi che l’avevano visto o l’avevano comprato e mi ha fatto molto ridere la telefonata di mio fratello che si trovava nella libreria di un ipermercato dove il mio libro appena arrivato non era fra le novità bensì, nell’esiguo numero di 2 copie, in uno scaffale in mezzo a dei gialli. “Non hai speranze”, è stato il suo commento, sempre incoraggiante com’è d’uso nel nostro collaudato schema di comunicazione tra fratelli, almeno dai tempi dell’infanzia. E comunque, in parte, il commento di mio fratello arrivava al punto: non è detto che tutta l’attesa covata per l’uscita del libro si risolva in una celebrazione ininterrotta, in una fila di omaggi e conferme. Anzi, io direi che la parte difficile inizia proprio quando ‘la creatura’ si stacca, diventa un oggetto commerciale, vendibile e acquistabile, valutabile e criticabile come ogni altra merce, salvo il fatto di appartenere alla categoria più delicata e complessa dei prodotti culturali, e di essere considerato almeno da chi l’ha scritto un condensato di pensieri, immagini, esperienze cui nessun prezzo e nessun giudizio, positivo o negativo, renderanno mai piena giustizia, insomma un figlio che è diventato grande e va nel mondo. E allora bisogna armarsi di molta pazienza per le avventure e le prove cui ‘la creatura’ sarà sottoposta, perché a meno di non voler diventare un genitore dispotico e intollerante, si devono concedere autonomia e libertà e soprattutto tempo perché il libro faccia la sua strada nel mondo e possibilmente trovi il suo posto. Giusto per fare un esempio: mi aspettavo che “Violazione” suscitasse risposte abbastanza immediate in Emilia, dove vivo, perché di territorio emiliano si parla in maniera diffusa nel libro, invece le reazioni più vivaci sono venute dal sud, e solo dopo localmente. Forse perché per un lettore del sud scoprire una storia di degrado ambientata non da Scampia in giù ma nel nord progressista e bempensante è più rivelatorio, chissà. Di sicuro anche capire chi sono i tuoi lettori, cosa hanno trovato e apprezzato, o criticato, nel tuo libro è un’altra di quelle cose che non fanno parte del kit dell’esordiente, ma che rientrano nella vita del libro e del suo autore e vanno accettate e metabolizzate. Mi è capitato ad esempio di ripensare il mio romanzo da angolazioni inedite, a seguito di incontri fatti con lettori, e questo per una creatura che si è concepita e partorita è sempre un fatto rilevante. Mi è capitato di essere delusa perché alcune questioni nodali non sono state, in certe occasioni, colte o valorizzate. Ma come si diceva l’impegno è quello ad essere un genitore saggio che, pur difendendo la propria creatura, non le vieta l’esperienza necessaria a stare nel mondo. Perché è lì che i libri devono stare e non, solo, nell’identificazione personalistica con il loro autore. Infatti sono formidabili tramiti di socialità, permettono alle persone di incontrarsi, conoscersi, discutere e condividere, in alcuni casi dissentire e perfino litigare, insomma ci permettono di essere quello che per Aristotele era la massima espressione di umanità: essere animali sociali. Di questo sono molto grata a “Violazione” a tutti coloro che hanno voluto o vorranno leggerlo e discuterne. Infine, come molti di coloro che scrivono sanno, ogni libro è in un certo senso postumo, perché nel frattempo (mentre ricevevi la tua buona dose di rifiuti, di inutili attese, di promesse, di interminabili tempi editoriali) la vita è andata avanti, il tuo paesaggio mentale è cambiato, la realtà intorno pure, e la scrittura ti aspetta, ogni giorno, per provare ad inseguirli.

Alessandra Sarchi è nata a Reggio Emilia nel 1971, vive a Bologna e si occupa di traduzioni ed editoria. Ha studiato storia e critica d’arte alla Scuola Normale di Pisa, ha svolto un dottorato di ricerca a Ca’ Foscari, Venezia. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Nel 2008 ha pubblicato la raccolta di racconti “Segni sottili e clandestini” presso l’editore Diabasis. Scrive sulle pagine di Alias supplemento culturale de “Il manifesto”. Sul blog Doppiozero.com cura la rubrica “La vita e le forme” ed è fra i redattori di Leparoleelecose.com. “Violazione” il suo primo romanzo (Einaudi, stile libero 2012) è stato finalista al premio Pozzale-Luigi Russo e ha vinto il premio Paolo Volponi opera prima.

Alessandra Sarchi  nella stesura del romanzo è stata seguita dallo scrittore e talent scout Giulio Mozzi, mentre il suo primo estimatore fu Giorgio Vasta.

Alessandra Sarchi è nata a Reggio Emilia nel 1971, vive a Bologna e si occupa di traduzioni ed editoria. Ha studiato storia e critica d’arte alla Scuola Normale di Pisa, ha svolto un dottorato di ricerca a Ca’ Foscari, Venezia. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Nel 2008 ha pubblicato la raccolta di racconti “Segni sottili e clandestini” presso l’editore Diabasis. Scrive sulle pagine di Alias supplemento culturale de “Il manifesto”. Sul blog Doppiozero.comcura la rubrica “La vita e le forme” ed è fra i redattori di Leparoleelecose.com“Violazione”, il suo primo romanzo (Einaudi, stile libero 2012), è stato finalista al premio Pozzale-Luigi Russo e ha vinto il premio Paolo Volponi opera prima.